Lo spiegamento di telecamere appostate all’uscita del gigantesco carcere di Tihar, a New Delhi, era degno di un primo ministro coinvolto in uno scandalo di corruzione o di una star di Bollywood sorpresa nel letto sbagliato. Le telecamere, invece, stavano aspettando Disha Ravi, 22 anni, vegana, attivista per il clima e amante della natura finita insospettabilmente al centro di una saga giudiziaria orwelliana, tra accuse di sedizione, istigazione e concorso in cospirazione internazionale. Una vicenda che coinvolge (tra gli altri) gli agricoltori indiani in rivolta, la pop star Rihanna, un presunto complotto contro lo yoga e il chai (tè), il separatismo sikh e Greta Thunberg.

Se tutto questo vi sembra inverosimile, be’, sappiate che la stessa cosa l’ha pensata Dharmender Rana, il giudice che ha rilasciato Ravi dopo nove giorni di carcere e interrogatori della polizia. Il giudice Rana doveva decidere se Ravi, una delle fondatrici della sezione indiana di Fridays for future, il movimento ambientalista fondato da Greta Thunberg, potesse essere liberata su cauzione o no. Ha deciso che non c’era motivo per negare la cauzione e, in una sentenza al vetriolo di 18 pagine che ha tenuto banco per settimane sui mezzi d’informazione indiani, ha emesso il suo verdetto sulle spiegazioni fornite dalla polizia per l’arresto di Ravi. Le prove, ha scritto, sono “scarse e approssimative” e non c’è “nemmeno un barlume” di evidenza a sostegno delle accuse di sedizione, istigazione o cospirazione mosse contro Ravi e almeno altri due giovani attivisti.

Mentre l’ipotesi di cospirazione internazionale si smonta, l’arresto di Ravi ha messo in luce un diverso tipo di collusione, quella tra il governo nazionalista indù del primo ministro Narendra Modi, sempre più oppressivo e antidemocratico, e le aziende della Silicon valley, le cui piattaforme sono usate dal governo per incitare all’odio contro le minoranze e gli oppositori, e dalla polizia per incastrare attivisti pacifici.

Le accuse contro Ravi e i suoi “complici” si fondano sull’uso di strumenti digitali comuni: un gruppo WhatsApp, un documento Google condiviso e modificato, una riunione privata su Zoom e una serie di tweet di celebrità sono stati strumentalizzati come presunti elementi di prova in una caccia agli attivisti sponsorizzata dallo stato e amplificata dai mezzi d’informazione. Il paradosso è che, contestualmente, quegli stessi strumenti sono stati usati per lanciare una campagna coordinata di messaggi filogovernativi con l’obiettivo di aizzare l’opinione pubblica contro i giovani attivisti e il movimento degli agricoltori, spesso in palese violazione delle misure che i social network dicono di aver adottato per prevenire l’istigazione alla violenza sulle loro piattaforme.

Agricoltori manifestano contro il governo. Jaipur, India, 25 gennaio 2021 (Vishal Bhatnagar, NurPhoto/Getty Images)

In India l’odio online sfocia con raggelante frequenza in veri e propri pogrom che prendono di mira le donne e le minoranze: ora le associazioni per i diritti umani avvertono che il paese è sull’orlo di una terribile esplosione di violenza.

La valle silenziosa

In tutto questo, i colossi della Silicon valley sono rimasti clamorosamente in silenzio: della loro tanto decantata dedizione alla causa della libertà d’espressione, così come del loro riscoperto impegno contro l’incitamento all’odio e le teorie del complotto, in India non c’è traccia. Si registra, invece, una crescente e inquietante complicità con la guerra dell’informazione di Modi, una collaborazione che sta per essere istituzionalizzata da una nuova severissima legge sulle piattaforme digitali: in base alle nuove norme, le aziende tecnologiche non potranno rifiutarsi di rimuovere materiale considerato offensivo dalle autorità o di violare la privacy degli utenti su richiesta del governo. La complicità nelle violazioni dei diritti umani, a quanto pare, è il prezzo da pagare per rimanere sul più grande mercato per numero di utenti digitali fuori della Cina. Dopo qualche iniziale resistenza dell’azienda, centinaia di account Twitter che criticavano il governo Modi sono scomparsi senza spiegazioni. A vari esponenti del governo che istigavano apertamente all’odio su Twitter e Facebook, invece, è stato permesso di continuare violando tranquillamente le linee di condotta delle due aziende; la polizia di New Delhi, da parte sua, sostiene che la collaborazione di Google è stata utilissima per scavare tra le comunicazioni private di pacifici attivisti per il clima come Ravi.

Citata in vari modi dalla stampa indiana – il caso toolkit, il toolkit di Greta, il complotto del toolkit – l’indagine della polizia su Ravi e sugli attivisti Nikita Jacob e Shantanu Muluk si basa sui contenuti di una “guida ai social network” che Greta Thunberg ha twittato ai suoi quasi cinque milioni di follower all’inizio di febbraio. La polizia di New Delhi ha arrestato Ravi accusandola di essere “una redattrice del toolkit e una complice chiave nella formulazione e diffusione dei documenti. Ha creato il gruppo su WhatsApp e ha collaborato alla redazione del toolkit”. Il toolkit non era altro che un documento Google scritto da un gruppo di attivisti per sostenere il movimento degli agricoltori indiani che da mesi protestano senza sosta contro una nuova legge voluta dal governo di Modi. Al centro delle proteste c’è la convinzione che, abolendo la protezione dei prezzi per i raccolti e aprendo il settore agricolo ad altri investimenti privati, i piccoli agricoltori saranno di fatto “condannati a morte” e le fertili terre dell’India cadranno nelle mani di poche grandi aziende.

Molti attivisti, in India e all’estero, hanno cercato di aiutare gli agricoltori. In particolare, il movimento per il clima si è sentito in dovere di prendere posizione. In tribunale Ravi ha detto di sostenere gli agricoltori “perché sono il nostro futuro e tutti abbiamo bisogno di mangiare”, ma ha anche fatto un collegamento con la crisi climatica. Negli ultimi anni la siccità, le ondate di caldo e le inondazioni sono diventate più intense e gli agricoltori indiani sono stati le principali vittime di questi fenomeni, spesso perdendo raccolti e mezzi di sussistenza. Ravi ne ha avuto un’esperienza diretta avendo visto i suoi nonni contadini alle prese con condizioni climatiche estreme.

Strumenti innocui

Come moltissimi documenti simili nell’era della mobilitazione digitale, il toolkit in questione contiene una serie di suggerimenti generici su come esprimere la propria solidarietà agli agricoltori indiani, in particolare sui social network: “Twitta il tuo sostegno agli agricoltori indiani; usa l’hashtag #FarmersProtest #StandWith­Farmer”; scatta una foto o un video in cui dici che sostieni gli agricoltori; firma una petizione; scrivi al tuo rappresentante in parlamento; partecipa a un tweetstorm (tempesta di tweet) o a un digital strike (sciopero digitale); partecipa a una manifestazione, in India o davanti all’ambasciata indiana nel tuo paese; cerca di saperne di più partecipando a una sessione informativa su Zoom”. In una prima versione del documento (subito corretta) si parlava anche di contestare l’immagine pubblica, tutta “pace e amore”, “yoga e chai”, dell’India.

Quasi tutte le grandi campagne di mobilitazione online prevedono guide pratiche per i clicktivist (attivisti da tastiera) esattamente come questa. La maggior parte delle ong di medie dimensioni ha una persona che si occupa di preparare questi documenti e d’inviarli a potenziali sostenitori e influencer. Se questi documenti sono illegali, allora è illegale tutto l’attivismo contemporaneo. Arrestare e incarcerare Ravi per il suo presunto ruolo di redattrice del toolkit vuol dire sostanzialmente criminalizzarla per aver fatto fare brutta figura all’India agli occhi del mondo. In base a questi parametri, tutte le campagne internazionali sui diritti umani dovrebbero essere vietate, dato che quasi mai presentano i governi sotto una luce lusinghiera. Questo punto è stato sottolineato con forza dal giudice che si è pronunciato sulla cauzione di Ravi: “In ogni nazione democratica i cittadini sono i custodi della coscienza del governo. Non possono essere messi dietro le sbarre solo perché scelgono di non essere d’accordo con le decisioni dello stato”, ha scritto. E sulla condivisione del toolkit con Thunberg ha aggiunto: “La libertà di opinione e di espressione comprende il diritto di cercare un pubblico globale”. Sembra ovvio. Eppure, in qualche modo, varie autorità dello stato hanno attaccato il documento come se nascondesse chissà quale affare losco. Il generale VK Singh, ministro per il trasporto su strada e per le autostrade del governo Modi, ha scritto in un post su Facebook che il ­toolkit “rivela il vero disegno di una cospirazione internazionale contro l’India. Bisogna indagare su chi c’è dietro questo meccanismo perverso”.

Due agricoltori accampati alle porte di New Delhi, India, 6 febbraio 2021 (Sanchit Khanna, Hindustan Times/Getty Images)

La polizia di New Delhi ha raccolto il suggerimento e si è messa a cercare le prove di questa cospirazione internazionale per “diffamare il paese” e danneggiare il governo rifacendosi a una severissima legge antisedizione dell’epoca coloniale. Ma non è tutto: il toolkit sarebbe al centro di un complotto segreto per dividere l’India e formare uno stato sikh chiamato Khalistan (di nuovo, sedizione) perché un indocanadese di Vancouver che ha contribuito a scrivere il documento ha espresso una certa simpatia per l’idea di una nazione sikh indipendente (il fatto, oltre a non costituire reato, non è citato da nessuna parte nel documento). E, cosa abbastanza sorprendente per un testo in formato Goo­gle doc che secondo la polizia è stato scritto quasi tutto in Canada, il toolkit sarebbe stato usato per organizzare azioni violente durante il “corteo dei trattori”, la grande manifestazione degli agricoltori che si è svolta nella capitale il 26 gennaio.

Per settimane queste accuse sono circolate molto su internet, soprattutto grazie alle campagne online guidate dal ministero degli esteri indiano e servilmente rilanciate dalle più grandi star di Bollywood e del cricket. Anil Vij, ministro dello stato dell’Haryana, ha twittato in hindi che “chiunque semini l’antinazionalismo deve essere distrutto dalle radici, che si tratti di #Disha_Ravi o di chiunque altro”. Un esempio d’incitamento all’odio da parte delle istituzioni, secondo alcuni, ma Twitter ha detto che il post non viola le regole dell’azienda e non l’ha rimosso. La stampa, le radio e le tv indiane hanno ripetuto senza sosta le assurde accuse di sedizione. Prevedibilmente, la rabbia si è riversata per le strade, con le foto di Thunberg e Rihanna (che su Twitter ha espresso solidarietà agli agricoltori) date alle fiamme durante le proteste dei nazionalisti. Lo stesso Modi è intervenuto parlando di nemici che “sono scesi talmente in basso da non risparmiare nemmeno il tè indiano”, un chiaro riferimento alla frase su “yoga e chai”, poi cancellata dal tool­kit.

Qualche settimana fa, all’improvviso il polverone si è dissolto con la sentenza del giudice Rana. Il caso non è chiuso, anche se la sentenza è un duro colpo per il governo e una rivincita per il movimento degli agricoltori e per chi lo sostiene. Tuttavia, non si può certo parlare di vittoria. Quella contro il toolkit è solo una delle centinaia di campagne che il governo indiano sta montando per dare la caccia ad attivisti e giornalisti.

La vera minaccia per Modi e per il Bharatiya janata party (Bjp) è sempre stata, alla radice, il potere del movimento degli agricoltori. Il progetto politico di Modi si fonda su una fusione tra sciovinismo indù e potere dei grandi gruppi industriali. Gli agricoltori mettono in pericolo questo duplice progetto, sia perché si battono a favore della protezione dei prezzi dei prodotti alimentari (che sarebbero così sottratti alla logica del mercato), sia perché hanno dimostrato di poter costruire un consenso in grado di superare le divisioni religiose, etniche e geografiche che sono la linfa vitale dell’ascesa al potere di Modi.

Il diversivo

Ravinder Kaur, docente all’università di Copenaghen e autore di Brand new nation: capitalist dreams and nationalist designs in twenty-first-century India, scrive che quella degli agricoltori è “forse la più grande mobilitazione di massa nella storia dell’India postcoloniale, coinvolge cittadini delle zone rurali e urbane e unisce alla rivolta contro il capitalismo senza regole la lotta per le libertà civili”. E aggiunge: “La mobilitazione contro la legge agricola rappresenta la sfida più diretta e costante” per la fusione tra capitale transnazionale e stato ipernazionalista, al centro del progetto di Modi.

Le manifestazioni degli agricoltori a New Delhi e dintorni sono state accolte con idranti, gas lacrimogeni e arresti di massa. Ma le proteste vanno comunque avanti perché sono troppo grandi per essere piegate con la forza. Ecco perché il governo di Modi è determinato a cercare di colpire il movimento e soffocarne il messaggio, bloccando sistematicamente internet prima delle manifestazioni e facendo pressioni su Twitter per far cancellare più di un migliaio di account di attivisti. Ed ecco perché cerca di confondere le acque con storie di toolkit e cospirazioni internazionali. Una lettera aperta firmata da decine di ambientalisti indiani dopo l’arresto di Ravi ha sottolineato proprio questo: “Le azioni del governo sono tattiche per distrarre la popolazione da questioni reali come il costo crescente del carburante e dei beni essenziali, la disoccupazione e l’angoscia causate dal lockdown e lo stato allarmante dell’ambiente”.

Per aziende come Facebook, Google, Twitter e Zoom, l’India di Modi rappresenta una dura resa dei conti con la realtà

È la ricerca di un diversivo politico, in altre parole, a spiegare perché una semplice campagna di solidarietà sia stata trattata come un complotto segreto per dividere l’India. Il governo Modi sta tentando di spostare il dibattito pubblico da un terreno su cui è palesemente debole – rispondere ai bisogni fondamentali delle persone durante una crisi economica e una pandemia – per portarlo su quello su cui si fonda ogni progetto etnonazionalista: noi contro loro, chi sta dentro contro chi sta fuori, patrioti contro traditori sediziosi. In questa operazione, Ravi e il movimento per il clima sono un semplice danno collaterale. Eppure il danno è stato notevole, e non solo perché gli interrogatori sono ancora in corso e il ritorno in carcere di Ravi resta una possibilità concreta. Come si legge nella lettera congiunta degli ambientalisti indiani, l’arresto e l’incarcerazione di Ravi hanno già ottenuto un risultato: “La mano pesante del governo serve chiaramente a terrorizzare e a traumatizzare questi giovani coraggiosi per aver detto la verità al potere, ed equivale a dargli una lezione”. Il danno ancora più grande sta nell’aver raffreddato il dissenso politico in India, con la complicità silenziosa delle aziende tecnologiche che una volta si vantavano di avere il potere di aprire le società chiuse e di diffondere la democrazia in tutto il mondo.

In effetti, il dibattito pubblico è stato così profondamente compromesso che molti attivisti in India stanno entrando in clandestinità, cancellando i loro account sui social network per proteggersi. Perfino i sostenitori dei diritti digitali evitano di fare dichiarazioni ufficiali. Chiedendo di restare anonimo, un ricercatore ha descritto una pericolosa convergenza di interessi tra un governo esperto nella guerra dell’informazione e social network, che si arricchiscono proprio grazie alla raccolta dei dati degli utenti: “Tutto questo nasce da una maggiore strumentalizzazione delle piattaforme da parte dello status quo, una cosa che prima non c’era. Il fenomeno è accentuato dalla tendenza delle aziende tecnologiche a dare la priorità a contenuti più virali ed estremisti, che gli permettono di monetizzare l’attenzione degli utenti e in ultima analisi di realizzare più profitti”.

Messaggi privati

Dal giorno del suo arresto, ogni singolo dettaglio della vita digitale privata di Ravi è stato squadernato davanti a tutti e raccolto dai voraci e osceni mezzi d’informazione indiani. Dibattiti televisivi e quotidiani si sono concentrati ossessivamente sui suoi messaggi privati a Thunberg e su una serie di comunicazioni tra attivisti in cui non si faceva altro che modificare un documento su internet. I legali di Ravi hanno chiesto al tribunale che alla polizia sia impedito di far trapelare alla stampa le comunicazioni private dell’attivista (ottenute, a quanto pare, dal sequestro di telefoni e computer). La polizia, da parte sua, cerca di mettere le mani su ulteriori informazioni private per le sue indagini, e si è rivolta a diverse grandi società tecnologiche. A Zoom, per esempio, è stato chiesto di rivelare l’elenco dei partecipanti a una riunione; anche Google ha ricevuto diverse richieste di informazioni su come il tool­kit è stato pubblicato e condiviso. E a quanto si legge sui giornali, la polizia ha chiesto informazioni sul documento anche a Instagram e Twitter. Non è chiaro, però, quali società abbiano accettato di collaborare e fino a che punto: la polizia ha parlato pubblicamente della collaborazione di Google, ma Google e Facebook non hanno risposto alla richiesta di commenti di The Intercept. Zoom e Twitter hanno fatto riferimento alle loro linee di condotta aziendali, che rinviano alle leggi nazionali in materia.

Ecco perché, forse, il governo Modi ha scelto proprio questo momento per introdurre una legge che darebbe all’esecutivo un controllo sui mezzi di comunicazione digitali talmente ampio da avvicinarsi al “grande firewall” cinese. In base alle nuove regole le aziende dovranno rimuovere entro 36 ore dalla richiesta del governo i contenuti che minacciano la “sovranità e l’integrità dell’India”, una definizione talmente vaga da comprendere potenzialmente anche le critiche su yoga e chai. Il nuovo codice etico prevede inoltre che, su richiesta del governo o della polizia, le aziende digitali forniscano entro 72 ore informazioni sui propri utenti, inclusa la possibilità di rintracciare le fonti originarie di “informazioni malevole” che circolano sulle piattaforme online e forse anche su app di messaggistica crittografata.

Da sapere
La protesta

Disha Ravi, 22 anni, fondatrice della sezione indiana del movimento ambientalista Fridays for future, è stata arrestata il 13 febbraio 2021 e rilasciata su cauzione nove giorni dopo. Qualche giorno prima l’attivista svedese Greta Thunberg aveva condiviso su Twitter un vademecum per chi voleva aderire a una campagna digitale a sostegno degli agricoltori indiani. Ravi, che aveva contribuito a scrivere quel documento, è accusata di sedizione e cospirazione.
◆Dalla fine di novembre migliaia di agricoltori indiani si sono accampati in tre zone alle porte di New Delhi per protestare contro la liberalizzazione del settore agricolo, voluta dal governo di Narendra Modi. Gli agricoltori temono che la riforma li penalizzerà, favorendo le grandi aziende. Scrool.in


Il nuovo codice viene introdotto in nome della tutela della diversità sociale dell’India e del blocco dei contenuti volgari. Ma di fatto il Bjp può disporre di uno degli eserciti di troll più sofisticati del pianeta, e i suoi politici sono stati tra i promotori più accalorati e aggressivi di istigazioni all’odio verso minoranze vulnerabili e chiunque li abbia criticati. Per citare solo uno dei tanti esempi, diversi esponenti del Bjp hanno partecipato attivamente a una campagna di disinformazione che accusava i musulmani di diffondere volontariamente il covid-19 in una sorta di “jihad del coronavirus”. Il nuovo codice non farebbe che sancire per legge la doppia vulnerabilità digitale sperimentata in prima persona da Ravi e da altri attivisti: non solo non avrebbero più protezione contro le aggressioni online alimentate da uno stato nazionalista indù; non avrebbero protezione nemmeno contro lo stato nel momento in cui, per qualsiasi motivo, decidesse di invadere la loro privacy digitale.

Apar Gupta, direttore generale del gruppo per i diritti digitali Internet freedom foundation, ha espresso particolare preoccupazione per alcune disposizioni del nuovo codice che consentirebbero ai funzionari dello stato di risalire agli autori dei messaggi inoltrati su piattaforme come Whats­App. Questo, ha detto all’Associated Press, “è una minaccia ai diritti degli utenti e può sfociare nell’autocensura”.

Il nuovo codice, che avrà un impatto su tutti i mezzi di comunicazione digitali, compresi i siti di streaming e d’informazione, entrerà in vigore entro i prossimi tre mesi. Alcuni produttori di contenuti digitali in India stanno facendo resistenza. Siddharth Varadarajan, fondatrice ed editor di The Wire, ha twittato che il nuovo codice, da lei definito “letale”, punta a “uccidere l’indipendenza dei media digitali in India”.

Mercato redditizio

Non aspettiamoci però prove di coraggio dalla Silicon valley. Molti dirigenti delle aziende tecnologiche statunitensi si sono pentiti di non aver collaborato con l’apparato cinese di sorveglianza e censura di massa, una decisione presa su pressione dell’opinione pubblica e dei lavoratori: questa scelta etica è costata ad aziende come Google l’accesso a un mercato straordinariamente vasto e redditizio. Ora le stesse aziende non sembrano intenzionate a ripetere l’errore. Come ha scritto il Wall Street Journal ad agosto del 2020, “l’India ha più utenti di Facebook e Whats­App di qualsiasi altro paese, e Facebook l’ha scelta come mercato dove introdurre i pagamenti digitali, la crittografia e una serie di iniziative per collegare i suoi prodotti. L’amministratore delegato Mark Zuckerberg ha detto che questo progetto impegnerà l’azienda per i prossimi dieci anni”. Per aziende come Facebook, Google, Twitter e Zoom, l’India di Modi rappresenta una dura resa dei conti con la realtà. In Nordamerica e in Europa le aziende tecnologiche stanno facendo di tutto per dimostrare di essere in grado di tenere sotto controllo l’istigazione all’odio e le teorie del complotto sulle loro piattaforme, tutelando allo stesso tempo la libertà di espressione, il dibattito e la diversità di vedute che sono parte integrante di qualsiasi società sana. Ma in India, dove aiutare il governo a dare la caccia e a incarcerare attivisti pacifici e ad amplificare l’odio sembra essere il prezzo per l’accesso a un mercato enorme e in crescita, “tutti questi argomenti sono andati a farsi benedire”, osserva un attivista. E il motivo è semplice: “Ci guadagnano”. ◆ fas

Naomi Klein è senior correspondent di The Intercept e titolare della cattedra Gloria Steinem alla Rutgers university, negli Stati Uniti. Ha scritto, tra gli altri, Shock economy (Rizzoli 2007), Una rivoluzione ci salverà (Rizzoli 2015), Il mondo in fiamme: contro il capitalismo per salvare il clima (Feltrinelli 2019) e Capitale contro clima (Castelvecchi 2020).

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Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati