Polvere, ovunque polvere. Grigia, spessa, asfissiante. Non è una piaga biblica o uno scenario postatomico, bensì la pista da seguire per entrare nell’alveo del Kanal İstanbul, cioè nella storia del faraonico canale artificiale che un giorno dovrebbe affiancare lo stretto del Bosforo e scorrere a ovest di Istanbul, ma che sta già sostituendo il paesaggio con un fiume di cemento. L’acqua per ora è visibile solo nei rendering del governo turco diffusi dalle tv del Qatar per promuovere la vendita di terreni sottratti ai contadini. In soli tre anni, dove si estendevano le più produttive coltivazioni di cereali e girasoli del paese, dove pascolavano le pregiate manda, le bufale nere, sono state costruite nuove città: una modifica imposta al piano di sviluppo dell’area metropolitana di Istanbul per cementificare complessivamente 35mila ettari di aree protette. Dietro la coltre di polvere si nascondono speculazione edilizia e corruzione. Il regime di Recep Tayyip Erdoğan, detto il sultano, è profondamente coinvolto in tutto questo: dove la polvere avvolge e oscura il paesaggio è proprio dove è più evidente il potere del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), che è soprattutto il partito dei caterpillar, delle gru e delle betoniere che lungo i 45 chilometri del tracciato di costruzione hanno rimpiazzato trattori e trebbiatrici. Polvere è infatti la parola che senti pronunciare in continuazione qui tra le fertili colline della Tracia orientale, nelle fattorie di questa regione rurale dell’Istanbul europea: toz, la chiamano, e sembra un colpo di tosse.
A un certo punto capisco perché continuo a trovarmi a Baklali, facendone una sorta di campo base, percependo questo villaggio di un migliaio di contadini e allevatori come l’epicentro nevralgico del Kanal, un’operazione così spericolata da aver già avuto ricadute politiche devastanti, incluso l’arresto del sindaco di Istanbul, e che potrebbe avere ripercussioni mondiali: in nessun altro luogo lungo l’asse di urbanizzazione inarrestabile tra il mar di Marmara e il mar Nero la polvere è così apocalittica come in questo piccolo villaggio. Ha cancellato un mondo e ne sta plasmando uno nuovo dalle forme ancora indefinibili. Ti arrossa gli occhi, la senti scricchiolare tra i denti, ingolfa la gola. Molte persone usano le mascherine dall’era covid. Ogni mezz’ora la commessa di una drogheria esce dal negozio e per contrastare la polvere getta qualche secchiata d’acqua verso la rotonda al centro del villaggio, dove la stretta strada principale compie una curva e obbliga i camion e le betoniere a rallentare. Transitano quasi a passo d’uomo senza soluzione di continuità a centinaia, a migliaia. Odore di nafta, di polvere bagnata, di letame.
Uno sparuto gregge di pecore attraversa la strada infilandosi tra un camion e l’altro. Il vento caldo del mar Nero asciuga la via fangosa e solleva turbini e mulinelli, impolvera i capelli degli uomini seduti davanti al caffè Baklali che sta proprio all’incrocio. Qui si sono rassegnati e non bagnano più la strada. Tengono addirittura le finestre aperte, il velluto sui tavoli dove si gioca alla dama turca è color fango, lo stesso delle tende, del pavimento, del lampadario. Alla parete hanno ancora appesa la foto di Mustafa Kemal Atatürk, il fondatore della Turchia moderna. C’è anche una sua celebre frase: “L’abitante del villaggio è il vero padrone della nazione”. Ma girando per Baklali e, appena un po’ più a sud, a Dursunköy, a Şamlar e nei borghi più piccoli finiti “nell’area d’interesse speciale” del futuro canale, trovo solo gente che non è più padrona dei suoi campi, delle sue stalle, dei suoi orti, cioè della sua vita. Tutti hanno paura di parlare: “Lo stato ha deciso così, non possiamo farci niente”, è la risposta ricorrente. Il titolare del caffè, sua moglie e anche il figlioletto che serve ai tavoli con la maglia di Ronaldo dell’Al Nassr, insospettiti dalla mia frequente presenza, mi guardano con ostilità. Sono forse loro ad aver chiamato la polizia? O è la polizia che ha deciso d’identificare l’intruso che circola da giorni per fattorie e cantieri?
In cinque fanno irruzione nel caffè una tarda mattinata, quando sono seduto con Cem Tüzün, agricoltore e attivista di 61 anni, nel 2013 uno dei primi manifestanti a Gezi park e piazza Taksim, a Istanbul: è finito in carcere più volte e ha conosciuto la tortura di stato già a quindici anni. È uno di quelli in prima fila nella lotta a colpi di ricorsi legali contro quella che Erdoğan ha annunciato come “la più grande opera della Turchia moderna”. Cem accoglie i poliziotti con l’aria annoiata dell’habitué. Fotografano prima noi e poi i documenti, fanno delle telefonate e dopo alcune domande generiche se ne vanno. Da quel momento nel locale mi ritengono “pulito” e mi servono il tè con un largo sorriso. Ma quel pomeriggio, mentre osservo con Cem le colline violate di Baklali, c’è sempre la stessa Dacia azzurra sulla nostra scia di polvere.
Bisogna però riavvolgere il nastro di una storia incredibilmente ignorata dall’opinione pubblica internazionale. Era ancora il 2011 quando Erdoğan, allora primo ministro, tirò fuori l’idea del canale. Si sentiva forte, il consenso dell’Akp era all’apice, la storia (oltre agli oligarchi del cemento) reclamava grandi opere degne del sultano. Più precisamente Erdoğan aveva annunciato tre “progetti folli”.
I piani del sultano
Uno era una nuova autostrada lungo la costa del mar Nero, l’altro era il nuovo aeroporto di Istanbul sempre sul mar Nero e il terzo il Kanal İstanbul, il più colossale, destinato a incanalare il traffico del Bosforo una trentina chilometri a ovest dello stretto. Le tre follie erano interconnesse, si alimentavano a vicenda in un sistema logistico-infrastrutturale-commerciale tra Europa e oriente, tra Mediterraneo e Asia centrale. “Erano gli anni in cui Istanbul era nel mirino di Pechino, vista come uno snodo ideale per la Belt and road initiative, la nuova via della seta. La Turchia fu uno dei primi ad aderirvi nel 2015”, dice Ceren Ergenc, ricercatrice del Center for european policy studies ed esperta di Cina. “Secondo me Erdoğan ha deciso il grande azzardo nelle infrastrutture geoeconomiche perché contava sugli investimenti cinesi. Ricordo i comunicati del governo di Ankara in mandarino”.
L’autostrada ha sventrato 150 chilometri di foreste secolari – il polmone verde della megalopoli – protette fin dai tempi del sultano Mehmed II, che nel 1453 guidò gli ottomani alla conquista di Costantinopoli: “A chiunque tagli un ramo della mia foresta taglierò la testa”, avrebbe detto. Erdoğan alle querce preferisce i cavalcavia e il catrame: la nuova autostrada della regione di Marmara settentrionale è costata quasi cinque miliardi di dollari, incluso il terzo ponte sul Bosforo, il Yavuz Sultan Selim, inaugurato nel 2016, il più largo del mondo. L’autostrada ha aggirato i vincoli ambientali e urbanistici, ma è un capolavoro panoramico e d’ingegneria.
S’interconnette alla seconda follia di Erdoğan, il mega aeroporto costruito – infischiandosene del piano regolatore della municipalità di Istanbul – su una zona paludosa che era la pista d’atterraggio e decollo per centinaia di specie d’uccelli migratori. L’opera di bonifica di 7.600 ettari ha fatto lievitare il costo finale intorno ai dieci miliardi di euro. Inaugurato nel 2018 è il più grande d’Europa (anche se Erdoğan continua a dire “del mondo”) e vanta 321 collegamenti internazionali, infilando un record passeggeri dopo l’altro: ottanta milioni nel 2024, ma il piano è di raggiungere i duecento milioni entro il 2030. Ha ormai sostituito lo storico aeroporto Atatürk e pare che Erdoğan non gli abbia ancora assegnato un nome perché intende intitolarlo a se stesso.
Siamo dunque alla terza follia. Il cantiere apre il 26 giugno 2021, con l’avvio dei lavori del ponte Sazlıdere, il primo dei sei previsti sul canale. Erdoğan era lì a ribadire la portata storica dell’opera. Ha parlato di un costo di circa 15 miliardi di dollari e di circa cinque anni di lavori. È tornato sotto i piloni a ispezionare il cantiere il 27 febbraio 2025, insieme a due ministri. Stavolta nella conferenza stampa si è parlato di sette anni di lavori e anche il costo è salito a venti-trenta miliardi di dollari. Il ponte Sazlıdere (quasi due chilometri di lunghezza, con torri a forma di diamante alte 196 metri) resta l’unica infrastruttura in costruzione collegata al progetto, ma in realtà – mi dice Özer Or, rappresentante della camera degli ingegneri civili di Istanbul e consulente della municipalità nelle cause contro il governo – è il gigantesco viadotto di una bretella autostradale che sorgerà comunque: “È il punto di partenza per i progetti successivi, cioè la vendita dei terreni espropriati, diventati pubblici e rimessi sul mercato immobiliare internazionale con profitti spaventosi. Solo nel 2024 hanno fruttato a quello che io chiamo il ‘sistema-Erdoğan’ cinque miliardi di euro”.
L’idea di un secondo Bosforo non è nuova, gli statunitensi ne parlavano negli anni cinquanta, il premier turco Bülent Ecevit nel 1978 incaricò una commissione di studiare costi e benefici, ma si misero di mezzo i militari. Si rischiava di rompere gli equilibri Stati Uniti-Unione Sovietica, che sul Bosforo erano garantiti da accordi sul traffico navale antecedenti la guerra fredda. La convenzione di Montreux è del 1936 e regola la navigazione e il passaggio attraverso lo stretto dei Dardanelli, del mar di Marmara e del Bosforo: alla Turchia è vietato incassare pedaggi dai transiti delle navi mercantili, mentre le navi da guerra dei paesi che non si affacciano sul mar Nero sono sottoposte a una rigidissima trafila di limiti, dall’obbligo di preavviso di 15 giorni a un limite al tonnellaggio e ai giorni di permanenza nel mar Nero – bacino navale strategico per Mosca e ossessione della Nato. Ma la Turchia “neo-ottomana” di Erdoğan ama sfidare e scardinare gli equilibri regionali. Soprattutto, come mi dice l’urbanista Pelin Pınar Giritlioğlu, 57 anni, eroica docente dell’università di Istanbul, a rischio costante di arresto per la sua attività contro il canale: “Deve sfamare di cemento la bestia che tiene in piedi e in ostaggio il suo potere, la gang dei grandi costruttori”.
Con l’urbanista ci incontriamo sulla terrazza del caffè İstinye İskele che affaccia sul Bosforo. Nei giorni della mia perlustrazione tra i centri della Tracia colpiti dal tornado immobiliare siamo diventati amici, abbiamo cucinato insieme a casa sua, ho conosciuto la storia della sua famiglia di grandi architetti, il carattere dei suoi cani e ho percepito, dalla sua implacabile analisi, spesso sottolineata da sorrisi amari, tutta la gravità del momento che sta vivendo la Turchia. Storie di soprusi, di violenza e di resistenza.
Alcuni ragazzi si tuffano nel Bosforo, mentre sfrecciano motoscafi della capitaneria e una dopo l’altra transitano in fila indiana le petroliere in direzione nord, scortate da un rimorchiatore. Bestioni in lenta migrazione per rifare il pieno in Russia. Giritlioğlu, con un gelato in mano, mi racconta che il saggio in cui ha analizzato l’assalto governativo al piano urbanistico di Istanbul l’ha dedicato ai suoi amici ancora prigionieri per la protesta del 2013 a Gezi park, innescata da una speculazione immobiliare governativa nello storico quartiere: “Ero certa che mi avrebbero spedita a Bakırköy, il carcere femminile, solo per quella dedica, ma sono ancora qui. Gezi è stato il punto di rottura, lì sono nati l’opposizione e la vittoria del sindaco Ekrem İmamoğlu con un programma basato sul contrasto ai progetti edilizi pubblici illegali”.
La campagna elettorale di İmamoğlu nel 2019 era incentrata sulla lotta alla cementificazione delle aree protette rurali, forestali e acquifere nel distretto di Arnavutköy, in mano all’Akp, dove passa il tracciato del Kanal. E il suo primo atto da sindaco è stato firmare la petizione civica contro la costruzione del canale, ritenuta dall’opposizione un modo per trasferire soldi dal bilancio statale a elementi legati all’Akp attraverso aziende private vicine al governo. “Abbiamo costituito l’unione delle camere degli architetti, degli ingegneri, degli urbanisti, degli agronomi, dei geologi per sostenere tecnicamente i ricorsi amministrativi della municipalità”, dice Giritlioğlu parlando di una serie di battaglie vinte. Con diverse sentenze emesse tra il dicembre 2023 e il gennaio 2024 un tribunale amministrativo di Istanbul ha annullato i cambiamenti di destinazione d’uso dei terreni e imposto la sospensione dei lavori, ma il ministero dell’ambiente ha presentato ricorso. La corte suprema ha confermato le sentenze, ma ne ha sospeso l’applicazione. Così le ruspe, le betoniere e i camion non hanno mai smesso di sollevare polvere.
Nel 2024 l’impresa edile Emlak Konut ha indetto gare d’appalto per progetti abitativi e infrastrutturali su ampia scala nell’area di Dursunköy; nello steso anno Tokı, l’ente statale per l’edilizia pubblica, ha commissionato i lavori per un complesso residenziale nei pressi di Baklali, il villaggio simbolo della cementificazione, quello del mio faccia a faccia con la polizia. Questi due progetti produrranno nell’insieme 24.500 unità abitative. Numerosi altri ambiziosi progetti sembrano previsti lungo il percorso del canale, che è ancora un fantasma: la camera degli ingegneri prevede due milioni di nuovi residenti in una regione metropolitana che affronta un’emergenza di sovrappopolazione con quasi venti milioni di abitanti (nel 1980 erano tre milioni). “Dal 19 marzo di quest’anno c’è stata un’impennata spaventosa”, dice Giritlioğlu. “Hanno costruito migliaia di nuovi edifici in tempi da far invidia alla Cina”. Si riferisce alla data dell’arresto del sindaco İmamoğlu, l’esponente più popolare del Partito popolare repubblicano (Chp, all’opposizione) e principale rivale politico di Erdoğan. Con lui sono stati incarcerati tutti gli oppositori alla cementificazione lungo il tracciato del canale, il responsabile dell’Agenzia per la pianificazione urbana, quello dell’edilizia popolare del comune, il sindaco della municipalità di Beylikdüzü, il sindaco di Sisli, il responsabile delle opere antisismiche e quattro manager che affiancavano il sindaco nelle relazioni tecniche. “Una retata fatta per avere mano libera in questa grande rapina di terra che è il progetto del canale”, dice l’urbanista. E tutti coloro che ho intervistato hanno confermato che gli arresti di marzo hanno inaugurato una nuova, feroce ondata di repressione (a luglio anche i sindaci di Adana, Antalya e Adıyaman sono finiti in carcere, ad agosto è toccato al sindaco di Beyoğlu, nel distretto di Istanbul) e sono legati alla campagna di cementificazione delle ultime aree protette di Istanbul.
Nell’annunciare il suo progetto Erdoğan era stato chiaro: il nuovo canale serve per decongestionare un Bosforo sempre più trafficato e renderlo più sicuro e pulito. Un’opera, hanno scritto i giornali compiacenti, che potenzierà la centralità geopolitica e geoeconomica della Turchia. Nei comunicati del governo si è specificato che essendo un corso marittimo artificiale sotto la sovranità nazionale sarà escluso dai vincoli di Montreux e quindi la Turchia avrà il diritto di riscuotere pedaggi di transito calcolabili in un miliardo di euro nella prima fase fino ad arrivare a cinque miliardi all’anno.
L’autostrada ha sventrato 150 chilometri di foreste secolari
Non è stato facile raccogliere commenti da fonti governative, anch’esse hanno paura di parlare come i contadini di Baklali. Ho ottenuto, in forma anonima, la versione di un paio di esperti di Seta, il centro studi per la ricerca politica, economica e sociale che (secondo la radiotelevsione tedesca Deutsche Welle) è controllato direttamente dall’Akp, il partito di Erdoğan. I loro numeri, innanzitutto.
Numeri record
Nell’ultimo anno il Bosforo è stato attraversato da 43mila navi. Entro il 2050 si stima che saranno 78mila. Per fare un confronto, fino al 2023, prima dell’escalation delle tensioni nel mar Rosso, il canale di Suez registrava 26mila passaggi all’anno, mentre il canale di Panamá 14mila. Il 6 per cento del petrolio mondiale transita nel Bosforo, che è il più importante passaggio internazionale per i cereali: il 78 per cento del grano russo sfama mezzo mondo via Bosforo. Le navi sono sempre più grandi, dicono, e lo stretto ha una conformazione sempre meno adeguata: le sue curve, le correnti che richiedono manovre complicate e l’elenco degli incidenti mortali e dei disastri ambientali è lungo, proprio lì, sotto i minareti della moschea Blu, al centro di una delle destinazioni più visitate al mondo. Le regole stringenti per la sicurezza impongono alle navi cargo sensi unici alternati e lunghe attese in rada nel mar di Marmara o nel mar Nero. Insomma il Bosforo è un collo di bottiglia intasato, pericoloso, lento, infruttuoso: “Un’emergenza nazionale più che una risorsa nazionale”, sostengono.
Il Kanal İstanbul è l’unica alternativa e “trasforma la regione occidentale della città in un polo logistico nel cuore dell’Eurasia”. C’è una questione di status giuridico, “ma quando un canale marittimo è all’interno di uno stato sovrano, senza un nuovo trattato internazionale sarà naturalmente soggetto all’amministrazione del paese in cui si trova. Corinto è canale nazionale, mentre Suez e Panamá sono regolati da trattati internazionali. Quindi in questo caso vige il diritto nazionale turco”. E lo spirito di Montreux? E il nuovo contesto geopolitico nel mar Nero con l’invasione russa dell’Ucraina, l’instabilità della Georgia, la presenza nel bacino di altri due paesi Nato come Romania e Bulgaria? Quelli del centro studi non hanno dubbi: “Gran parte delle petroliere e delle navi portacontainer navigheranno nel canale a pedaggio, mentre le navi da guerra useranno il Bosforo, ci sarà un doppio regime di transito. Lo stretto di Istanbul non cesserà di essere un checkpoint militare. La Turchia continuerà a garantire la stabilità nel mar Nero, e difatti dalla Russia non sono arrivate dichiarazioni allarmate o minacciose. Chi spinge da molti anni per un superamento di Montreux sono gli Stati Uniti e la Cina, che quella convenzione non l’hanno firmata. Soprattutto gli Stati Uniti: vorrebbero libertà di movimento nel mar Nero, l’unico mare che non dominano. La Turchia deve tenere gli Stati Uniti fuori dal mar Nero, questo è il patto tra Erdoğan e Putin”, mi dicono.
Quanto alla Cina – che ha fatto degli investimenti nelle infrastrutture marittimo-commerciali il cuore imprenditoriale della sua espansione globale – al Seta non si sbilanciano, parlano di un “momento di riflessione” da parte di Pechino a causa della situazione generale nella regione del mar Nero. Secondo Çağdaş Üngör, esperta di relazioni sino-turche all’Università di Marmara, “la Cina era la candidata ideale per un megaprogetto come questo, il classico cavallo di Troia alla cinese. Ma non intendono essere presi nel mezzo di un contenzioso internazionale sulle controversie legate al trattato di Montreux”. Üngör dice che oggi la Cina percepisce la Turchia di Erdoğan come una concorrente nella regione e preferisce perseguire grandi progetti con l’Iran e l’Egitto. Il canale riuscirà a rilanciare la proiezione asiatica e transcontinentale di Istanbul? Per ora ci provano gli chef alla moda, come Fatih Tutak con la sua silk road cuisine al ristorante Gallada, vista Bosforo. Ai lussuosi tavoli, però, non si vedono clienti cinesi, ma solo russi e arabi.
Sulla spiaggia pubblica di Menekşe, sul mar di Marmara, cerco di immaginare come sarà l’imbocco del canale, perché è qui che hanno pianificato l’ingresso sud. C’è solo una stretta lingua di terra a separare il mare dal lago Küçükçekmece, una laguna naturale che da anni non contribuisce più al fabbisogno idrico di Istanbul perché inquinata dalla selvaggia espansione urbanistica lungo questa regione costiera affacciata sul Mediterraneo. Il lago si sviluppa in verticale per una decina di chilometri, ed è lì che s’infileranno le petroliere dopo aver pagato il ticket d’ingresso. Per ora stazionano disciplinatamente al largo, ne conto 28 in rada che si stagliano contro il sole del tramonto in attesa del loro turno per entrare nel Bosforo. C’è una partitella a pallone sull’ampia spiaggia, all’ombra dei pini marittimi le famiglie grigliano, bevono tè e controllano i social.
“Nessun armatore sano di mente manderà una nave nel canale”
Passeggio con il capitano in congedo Saim Oğuzülgen. Per farsi riconoscere si è presentato con la giacca da capo pilota dei rimorchiatori sul Bosforo indossata fino al 2011. Per decenni ha navigato gli oceani come capitano, Suez e Panama li ha passati centinaia di volte. È stato consulente del comitato scientifico che ha prodotto il report adottato dalla municipalità contro il progetto “Canale del cemento” – così lo chiama. “Sono un nemico della repubblica”, dice con l’intenzione di mettermi a disagio: “È l’accusa di Erdoğan verso chi contrasta il Kanal”. Prima di tutto smonta il “falso pretesto” dell’insicurezza del Bosforo. Fa notare che dal 2006 i passaggi sono calati del 43 per cento: meno navi, ma più grandi. E poi spiega che a partire dall’incidente spaventoso del 1994 – la collisione di due petroliere, 28 marinai morti, fiamme altissime, ventimila tonnellate di greggio in mare – il Bosforo è stato via via sempre più regolamentato fino a diventare “estremamente sicuro”.
Dal 2003 tutte le navi commerciali sono obbligate a una serie di comunicazioni tecniche all’autorità che governa gli stretti turchi per essere autorizzate ad avvicinarsi al Bosforo, dopodiché, raggiunte le venti miglia, se portano carichi pericolosi per passare devono accettare un pilota turco a bordo e un rimorchiatore d’assistenza. Le navi più lunghe di duecento metri non entrano. Mi mostra dei dati secondo cui dal 1994 sono transitate 1,2 milioni di navi e 4,5 miliardi di carichi sensibili e non si è registrato alcun incidente rilevante, cioè collisioni gravi, morti, disastri ambientali. “Viceversa, il Kanal sarà incredibilmente pericoloso”, dice il capitano fissandomi con uno sguardo drammatico dei suoi occhi verdi. “Il letto avrà una larghezza di 275 metri e una profondità di 20,75 metri, mentre le imbarcazioni che sceglieranno di usarlo non potranno avere un pescaggio superiore ai 17 metri. Mi chiedo cosa potrebbe fare un comandante in caso di avaria al motore. Prima di tutto bisogna gettare l’ancora, giusto? Ma non c’è nemmeno lo spazio per farla uscire dallo scafo, inoltre il fondo del canale è in cemento armato! Nessun armatore sano di mente manderà una nave nel canale, perlopiù a pagamento, quando hai una via più sicura, più larga – perché nel suo punto più stretto il Bosforo misura 698 metri – e più economica”.
“Hanno ottenuto quel che volevano, portare via la terra ai contadini”
Osservando questo tratto di costa cullato dalla luce del tramonto m’immagino le tre isole per residenze di lusso stile Dubai che si vogliono creare con i detriti degli scavi, 1,2 miliardi di metri cubi secondo l’ingegnere Özer Or, anche lui del comitato scientifico e quindi “nemico della repubblica”. Ha calcolato anche la quantità di calcestruzzo che sarà usata: 15 milioni di metri cubi, il triplo di quella usata per l’ampliamento del canale di Panamá ed equivalente al contenuto di 900mila betoniere. Mi chiedo se è quantificabile anche la polvere. E penso agli studi di Doğan Kantarcı, l’ormai ottantenne ex professore di scienze forestali e ambientali all’università di Istanbul che ho incontrato in un caffè vicino allo stadio del Fenerbahçe. Passa le notti pensando al Kanal. Ha smontato dato per dato la Valutazione d’impatto ambientale presentata dal ministero. Dagli ettari rubati all’agricoltura, che sarebbero ottomila e non 3.500, a quelli di superficie lacustre (15mila invece di 745), a quelli destinati ai nuovi centri urbani (11mila ettari anziché 280). Ha dimostrato che è praticamente impossibile costruire il porto sul mar Nero per le forti correnti e quale sarà l’impatto sulla fauna, che rimarrà di fatto intrappolata “nell’isola di Istanbul” che si verrà a creare, delimitata da due mari e da due canali marittimi: una nuova realtà geografica che, ancor più degli ecologisti come Kantarcı, inquieta i generali e gli ammiragli, i quali si chiedono come potrà essere garantita la difesa della parte europea di Istanbul e quali saranno le conseguenze geostrategiche della Tracia separata dal resto della Turchia.
Ma stando sulla riva del mar Nero penso soprattutto allo scenario prospettato da Kantarci – e non solo da lui – sull’incompatibilità dei due bacini collegati dal canale rispetto al collaudato matrimonio del Bosforo, che funziona perché le acque più salate e più pesanti del Mediterraneo non si mescolano con quelle del mar Nero: le une scorrono a nord in profondità, le altre scivolano in superficie nel Mediterraneo. Ma con il progetto del Kanal il sistema potrebbe andare in cortocircuito: uno scontro di correnti che può portare le acque inquinate del mar Nero – dove si deposita una parte delle fogne di Istanbul – a confluire nel mar di Marmara con il loro carico di acido solfidrico, uccidendo grandi quantità di pesci e ricoprendo Istanbul di un asfissiante fetore di uova marce quando il vento soffia da sudovest.
Paesaggi innaturali
L’orto di Murat Sayman, 41 anni, profuma invece di gelsomino ed eucalipto. Da due anni è però abbandonato, non ci coltiva più niente. Pomodori e peperoni li compra al mercato in paese, a Dursunköy, neanche 500 abitanti, uno dei villaggi finiti nel vortice della polvere e della follia predatoria del sultano. Anche il pozzo è aggredito dalla sterpaglia, così come il pollaio. “Non è più terra nostra, hanno confiscato tutto. In cambio ci hanno dato due piccoli appezzamenti non so neanche dove”, mi dice. È originario dell’est, si è stabilito qui per amore 15 anni fa. Ha un fisico possente da guerriero curdo e occhi nerissimi. “Qui nell’orto ci troviamo giusto sulla sponda del canale. Vedi laggiù quelle siepi? Ecco, lì passeranno petroliere lunghe quasi trecento metri. Prova a immaginare, pazzesco no?”.
È previsto che partendo dal mar di Marmara, dopo il lago Küçükçekmece e un primo tratto di scavi fino alla diga Sazlıdere – che è stata già smantellata, mettendo fuori uso il bacino idrico che fornisce il 10 per cento dell’acqua potabile di Istanbul – il canale arriverà in quest’area scavato in una sorta di valle naturale tra le colline. “Farà una leggera deviazione tra qualche chilometro a nord, poco dopo Baklali. Sbancheranno le colline più fertili, tre raccolti di girasoli all’anno, ti rendi conto?”, dice Sayman. Fa il rappresentante di piani di lavoro per cucine, pensava di sistemare la sua semplice casa sperando di far rientrare il figlio dalla Danimarca dove è emigrato, ma ha saputo che potrebbero portarsi via anche quella: sembra infatti che la sua proprietà rientri in un nuovo, gigantesco piano di edilizia residenziale con palazzine di cinque piani.
Sull’altra collina invece la città è praticamente già completata. Lo skyline dei palazzi e delle gru s’intravede tra gli alti eucalipti, sembra un paesaggio prodotto con l’intelligenza artificiale. Ma è tutto vero, l’ho visto in volto questo mostro residenziale di quasi 14mila unità abitative costruito tra i pascoli, ufficialmente per la Turkish Airlines. Qui però il Qatar avrebbe comprato terreni per quasi trecento ettari, di cui quasi cinque direttamente acquistati dalla madre dell’emiro. Più a sud ho osservato da un’altura – poiché c’erano posti di blocco a ogni via d’accesso – i cantieri di un’altra new town a ridosso della diga di Sazlıdere, dove si estendeva la più vasta coltivazione di frumento del distretto. Il ministero dell’ambiente e dell’urbanizzazione ha autorizzato l’avvio dei lavori ad aprile e dopo due mesi c’erano 52 gru all’opera. Le colonne di polvere s’alzavano come da un campo di battaglia.
Sayman sa come funziona: “La chiamano riqualificazione urbana oppure transizione urbana”, mi spiega scandendo le parole con sarcasmo. “Riclassificano i terreni dalla sera alla mattina. Per ragioni d’interesse nazionale, dicono. Cioè per l’emergenza sismica, per offrire case antisismiche a chi non si sente al sicuro nella metropoli”. Peccato che una delle faglie più attive del mondo, la spada di Damocle che pende sulla testa di Istanbul, passi proprio nel distretto di Arnavutköy, attraversato dal canale. “In realtà il progetto serve per conquistare terra pregiata. Il richiamo del canale fa aumentare il valore degli immobili attraverso la speculazione e così si manda avanti la locomotiva del paese, l’edilizia”, mi dice Murat. Un settore che contribuisce per il 6 per cento al prodotto interno lordo turco, soprattutto dopo il terremoto del 2023. Senza nuovi spazi da cementificare la locomotiva si ferma. “La bestia va sfamata”, mi diceva Pelin Giritlioğlu mangiando il gelato.
La Dacia azzurra a un certo punto scompare dallo specchietto retrovisore. “Agenti in borghese, dei servizi oppure contractor al soldo dei cantieri”, sentenzia Cem Tüzün, l’agricoltore-attivista con cui ho fatto l’incontro con i gendarmi al caffè di Baklali. “La Turchia è un posto sempre più pericoloso, chiunque contrasti gli affari dell’Akp è un traditore da schiacciare”, mi dice mentre percorriamo strade sterrate tra le colline di Baklali ad ammirare quel che resta della Tracia rurale. Lui stesso si sta difendendo in venti cause tra civili e penali che il governo gli ha intentato per farlo desistere. È stato condannato a due anni e mezzo di carcere per attività agricola non autorizzata nella sua fattoria, che aveva acquistato nel 1993; il suo ricorso è tuttora in esame.
Gli amici organizzano collette per le sue spese legali. “Gli ingegneri pubblici sanno tutto, cioè che questo del canale è un progetto-bandiera per fare profitti. Ma non parlano. Pensa, il piano regolatore del 2009 risale a quando a Istanbul governava l’Akp ed era molto rigido: mirava a contenere l’urbanizzazione con l’obiettivo di non superare i 16 milioni di abitanti. Quindi niente nuovi insediamenti, protezione delle risorse idriche, delle foreste e dei territori rurali. Urbanisti ed esperti ambientali erano ascoltati, ora invece se si esprimono contro gli ordini del governo rischiano la galera”.
È stato Tüzün a introdurmi all’Agenzia per la pianificazione urbana di Istanbul (Ipa) messa in piedi dal sindaco Ekrem İmamoğlu nel 2020, un istituto immerso in un grande parco dove collaborano tecnici, accademici, società civile. La sua apertura è stata un atto politico, un manifesto programmatico dell’opposizione e una scuola di formazione per una classe dirigente laica. A partire dalla scelta di occupare un complesso residenziale nell’esclusivo quartiere Florya dove risiedevano i sindaci dell’Akp: furono letteralmente cacciati dall’elitaria cittadella fortificata, dalle splendide ville, poi trasformate in laboratori, centri studi, biblioteche. La piscina dove lo stesso Erdoğan si rilassava insieme ai suoi collaboratori è un teatro per dibattiti pubblici sul futuro della città. L’appuntamento era con Emre Kovankaya, 42 anni, urbanista che si occupa delle aree rurali e dello sviluppo agricolo della metropoli. Uno dei tanti giovani collaboratori del sindaco per il dossier Kanal. “Possono anche non farlo più, tanto hanno ottenuto quel che volevano, portare via la terra ai contadini”, mi dice con rabbia. “Istanbul perderà una fondamentale riserva idrica e il 17 per cento delle aree agricole rimaste nella regione. Vanno persi i pascoli delle bufale, un terzo di tutte quelle ancora allevate in Turchia. Poteva essere la cintura verde di Istanbul ed è diventata la miniera di Erdoğan”. Chiedo se c’è ancora modo di fermare questa follia: “Bisogna cacciare il governo e poi demolire tutto”, risponde Kovankaya, che si dichiara socialista. Intanto fa avanti e indietro da Silivri, il carcere maschile dei prigionieri politici dove sono reclusi il sindaco e un centinaio di uomini a lui legati: “Continuano a lavorare, ci chiedono rapporti, sia per difendersi sia per dopo, quando governeremo noi. Qui all’Ipa il carcere lo chiamiamo il nostro studio ovale”.
Sessanta pecore
Il fuoco rivoluzionario di Kovankaya scalda il cuore, ma si spegne quando torno a Baklali, il luogo del delitto. Dal crocevia al centro del villaggio, sempre infangato dalle secchiate della commessa, m’infilo in auto dietro ai camion su per la strada che aggira la collina, fino a che, dopo circa un chilometro, la vista si apre sul panorama simbolo di tutta questa storia del Kanal İstanbul. La scena davanti a me sembra quella di un quartiere suburbano di cemento grigio trapiantato in mezzo a campi di grano maturo. Le strade non sono ancora asfaltate e le squadre di operai sono ancora impegnate a intonacare gli edifici di sette piani, che l’ente Tokı pubblicizza come edilizia popolare. Le quattro moschee invece sembrano già tirate a lucido e operative. Chi ha l’esclusiva dello spettacolo è Erol, 62 anni: la sua casa contadina è l’unica affacciata su Tokı 2025 – in linea d’aria saranno quattrocento metri da questa sponda del pendio. La panchina sotto il grande gelso non l’ha rimossa, ma non si siede più a godersi il paesaggio con i nipoti. “Piango ogni giorno a vedere che cosa stanno facendo alla mia Tracia”, dice mesto. Sta costruendo un paravento con rami intrecciati sul fianco sud del frutteto. Vive qui da 45 anni, era anche emigrato in Germania. “Mi hanno portato via metà della terra, come a tutti a Baklali. E come tutti coltivavo frumento e girasoli”, racconta timidamente, mentre beviamo un refrigerante ayran sotto il pergolato. “Arrivano quelli del ministero, consegnano un foglio ma non dicono se è per costruire il canale o le nuove città. Solo che è una questione di emergenza nazionale. Ti danno un mese per fare ricorso, ma non conosco nessuno che si sia opposto. La gente pensa che ciò che resta avrà gran valore”. Si parla di terreni passati da sei euro al metro quadrato a mille euro e più. “Ci vietano di costruire sulle nostre proprietà, anche di rimettere a posto le stalle. I giovani partono perché se non puoi farti una casa, una vita, non ti resta che andartene”.
Erol aveva sessanta pecore, vendeva lo yogurt a un negozio di Istanbul, ora ha trenta pecore e lo yogurt lo compra in paese. Lo stato offre un sussidio per il mangime, perché la polvere uccide i pascoli, soffoca i raccolti, rende sterili le vacche. Anche il frumento non viene più mietuto. Le albicocche e le prugne Erol le ha lasciate marcire sugli alberi. Nessuno acquista nuove mucche o bufale perché non riesce a mantenerle. Le balle di fieno che erano gratis ora arrivano dalla Bulgaria. “La Turchia era tra i primi cinque paesi più autosufficienti dal punto di vista alimentare, ora compriamo il grano dall’Ucraina e dalla Russia”, dice Erol, che sembra più vecchio dei suoi anni ed è un uomo spossato dalla malinconia. Pensa che finirà per vendere, il figlio gli riferisce che le agenzie gli telefonano in continuazione, ce n’è una che si chiama proprio “İstanbul Kanal”. Privato dei campi ha trovato lavoro all’aeroporto, dove impacchetta il pranzo per gli addetti della metropolitana. Prende lo stipendio minimo: seimila euro all’anno contro i 12mila che ricavava dai raccolti. Poco gli importa chi saranno i suoi trentamila vicini di casa: “Continuerò ad andare ogni venerdì alla nostra vecchia moschea, lì ci si conosce, si va al caffè a giocare a dama, a parlare del passato, che al giorno d’oggi è l’unica cosa certa”.
Vacanze rovinate
È una domenica pomeriggio quando mi stendo tra le rocce bagnate dal mar Nero, che è effettivamente di un blu quasi cupo. Non si scorge alcuna imbarcazione fino alla linea dell’orizzonte, come può capitare in riva all’oceano. Il Bosforo sta a un centinaio di chilometri a est. Sulla strada incombe una bassa scogliera a strapiombo, parte di questo litorale selvaggio e protetto. Come è protetta dal piano urbanistico tutta l’area dell’immediato entroterra, con la foresta e il lago Terkos. C’è una numerosa comitiva di ragazzi con le borse frigo piene di birre; più in là, isolate, quattro ragazze velate di nero chiacchierano fitto e scoppiano in improvvise risate. Sulla destra, a qualche centinaio di metri, si staglia il promontorio di Karaburun, con il suo faro che qui in Tracia è famoso come il Marshall Point nel Maine, quello dove Forrest Gump termina la sua corsa. Pelin – l’urbanista diventata una nuova amica – al telefono conferma che è il posto giusto: è qui che è prevista l’apertura nord del Kanal İstanbul. Lo racconto a una giovane australiana, che prima di prendere il suo volo di ritorno si fa ancora qualche ora di mare. Le dico della cementificazione delle colline, della polvere, del progetto immobiliare che in questo segmento settentrionale del tracciato, tra il lago e la costa, prevede residenze di lusso, porti turistici, centri commerciali e campi da golf. Non mi crede e non riesco a convincerla. Alla fine ho l’impressione di averle rovinato l’ultimo scampolo di sole turco. ◆
Marzio G. Mian è un giornalista italiano, autore di Volga blues (Feltrinelli 2024).
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Questo articolo è uscito sul numero 1642 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati