Come tante altre università statunitensi, la scorsa primavera anche la Simmons university di Boston ha dovuto adeguarsi in fretta al covid-19, chiudendo le sale per le conferenze e spostando le lezioni online. E ora, come molti altri atenei, si sta preparando a un autunno a distanza.
Ma la Simmons, un’istituzione privata femminile fondata nel 1899, vuole spingersi ancora più in là. Oltre a confermare tutti i corsi online per l’autunno, ha deciso di lanciare un nuovo programma a distanza di primo livello che proseguirà anche dopo la fine della pandemia. Realizzato insieme alla 2U, un’azienda che offre tecnologie per la didattica, questo programma non si rivolge solo a chi è già iscritto all’ateneo ma “anche a nuovi tipi di studenti, persone che altrimenti non potrebbero partecipare alla esclusiva ed eccellente istruzione garantita dalla Simmons”, spiegava a maggio la sua presidente Helen Drinan. L’esperimento potrebbe anticipare i cambiamenti che ci aspettano.
Il covid-19 ha costretto le università di tutti gli Stati Uniti a confrontarsi con l’istruzione a distanza, in molti casi per la prima volta. Studenti e genitori – che in passato associavano le lezioni online alle scuole che sfornano diplomi senza valore – si sono ritrovati immersi in una nuova realtà, mentre docenti e dirigenti scettici hanno dovuto frequentare corsi intensivi per capire come gestirla.
La storia potrebbe ricordare il 2020 come un punto di svolta, il momento in cui l’istruzione online ha smesso di essere un servizio di nicchia ed è diventata una componente essenziale dell’esperienza universitaria.
Alcuni atenei approfitteranno dell’opportunità per tagliare le spese di strutture e didattica e adotteranno un modello ibrido, con lezioni sia a distanza sia in aula. Altre, come la Simmons, lanceranno nuovi programmi aumentando così le loro entrate e allargando l’istruzione superiore a nuovi studenti che non metteranno mai piede nel campus. E in alcuni casi nasceranno modelli di apprendimento completamente inediti che con il tempo diventeranno sempre più popolari.
Nuovi studenti
In un mondo come quello universitario, con secoli di storia alle spalle, i cambiamenti avvengono lentamente. Ma gli investimenti degli atenei in tecnologia e formazione – e il fatto che sono sempre di più gli studenti, i genitori e i docenti che sembrano accettare la didattica online – trasformeranno definitivamente l’istruzione superiore negli Stati Uniti. E visto che molte università in altri paesi prendono a modello gli Stati Uniti, alla fine le conseguenze saranno globali.
“Le persone pensano al covid-19 come a un terremoto. Non è una metafora sbagliata, ma dobbiamo pensare a un terremoto al centro dell’oceano Pacifico”, sostiene Ben Nelson, imprenditore e fondatore del Minerva, un college online molto selettivo. “È fortissimo, ma nessuno se ne accorge fino a quando non diventa uno tsunami”.
Dall’altra parte del paese rispetto alla Simmons, i tecnici dell’Arizona state university hanno passato gli ultimi mesi a installare migliaia di videocamere e altre apparecchiature per l’insegnamento a distanza in ottocento aule. Non è una misura temporanea, spiega il presidente Michael Crow. “Non abbiamo speso dieci milioni di dollari solo per affrontare i prossimi due semestri”.
Crow è da sempre un grande sostenitore della didattica online. In primavera il suo ateneo ha conferito 42.642 lauree online, contro le 1.582 del 2011. Gli studenti possono frequentare le lezioni a distanza o in presenza, un modello ibrido che li aiuta a laurearsi più velocemente e, in alcuni casi, ad avere più di una specializzazione.
Crow è convinto che la sua università sia l’avanguardia di una rivoluzione che spalancherà le porte del settore, offrendo lauree brevi a chiunque voglia studiare. “Abbiamo bisogno di milioni di persone con un’istruzione superiore”, continua. “Stiamo facendo tutto il possibile per rendere accessibile il campus, ma ci rivolgiamo anche a chi avrebbe sempre voluto frequentare l’università e non ha potuto farlo”. Man mano che l’offerta di corsi cresce, molti studenti si allontanano dalle università tradizionali – soprattutto da quelle che non hanno abbassato la retta per la didattica a distanza – e s’iscrivono alle università specializzate nell’insegnamento online. E queste sperano di intercettare gli studenti finora legati all’esperienza del campus offrendo percorsi di laurea più veloci ed economici.
Una domanda fondamentale
La Western governors university (Wgu), un’università privata online fondata nel 1997 da un gruppo di governatori degli stati occidentali, è specializzata in corsi di laurea per adulti che lavorano. Ma ultimamente, spiega la rettrice Marni Baker Stein, si stanno iscrivendo anche dei giovani, attirati dalla possibilità di prendere una laurea e contemporaneamente lavorare. Dal 2016 al 2020 gli iscritti tra i 18 e i 24 anni sono aumentati in modo consistente, passando dall’1 al 12 per cento del totale. “Sono sempre di più i ragazzi e le ragazze di quell’età che non vogliono indebitarsi per studiare ma allo stesso tempo non vogliono rinunciare all’università”, dice Baker Stein. “Il covid-19 ha semplicemente accelerato questo processo”.
Chi è a favore dell’insegnamento
online lo considera un modo per dare più opportunità a chi prima considerava la laurea una meta irraggiungibile: adulti che lavorano, genitori single, persone con disabilità o impegnate a tempo pieno nel lavoro di cura, e giovani che non potevano permettersi i costi crescenti delle rette.
Ma molti altri sostengono che con questo modello si perde l’essenza dell’istruzione universitaria: il processo dell’apprendimento tra colleghi è sostituito da un’esperienza rigida, e l’atmosfera del campus, concepita per incoraggiare il pensiero critico, è sostituita da videochiamate su Zoom. Nelle sue varianti peggiori, l’istruzione online consiste semplicemente nel far laureare gli studenti il più rapidamente possibile, lasciando poco spazio al vero apprendimento.
Al centro del dibattito c’è una domanda fondamentale: qual è il ruolo delle università? Servono a garantire la mobilità sociale e a preparare milioni di persone a carriere ben retribuite? O a formare le menti al pensiero critico?
Per tutta la seconda metà del novecento gli Stati Uniti cercarono di raggiungere entrambi gli obiettivi. Le università pubbliche si moltiplicarono e questo permise di avere un’ampia offerta di qualità a costi accessibili. Ma a partire dal 1990, quando gli stati hanno cominciato a tagliare i fondi, negli atenei pubblici la retta media per i corsi di laurea di quattro anni è triplicata(da 3.510 a 10.440 dollari). Il debito degli studenti è salito alle stelle e la percentuale di diplomati che frequentano corsi quadriennali si è fermata al 44 per cento, dopo essere cresciuta stabilmente tra il 1970 e il 1990. Ora l’insegnamento online potrebbe invertire di nuovo la tendenza, ma anche cambiare definitivamente la nostra idea di università.
La formazione a distanza nacque nel novecento con i corsi per corrispondenza (ancora oggi popolari tra i detenuti), ma la prima istituzione a offrire corsi di laurea online fu la Jones international university, una scuola privata fondata da Glenn Jones, imprenditore della tv via cavo. Jones aveva lanciato il canale Mind extension university, ma poi intuì le potenzialità di internet e nel 1993 si buttò sull’online. Nel 1999 la sua scuola ottenne la certificazione ufficiale dalle autorità, nonostante le obiezioni dei docenti universitari. Sull’esempio di quella fondata da Jones (che avrebbe chiuso nel 2016), nacquero altre università a scopo di lucro, mentre alcune trade school (istituti professionali che offrono corsi di due anni) aggiunsero ai diplomi per meccanici e periti elettronici lauree di primo e secondo livello.
Grazie a pubblicità aggressive – e a volte ingannevoli e fraudolente – e a un uso disinvolto dei prestiti concessi dal governo agli studenti, il settore online a scopo di lucro è esploso. Nel 2010 gli iscritti a questo tipo di corsi erano più di due milioni – molti lavoratori e soldati dell’esercito –, vale a dire un decimo di tutti gli studenti che quell’anno frequentavano un’università.
Ma non è passato molto tempo prima che il settore crollasse: inchieste e azioni giudiziarie hanno rivelato che i laureati erano pochi, gli studenti erano molto indebitati e i risultati in termini di inserimento nel mondo del lavoro erano scarsi. Nel 2019 la university of Phoenix, che era arrivata ad avere 470mila iscritti, ha raggiunto un accordo con la Federal trade commission (l’agenzia governativa che tutela i diritti dei consumatori) dopo essere stata accusata di pubblicità ingannevole. Dovrà sborsare 191 milioni di dollari, per lo più destinati a cancellare i debiti degli studenti.
Rivolti agli adulti
Le università tradizionali avrebbero potuto colmare questo vuoto, ma erano impegnate in un’altra avventura online: i Massive open online courses (Mooc), uno sforzo idealistico per rendere gratuita e universale l’istruzione superiore. Le maggiori università del paese hanno lanciato centinaia di corsi, e milioni di studenti si sono iscritti a piattaforme come edX e Coursera. Ma pochi sono arrivati in fondo, e senza la promessa di una laurea non era facile per gli atenei fare profitti.
Il vuoto lasciato dalle università a scopo di lucro è stato invece colmato da un eclettico gruppo di istituti privati nonprofit, che hanno investito nell’online e, cosa altrettanto importante, nel marketing. Università come la Western Governors, la Southern New Hampshire e la Liberty non saranno in cima all’elenco dei migliori atenei del paese, ma hanno attirato una grossa fetta degli adulti che cercavano un’alternativa rispettabile a quei corsi caduti in disgrazia. Oggi contano almeno 100mila studenti a testa.
Queste università, insieme a una manciata di atenei pubblici come la Central Florida e l’Arizona State, hanno messo a punto una formula che sfrutta le potenzialità di internet per proporre servizi su vasta scala. Si rivolgono ad adulti che vogliono laurearsi e non sono interessati alle feste e allo sport. Accettano crediti accumulati in altre istituzioni e tengono conto delle esperienze di vita degli iscritti, aiutandoli a raggiungere più rapidamente il loro obiettivo. Offrono un ventaglio limitato di programmi per tenere bassi i costi. Soprattutto, molti offrono un metodo d’insegnamento basato sulle competenze, che permette agli studenti di procedere con il proprio passo, studiando fino a quando ottengono il voto richiesto per andare avanti. I loro progressi sono monitorati da tutor, una figura a metà tra un consulente e un insegnante.
I vantaggi di un modello basato sulle competenze sono evidenti. L’apprendimento è asincrono (l’interazione tra docenti e studenti avviene con un certo ritardo di tempo), quindi gli studenti non devono essere online a orari specifici. Possono modificare il carico dei corsi o concedersi una pausa, a seconda del momento. E crescendo le università possono ammortizzare i costi, in modo da non far aumentare le rette.
Una laurea online di istituzioni come Southern New Hampshire o la Western Governors implica dei compromessi che gli studenti devono accettare, spiega Stein, la rettrice della Wgu. “Non avranno una squadra di football e un campus immerso nel verde con uno Starbucks. Avranno un’esperienza di valore in linea con i loro obiettivi”.
Come una fabbrica
Ma per chi critica il modello basato sulle competenze – e l’istruzione online più in generale – gli studenti non rinunciano solo alle feste e ad altri piacevoli diversivi. Rinunciano a una vera istruzione universitaria. Questo tipo di apprendimento “trasforma i voti, che dovrebbero essere una piccola componente dell’esperienza al college, nell’elemento principale”, sostiene Johann Neem, professore di storia alla Western Washington university. “Non rende più democratico il sistema universitario. Semmai democratizza le lauree, ma le lauree non sono l’elemento principale dell’università. L’obiettivo dovrebbe essere produrre conoscenza, non velocizzarla come in una fabbrica”.
Secondo Neem la componente fisica è fondamentale: i docenti e gli studenti devono incontrarsi almeno una volta alla settimana per condividere le loro idee, in uno spazio dedicato all’apprendimento. È un po’ come andare in chiesa: i credenti possono pregare a casa, ma continuano a riunirsi in un edificio concepito proprio per approfondire questa esperienza. C’è un motivo, sostiene Neem, se Apple e Google costruiscono dei campus per i loro dipendenti.
Secondo Stein, invece, questa visione romantica non si adatta alla realtà degli studenti di oggi. “Funziona solo per un numero ristretto di persone”, ribatte. “È un percorso di maturazione molto costoso e non così efficace”.
La pandemia ha trasformato il dibattito sui vantaggi dell’apprendimento
online: prima era un duello pedagogico, ora è una questione urgente per milioni di persone. Molti si sono confrontati per la prima volta con la didattica a distanza questa primavera, e l’hanno trovata deludente. Secondo un sondaggio condotto su più di tremila studenti dalla Top Hat, un’azienda che offre tecnologia per la didattica, quasi il 70 per cento degli interessati pensa che l’istruzione ricevuta online sia inferiore rispetto a quella che avrebbero avuto in presenza, e la metà ha dedicato meno tempo allo studio. Non sorprende, considerando che la didattica è stata riorganizzata in gran fretta, dice Jeff Selingo, ex direttore del Chronicle of Higher Education. “Alcune università d’élite hanno creato ottimi corsi online, ma è un processo costoso che richiede tempo e un completo ripensamento delle lezioni. La maggior parte dei professori ha messo insieme due software come Blackboard e Zoom e l’ha chiamata istruzione online”.
Per alcuni studenti l’esperienza è stata talmente deludente da spingerli a rinunciare. Sarai Flores si era appena iscritta alla Penn state university, un ateneo della Pennsylvania fondato nel 1855, ma quando il covid-19 ha stravolto l’anno accademico ha deciso di ritirarsi e di seguire i corsi del Coastline college, vicino a dove vive la sua famiglia, in California. Dal suo punto di vista non c’era un vero vantaggio nel seguire le lezioni online della Penn state. Quando si era iscritta pensava che avrebbe passato gli anni seguenti nel campus a stringere amicizie e a creare rapporti con i docenti. Senza quelle opportunità, l’investimento non aveva più senso. “Mi sento in difficoltà a spendere 50-60mila dollari per un corso su internet”, dice Flores. E poi è preoccupata per i rischi sanitari. “Fanno rientrare gli studenti al campus ma non prevedono lezioni in presenza”, ha detto. “Vuol dire circa 40mila studenti, tutti nei dormitori, e non mi sembra sicuro”.
Flores appartiene comunque a una minoranza: secondo alcuni sondaggi, pochi studenti starebbero pensando di trasferirsi o lasciare l’università (in parte perché spesso gli atenei hanno aspettato fino all’ultimo prima di comunicare i loro piani per l’autunno). Ma tanti, soprattutto gli studenti a basso reddito e quelli appartenenti alle minoranze, hanno detto che quest’autunno la loro vita sarà più difficile. Dovranno seguire meno lezioni, lavorare di più e prendersi cura dei familiari malati.
Ci sono scuole online che hanno visto aumentare le domande di ammissione. In alcuni casi la crisi economica ha fatto tornare all’università molti disoccupati, sostiene Erika Orris, responsabile dell’ufficio iscrizioni e marketing dell’University of Maryland global campus, un’università online statale che conta circa 90mila studenti. Secondo Orris, però, tra i nuovi iscritti non ci sono giovani che hanno lasciato altri atenei.
Alla Southern New Hampshire le iscrizioni per il semestre cominciato a giugno sono cresciute del 30 per cento rispetto all’anno scorso. Come alla Western Governors, l’età media degli studenti si sta abbassando e nella sua pubblicità l’ateneo si rivolge espressamente alle ragazze e ai ragazzi appena usciti dalle superiori.
Cavalcare l’onda
La crisi attuale non è un’opportunità solo per chi offre alternative online ma anche per le aziende che realizzano i corsi. Come la 2U, un’azienda del Maryland quotata in borsa. Fino a qualche mese fa aveva sviluppato solo programmi per lauree di secondo livello, tra cui una in infermieristica per la Simmons. L’azienda di solito gestisce la tecnologia, il marketing e le iscrizioni, e in cambio incassa il 60 per cento delle rette. Il modello di business della 2U e di altre imprese simili, come la Pearson
Learning e la Wiley Education Services, ha attirato l’attenzione anche di Elizabeth Warren, senatrice del Partito democratico, e di altri parlamentari, che vedono delle somiglianze con il modello già usato dai college privati, finiti sotto inchiesta.
Di fatto la pandemia ha cambiato l’orizzonte di molte di queste aziende. Chip Paucek, il direttore generale della 2U, sostiene che ora scuole di ogni tipo e dimensione sono interessate ai loro servizi. Inoltre, secondo un sondaggio fatto dalla 2U a luglio su 1.754 studenti, il 73 per cento potrebbe prendere in considerazione un programma online. “È un cambio di paradigma. Abbiamo cominciato a vederlo con gli studenti e ora lo vediamo con i docenti”, ha detto Paucek. “Sembra il punto di non ritorno”. Se un gran numero di studenti deciderà di passare ai corsi online, per la 2U e le altre aziende del settore si apriranno enormi opportunità economiche. Le rette che gli studenti statunitensi pagano ogni anno ammontano a 80 miliardi di dollari per le lauree specialistiche e 550 miliardi per le lauree di primo livello.
Tra le università che collaborano con la 2U c’è l’Amherst college, un ateneo privato molto selettivo che ha sede in Massachusetts. Con l’aiuto dell’azienda sta trasferendo online i 35 corsi con più iscritti in modo che le aule possano essere usate per classi più piccole che rispettano il distanziamento sociale. Catherine Epstein, preside di facoltà, spiega che l’Amherst versa alla 2U una quota fissa e non una percentuale sui ricavi dalle rette, come fanno altre università.
Studenti internazionali
Paucek sostiene che un corso online, se impostato nel modo giusto, può arricchire e stimolare come un corso tradizionale. L’importante è che sia completamente ripensato per sfruttare le potenzialità della tecnologia.
Secondo lui perfino la mancanza di quelle esperienze sociali che servono a costruire reti di contatti e rapporti – una delle maggiori critiche all’istruzione
online – può essere superata con attività ed eventi online. L’happy hour che la 2U organizza per gli studenti della specialistica è molto frequentato, anche se a distanza. Dopotutto “quando sei al bar con qualcuno non è che bevi dal suo bicchiere”. Quello che determina il successo di un programma, conclude, è la qualità. “Questo è il programma di Amherst, non il nostro. Sono i loro docenti, i loro corsi”.
Epstein spiega che quando non ci saranno più rischi per la salute l’Amherst tornerà alle lezioni in aula, ma a quel punto i docenti avranno a disposizione nuovi strumenti e tecniche educative. Paucek è comunque convinto che nel giro di qualche anno aumenteranno gli atenei con una vasta scelta di programmi online, e più università somiglieranno all’Arizona state, offrendo un misto di didattica a distanza e in presenza. “Non credo che tutti i campus del paese siano destinati a scomparire”, chiarisce. “Ma la distinzione tra online e offline sarà molto meno evidente. Tutto sarà online. Perfino chi è nel campus sarà online”.
Anche i college – cioè gli istituti che offrono lauree di primo livello – hanno un incentivo a offrire alternative online, soprattutto quelli meno prestigiosi che dipendono molto dalle rette. Se hanno difficoltà finanziarie, l’istruzione online è un’ancora di salvezza, sostiene Trace Urdan, direttore della Tyton Partners, una banca d’investimento che collabora con aziende attive nel settore dell’istruzione.
“Le pressioni economiche sui college costringeranno a sperimentare”, spiega. “Nel lungo periodo dovranno diversificare le entrate”. Questo soprattutto se diminuiranno gli studenti internazionali (che rappresentano il 5,5 per cento degli iscritti alle università statunitensi e spesso pagano la retta piena), per il covid-19, per la difficoltà di procurarsi un visto o perché pensano che gli Stati Uniti non siano più una destinazione accogliente.
◆ “Durante l’estate Google ha fatto un annuncio che potrebbe avere effetti importanti sul futuro dell’istruzione superiore”, scrive la rivista Inc. L’azienda tecnologica lancerà una serie di corsi, chiamati Google career certificates, per offrire competenze che possano essere immediatamente spendibili per trovare un lavoro. L’aspetto più interessante – e allarmante per molte persone che si occupano di istruzione universitaria – è che i corsi sono pensati per essere completati nel giro di sei mesi e l’iscrizione costerà poche centinaia di dollari. I corsi previsti al momento dall’azienda sono quelli per diventare responsabile di progetto, analista dei dati e progettatore dell’esperienza utente. L’azienda promette di aiutare gli studenti a trovare lavoro alla fine del corso. Kent Walker, vicepresidente delle operazioni internazionali di Google, ha detto che “l’azienda metterà questi certificati sullo stesso piano di una laurea di quattro anni al momento di valutare eventuali assunzioni”.
Urdan cita l’esempio della Gran Canyon university, a Phoenix, dove 80mila studenti iscritti ai corsi online aiutano a tenere bassa la retta pagata dai 22mila studenti che frequentano il campus. Ma la maggior parte degli atenei non sembra darsi molto da fare per affermarsi online.
“Forse ci sono delle istituzioni, magari non quelle più esclusive, che potrebbero trarre vantaggio da un modello simile a quello della Gran Canyon”, dice Urdan. “Devi andare incontro al mercato. Non puoi limitarti a creare una classe e aspettare che la gente arrivi. Devi venderla e non puoi fare lo schizzinoso”.
Ma questa impostazione lascia perplesse molte persone. Da dove arriverà la domanda? Un possibile mercato ovviamente è quello degli adulti che non hanno finito l’università (secondo uno studio recente, 36 milioni di statunitensi hanno cominciato un corso d’istruzione superiore senza arrivare alla laurea) mentre raggiungere gli studenti più giovani potrebbe essere difficile.
Colin Koproske, responsabile del settore ricerche della Eab, una società di consulenza nel campo dell’istruzione, spiega che i neodiplomati sono piuttosto conservatori quando devono scegliere l’università. Insieme all’istruzione, gli studenti comprano “una lettera di accettazione, una rete di contatti, una serie di pareri che la gente darà su di loro e un’esperienza”, dice Koproske. Tutto questo è difficile da riprodurre online, soprattutto per gli atenei che non hanno una reputazione consolidata. Gli studenti internazionali rappresentano una sfida ancora più difficile, perché vogliono vivere negli Stati Uniti e sfruttare la possibilità, offerta dal visto, di lavorare nel paese per un anno.
Le università che vogliono lanciarsi nella didattica online dovranno muoversi con prudenza per competere con la Southern New Hampshire e la Western Governors, dice Koproske. “Loro hanno programmi enormi, con centomila studenti. Hanno un grande call center che segue il marketing. Un sistema difficile da replicare. È come lanciare un motore di ricerca e cercare di fare concorrenza a Google”.
Investire nel futuro
Ma c’è chi pensa che questo schema possa funzionare anche per istituti più piccoli. All’altro estremo rispetto a giganti come la Western Governors e la Southern New Hampshire c’è Minerva, un piccolo college privato. Fondato come organizzazione nonprofit da Ben Nelson, imprenditore della Silicon valley, a maggio del 2020 il Minerva ha conferito 124 lauree. Non ha un campus, e prima della pandemia gli studenti venivano da sette città, da San Francisco a Seoul, vivendo negli studentati ma seguendo le lezioni dai loro portatili.
Molto selettivo e volutamente piccolo – Nelson dice che su 25mila domande d’iscrizione ne sono state accettate lo 0,08 per cento – il Minerva usa un software proprietario, progettato per tenere impegnati studenti e professori. Il piano di studi è strutturato in quattro anni.
La retta, relativamente bassa rispetto a quella delle università d’élite statunitensi (30mila dollari all’anno, con l’80 per cento degli studenti che riceve un sostegno finanziario) suggerisce che sia un modello replicabile. Ma Nelson non crede che Minerva sia la soluzione. La chiave, invece, sta nel sistema e nella tecnologia che lui vuole distribuire.
La società a scopo di lucro di Nelson, la Minerva Project, sta collaborando con il Paul Quinn college – una storica università di Dallas per afroamericani – per offrire già da questo autunno corsi online attraverso il programma Urban scholars. Questo piano, che vuole essere selettivo, coniuga l’attività online con l’esperienza sul posto, e prevede di far laureare gli studenti in tre anni. La retta per il primo semestre è di 5.996 dollari.
Nelson pensa che il programma del Paul Quinn possa mettere in moto un cambiamento profondo in tutta l’istruzione superiore, con nuovi metodi d’insegnamento e di apprendimento che stravolgeranno le vecchie gerarchie basate sulla tradizione e la reputazione. Alla fine, dice, i datori di lavoro assumeranno i laureati migliori, a prescindere da dove hanno ottenuto la laurea, e studenti e famiglie sceglieranno le scuole che offrono queste opportunità.
In definitiva, il passaggio all’online è necessario, sostiene Crow dell’Arizona state university. Banalmente, non c’è abbastanza spazio nei campus statunitensi per milioni di futuri studenti. Entro il 2051 gli Stati Uniti dovrebbero superare i 400 milioni di abitanti e la domanda di lauree è destinata ad aumentare. “La nostra infrastruttura materiale è concepita per un paese che è una frazione di quello attuale”, dice Crow. “E non mi sembra che si stiano costruendo centinaia di nuovi college”.
Per Neem, scettico sulla didattica a distanza, la soluzione non è spostare gli studenti online ma tornare a investire nei campus. Le grandi università statali statunitensi sono un riferimento per il resto del mondo, e sono state costruite con i soldi dei contribuenti. Ma negli ultimi dieci anni la spesa pubblica destinata all’istruzione superiore è diminuita, con un onere sempre maggiore che ricade sulle spalle degli studenti. La conseguenza è che le università di altri paesi – soprattutto in Cina e in Corea del Sud – stanno rapidamente guadagnando terreno. “Altri paesi stanno facendo quello che gli Stati Uniti hanno fatto cinquant’anni fa. Stanno investendo”, afferma Neem.
L’alternativa è un divario sempre maggiore tra gli studenti ricchi, che possono permettersi l’esperienza preziosa e stimolante del campus, e gli studenti che dovranno accontentarsi di quella che Neem chiama “educazione fast-food”. I secondi forse non conosceranno mai la vera esperienza dell’università, il suo potenziale per costruire un pensiero critico e generare conoscenza. “È il pericolo maggiore”, conclude. “Tanti studenti potrebbero credere che quella che stanno ricevendo è un’istruzione universitaria, ma non è così”. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1377 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati