“Possiamo dire che questa è la più grande vittoria nella storia di Israele?”. La domanda l’ha fatta un conduttore di Canale 12 a Giora Eiland, generale dell’esercito in pensione e padre del “piano dei generali” per affamare i palestinesi e attuare una pulizia etnica nel nord della Striscia di Gaza, circa due ore dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco tra Israele e Iran, il 24 giugno. Eiland ha risposto con modestia. La vittoria del 1967 è stata più grande, ha rassicurato il conduttore, ma l’ultima ha certamente portato risultati straordinari.
Essendo abbastanza anziano da ricordare l’euforia del 1967, non posso negare gli elementi comuni tra la guerra dei sei giorni e quella “dei 12 giorni” con l’Iran: lo stesso sollievo collettivo per la presunta eliminazione di una minaccia esistenziale, lo stesso disprezzo per il nemico, lo stesso travolgente orgoglio per l’abilità militare di Israele, unito alla convinzione che il futuro del paese sarà garantito per decenni.
Ma la storia è lì a ricordarci che la guerra del giugno 1967 non è stata l’ultima combattuta da Israele. Al contrario, ha segnato l’inizio di una nuova epoca di conflitti e massacri. La guerra in corso a Gaza, e forse anche quella con l’Iran, possono essere viste come una continuazione di quel “glorioso trionfo”. Ci sono voluti anni perché gli israeliani capissero che il conflitto del 1967 non aveva portato la trasformazione sperata. Questa volta la disillusione è arrivata quasi subito. Poche ore dopo che il presidente Donald Trump ha annunciato il cessate il fuoco, era già chiaro che la vittoria sull’Iran difficilmente avrebbe messo fine al conflitto di Israele con la Repubblica islamica, per non parlare di tutte le sue guerre future.
Subito dopo l’attacco statunitense del 22 giugno ai siti nucleari iraniani, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha dichiarato: “Vi avevo promesso che gli impianti nucleari iraniani sarebbero stati distrutti. La promessa è stata mantenuta”. In un discorso in tv Trump ha confermato che i siti sono stati “completamente cancellati”. Gli iraniani intanto sostenevano di aver rimosso la maggior parte dell’uranio arricchito dal sito di Fordo prima dell’attacco, mentre un articolo della Cnn citava fonti dell’intelligence statunitense secondo cui il programma nucleare iraniano è stato ritardato al massimo di “qualche mese”. Dato che l’obiettivo dichiarato della guerra era eliminare la minaccia immediata di un attacco nucleare iraniano – e che l’intelligence statunitense non ha mai creduto che l’Iran fosse vicino a produrre una bomba atomica – è difficile sostenere che la missione sia andata a buon fine.
Capacità di risposta
Un altro punto poco chiaro riguarda l’impatto della guerra sulla deterrenza di Israele in Medio Oriente. Da un lato le forze armate israeliane hanno dimostrato una superiorità schiacciante: hanno sorvolato lo spazio aereo iraniano senza ostacoli, avevano informazioni precise sulla posizione di alti funzionari della difesa e scienziati nucleari nemici e hanno condotto attacchi mirati con notevole efficacia. Tel Aviv ha anche dimostrato di potersi comportare come un bullo di quartiere nella regione – ignorando il diritto internazionale, aggirando i negoziati in corso tra l’Iran e l’amministrazione Trump – pur continuando a godere del sostegno incrollabile dell’occidente, soprattutto di Washington.
Ma se Netanyahu è riuscito a rafforzare l’immagine di Israele come potenza regionale, sarebbe un errore trascurare le capacità di risposta iraniane.
Dalla fondazione dello stato ebraico, nel 1948, le principali città israeliane non hanno mai dovuto fronteggiare una minaccia come quella vissuta a giugno: edifici ridotti in macerie o danneggiati, 29 civili uccisi, quasi diecimila persone rimaste senza casa, più di 40mila richieste di risarcimento, strade svuotate e attività economiche ferme. L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 è stato orribile, ma gli israeliani l’hanno vissuto per lo più come una catastrofe isolata. Il conflitto con l’Iran, invece, ha intaccato il loro senso di sicurezza. Milioni di persone hanno capito di non essere più immuni. Teheran ha dimostrato di poter colpire il territorio israeliano, nonostante le difese all’avanguardia di Tel Aviv. Certo la maggior parte degli israeliani pensa che la sofferenza sia “valsa la pena” per infliggere un duro colpo all’Iran, ma la corsa ai rifugi, le notti insonni e giorni d’incertezza hanno lasciato un segno duraturo al livello psicologico. Se il conflitto dovesse riaccendersi, è improbabile che gli israeliani lo affrontino con la stessa compostezza.
Parole e fatti
Netanyahu e gli altri leader israeliani non volevano un confronto prolungato con l’Iran proprio perché avrebbe compromesso la narrazione della “vittoria totale” che ha dominato i primi giorni della campagna. Tuttavia, anche in questo conflitto durato meno di due settimane, Israele non ha raggiunto i suoi obiettivi dichiarati. In una conferenza stampa poco dopo l’inizio dell’offensiva, il premier ne aveva citati tre: smantellare il programma nucleare iraniano, eliminare le sue capacità di colpire con missili balistici e interrompere il suo sostegno all’“asse del terrore”. Il ministro della difesa Israel Katz si era spinto oltre, affermando che uno degli obiettivi di Israele era assassinare l’ayatollah Ali Khamenei. In altre parole, di innescare un cambio di regime.
È andata diversamente. I dettagli dell’accordo fra Trump e Teheran restano poco chiari, però è chiaro che Netanyahu non ha raggiunto nessuno di quegli obiettivi. L’Iran non ha fretta di tornare ai colloqui sul nucleare e accusa Washington di fare il doppio gioco, da una parte impegnandosi nella diplomazia e dall’altra dando il via libera agli attacchi israeliani. Non sono state imposte restrizioni all’ampliamento dell’arsenale missilistico iraniano. E Teheran non ha rinunciato a sostenere la propria rete di alleati regionali che circonda Israele.
Dal punto di vista diplomatico Tel Aviv ha guadagnato poco o nulla. Non c’è da sorprendersi: dall’inizio della guerra a Gaza, Netanyahu ha praticamente abbandonato ogni sforzo diplomatico affidandosi invece alla forza militare come unico strumento politico, prima nella Striscia, poi in Libano, in Siria e infine in Iran.
Quest’ultimo fronte ha messo in luce ancora una volta i limiti di questa strategia. Fin dal primo giorno l’Iran ha detto che non avrebbe negoziato sotto le bombe, chiedendo una tregua prima di qualsiasi ritorno ai colloqui sul nucleare. Israele ha rifiutato e sembrava che Netanyahu avrebbe applicato lo stesso piano usato con Hamas: negoziati solo durante la guerra. Eppure alla fine il cessate il fuoco è stato dichiarato senza precondizioni (per quanto ne sappiamo), proprio come aveva chiesto Teheran. Il divario tra “obiettivi” ambiziosi e “risultati” modesti sta già creando delusione, almeno nella destra israeliana.
Lo stesso successo diplomatico di Netanyahu – attirare gli Stati Uniti in una guerra cominciata da lui – appare sotto una luce diversa. Solo pochi giorni fa era stato accolto come un trionfo personale del premier. Ma affidandosi a Washington per sferrare il colpo finale a Fordo, Israele ha di fatto ceduto un certo grado di controllo, dimostrando che Trump ha ancora l’ultima parola. Quando l’Iran ha lanciato un missile tre ore dopo il cessate il fuoco, Tel Aviv ha inviato aerei da guerra per rispondere. Ma Trump ha avvertito pubblicamente Israele sui social: “Non sganciare quelle bombe” e gli aerei sono tornati indietro.
Sul piano interno Netanyahu sembra il vincitore incontrastato della guerra. Perfino i suoi critici più accaniti gli hanno riconosciuto il merito del successo militare, per non parlare dei sostenitori, che sono tornati a parlarne in termini quasi divini. Lui stesso sembra rinato: si fa intervistare, visita i luoghi colpiti, mangia falafel con la gente, cose che non aveva più fatto dopo l’inizio del processo a suo carico, e di certo dopo il 7 ottobre 2023. Non sorprende che si parli della possibilità di elezioni anticipate per capitalizzare la nuova gloria. Ma i sondaggi pubblicati dopo l’attacco di Israele all’Iran sono meno incoraggianti per il premier di quanto ci si poteva aspettare. Il Likud ha guadagnato un po’ di terreno, ma il blocco della coalizione di destra rimane fermo a 50 seggi alla Knesset, non abbastanza per impedire all’opposizione di formare un governo. Forse perché sono i piloti dell’aviazione e gli ufficiali dell’intelligence, i due gruppi spesso associati al movimento di protesta contro Netanyahu, a essere visti come i veri eroi della guerra.
Le ultime carte
Netanyahu ha attaccato l’Iran soprattutto per far scomparire le notizie su Gaza: per far dimenticare il fallimento della sua promessa di eliminare Hamas, gli ostaggi ancora nelle mani del gruppo palestinese, la crescente indignazione internazionale per le immagini orribili che provengono dalla Striscia, la frustrazione interna per la guerra, il blocco del piano mostruoso per spingere i palestinesi nel sud di Gaza e poi espellerli, che ha portato pochi risultati a parte l’uccisione di civili affamati in fila per il cibo. Ma ora che la guerra con l’Iran è finita, è di nuovo impossibile ignorare Gaza. E contrariamente alle speranze di Netanyahu, la pressione per mettere fine alla guerra è destinata a crescere. C’è un senso di stanchezza e disperazione evidente tra le truppe israeliane in servizio. La guerra con l’Iran potrebbe rafforzare la crescente convinzione tra gli israeliani che se il paese è in grado di affrontare con successo una presunta minaccia esistenziale come il programma nucleare iraniano, allora può gestire una sfida molto meno impegnativa come Hamas, raggiungendo un accordo per mettere fine alla guerra in cambio di tutti gli ostaggi. Non è chiaro se Trump spingerà per un cessate il fuoco in modo da rafforzare la sua immagine di pacificatore. Ma se dovesse andare in questa direzione, sarà difficile per Netanyahu resistere.
I paesi europei, molti dei quali hanno sostenuto Israele durante la guerra con l’Iran per un istintivo riflesso antiorientale, potrebbero intensificare le loro minacce di sanzioni contro Israele e forse anche passare ai fatti.
Per trent’anni la “minaccia esistenziale” dell’Iran è stata una delle carte politiche più potenti di Netanyahu. Ma ora il premier l’ha giocata. E probabilmente non avrà un’altra possibilità. Difficilmente sembrerà credibile se dovesse sostenere che l’Iran è sul punto di costruire una bomba atomica, visto che ha celebrato la “vittoria decisiva” in diretta televisiva.
Nel suo programma politico rimangono quindi la pulizia etnica di Gaza e l’annessione della Cisgiordania. Ma sono carte molto più deboli, soprattutto se non può più sbandierare la minaccia dell’“asse del male” iraniano. Dunque Netanyahu potrebbe arrivare a vedere un accordo su Gaza come la strada più percorribile: mettere fine alla guerra, riportare a casa i pochi ostaggi ancora vivi e andare alle elezioni cavalcando la vittoria contro l’Iran e le immagini degli abbracci con i prigionieri ritornati. Sarebbe un azzardo drammatico e un’inversione di tendenza rispetto a quasi tutto quello che ha fatto negli ultimi venti mesi. Ma, paradossalmente, un simile cambio di rotta potrebbe essere più probabile dopo la conclusione confusa della guerra. ◆ dl
Meron Rapoport è un giornalista israeliano. Lavora per Sikha Mekomit, un sito in ebraico che si occupa di democrazia, pace, uguaglianza, giustizia sociale e lotta contro l’occupazione. Il sito spesso condivide gli articoli con +972 Magazine, dove sono pubblicati in inglese. Meron Rapoport sarà al festival di Ferrara dal 3 al 5 ottobre.
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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati