L’etica non è fine a se stessa. È espressione di valori morali più profondi: princìpi codificati che guidano le nostre azioni sulla base di quello che consideriamo giusto. Ma l’etica può sganciarsi dai valori che dovrebbe servire, e quando lo fa può portare non solo alla confusione, ma anche alla complicità con il male.

Nell’azione umanitaria questo disancoramento può manifestarsi in quello che durante il genocidio in Bosnia un operatore definì “umanitarismo totale”: un perverso rovesciamento nel quale gli ideali della solidarietà si sostituiscono all’imperativo politico e morale di affrontare le cause della sofferenza.

Il programma di aiuti israeliano rischia di favorire un progetto più bieco: facilitare la pulizia etnica attirando i palestinesi dal nord al sud di Gaza

In Bosnia negli anni novanta la comunità internazionale, di fronte agli orrori della pulizia etnica, non fu capace d’intervenire politicamente. Fornì aiuti di emergenza invece di un’azione politica efficace.

Come ha sostenuto il ricercatore britannico Matthew Bywater, questo “alibi umanitario” permise ai governi occidentali di mantenere una parvenza d’impegno sostituendo la fornitura di assistenza al lavoro più difficile: affrontare i responsabili della violenza. L’umanitarismo diventò un modo per gestire le conseguenze del conflitto senza affrontarne le cause e senza nemmeno proteggere chi doveva aiutare le vittime. Bywater ha scritto che “il compito di proteggere le operazioni umanitarie e non i civili era ripetuto come un mantra dai comandanti dell’Unprofor (la forza delle Nazioni Unite in Bosnia). La protezione si estendeva solo ai convogli di aiuti, non alla popolazione, che invece subiva violenze, espulsioni forzate e uccisioni di massa anche nelle cosiddette zone sicure”.

Oggi a Gaza vediamo una dinamica simile. Le agenzie che operano sotto assedio si trovano di fronte a un dilemma. Il blocco di Israele ha trasformato Gaza in una catastrofe umanitaria. Le organizzazioni, spinte dall’imperativo di alleviare le sofferenze, vogliono continuare a consegnare aiuti. Eppure questi aiuti operano all’interno dello stesso sistema di apartheid che ha creato la crisi e probabilmente lo legittimano. Non si tratta solo di una questione di logistica, è uno stallo morale.

Un esempio estremo è il programma israeliano di aiuti per Gaza, proposto per mettere fine alle sofferenze più immediate della popolazione. Le organizzazioni umanitarie si sono rifiutate di entrarci, perché rischia di favorire un progetto più bieco: facilitare la pulizia etnica attirando i palestinesi dal nord al sud della Striscia, concentrandoli in un’area minuscola per poi cacciarli definitivamente, che è l’obiettivo dichiarato del governo israeliano.

Con la loro scelta le agenzie riconoscono una verità scomoda: l’aiuto non può essere dato a ogni costo e in ogni circostanza. Il rifiuto delle organizzazioni si fonda sul fatto che il programma israeliano non rispetta i princìpi umanitari più semplici, che proibiscono un approccio discriminatorio e rifiutano la strumentalizzazione degli aiuti a fini politici.

Tuttavia, anche se tutti i valichi fossero aperti e le agenzie potessero distribuire aiuti come prima dell’attuale assedio, da un punto di vista morale sarebbe giusto per loro farlo? O assistere i palestinesi in questo momento storico significa legittimare i quasi sessant’anni di occupazione, oltre che fare un favore a Israele, garantendo l’assistenza che lo stato ebraico sarebbe costretto ad assicurare in base al diritto internazionale?

Le agenzie umanitarie, spinte dalla necessità e dalla pressione politica, puntano a mitigare la sofferenza, anche se questo significa legittimare l’oppressione

Il nocciolo del problema è che oggi ai princìpi umanitari manca una soglia minima non negoziabile. La loro priorità è alleviare le sofferenze nel breve termine, spesso senza tenere conto delle conseguenze a lungo termine o delle ingiustizie sistematiche che perpetuano le crisi. La conseguenza è una pericolosa elasticità: l’umanitarismo totale giustifica quasi ogni compromesso, purché le sofferenze diminuiscano, anche solo di poco.

Questa è una trappola in cui possono cadere anche i giornalisti. Nel caso della Bosnia, Bywater nota che l’attenzione mediatica sulla fornitura parziale di aiuti non solo oscurò la necessità di mettere fine al conflitto, ma servì ad allontanare l’opinione pubblica da quell’imperativo.

Anche mentre “l’Onu sfamava le persone e poi permetteva che fossero bombardate” – come ha scritto il giornalista David Rieff nel suo libro Slaughterhouse: Bosnia and the failure of the west (Mattatoio. La Bosnia e il fallimento dell’occidente, Touch­stone 1996) – Bywater osserva che “alcuni mezzi d’informazione britannici esagerarono l’importanza del contingente militare di Londra nella missione Unprofor, distraendo l’opinione pubblica, che chiedeva con forza al governo d’impegnarsi per mettere fine alla guerra”.

Molti riconosceranno questo schema nella copertura di Gaza. Gli organi d’informazione, soprattutto quelli che si occupano di crisi internazionali, seguono princìpi – oggettività, equilibrio, neutralità – e criteri di notiziabilità che dovrebbero guidare il lavoro del giornalista. Ma questi codici etici, come in campo umanitario, dovrebbero essere l’espressione di un impegno morale più profondo nei confronti della verità, della giustizia e della dignità umana. Quando si distacca da questi valori, anche il giornalismo rischia di essere complice dell’ingiustizia.

I giornalisti spesso si affidano agli eserciti o alle organizzazioni umanitarie per avere accesso alle informazioni, soprattutto in contesti ad alto rischio in cui il muoversi in modo indipendente è pericoloso o impossibile. Tuttavia, quando evitano di mettere in discussione alcune narrazioni pur di salvaguardare l’accesso alle fonti, o danno lo stesso peso alle parole dei sopravvissuti e dei carnefici, potrebbero legittimare delle interpretazioni problematiche.

Come ha detto di recente Tanya Haj-Hassan, pediatra di Medici senza frontiere, alla Bbc: “Non si chiede a chi commette un genocidio la sua opinione sul genocidio”. Inoltre, una cronaca che si concentra sulle dinamiche della sofferenza – l’ospedale distrutto, la famiglia sfollata – oscurando i protagonisti e le forze responsabili della crisi sovverte la storia, rappresentandola come una vicenda di bisogni soddisfatti e vite salvate, e non di ingiustizie.

Questo processo è deleterio. Le agenzie umanitarie, spinte dalla necessità di far qualcosa e dalla pressione politica, restringono i loro obiettivi e puntano a mitigare la sofferenza, anche se questo significa legittimare l’oppressione.

I giornalisti, spinti dalla necessità di arrivare alle fonti e dalle pressioni istituzionali, riflettono queste narrazioni, amplificando una versione della realtà estranea al contesto. L’opinione pubblica riceve una storia di dolore frutto di una selezione, che è vera ma incompleta, e che rafforza le stesse strutture di ingiustizia che pretende di smascherare.

L’errore fondamentale, nell’umanitarismo e nel giornalismo, è mettere l’etica che guida le proprie azioni al di sopra dei valori che dovrebbe servire. Nell’agire umanitario l’impegno alla neutralità e all’imparzialità può scavalcare i più profondi imperativi morali della giustizia e della verità. Nel giornalismo l’impegno all’equilibrio e all’oggettività può soffocare la solidarietà con gli oppressi e oscurare le cause sistemiche della sofferenza.

Questa non è un’argomentazione che invita ad abbandonare l’etica: è un appello a ricollegare i codici etici alle loro radici morali. Le persone che si occupano di solidarietà devono riconoscere che non è una cosa fine a se stessa, ma uno strumento per tutelare la dignità umana e la giustizia. I giornalisti devono capire che l’oggettività e l’equilibrio non sono valori quando aiutano a normalizzare l’oppressione o ad ammorbidire le atrocità. Tutti devono chiedersi: a quali valori sono ancorate le nostre decisioni?

Ci saranno momenti in cui l’unica azione possibile sarà fare un passo indietro, rifiutarsi di fornire aiuti che facilitano la pulizia etnica, rinunciare a raccontare storie che semplicemente ripetono narrazioni tossiche.

Senza questa bussola morale l’umanitarismo rischia di diventare un alibi per l’inedia politica, e il giornalismo rischia di diventare un megafono per l’ingiustizia. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1617 di Internazionale, a pagina 41. Compra questo numero | Abbonati