Perché lo rispettavamo e gli credevamo? Perché lo abbiamo ascoltato tante volte, con quel bagliore umido all’angolo degli occhi? Cosa aveva di speciale quel signore pieno di rughe, con i baffetti grigi, i capelli e la barba trascurati, la pancia prominente, le occhiaie e il cappello che lo faceva somigliare più a un bracciante che a un aspirante Che Guevara? Perché, in un mondo che disprezza i politici, lo amavamo tanto? Forse perché parlava una lingua che sembrava la nostra e conservava principi che molti hanno perduto? Perché diceva quello che gli altri non dicono? O perché le sue quattro vite hanno avuto una coerenza sconosciuta alla maggioranza delle persone?

La prima vita di José Alberto Mujica Cordano cominciò a Montevideo, in Uruguay, il 20 maggio 1935. Suo padre era un proprietario terriero che aveva perso tutti i possedimenti ed era morto prima che il figlio avesse sette anni. Mujica fu cresciuto dalla madre, contadina laboriosa, figlia di un contadino italiano. Cominciò a lavorare nei campi quando era molto piccolo. Gli piaceva leggere ma gli piaceva di più la terra. Lasciò presto l’università e nel frattempo passava da un gruppo anarchico al partito nazionalista Blanco. Nel 1960, come leader del movimento giovanile del partito, visitò L’Avana, dove ascoltò l’argentino Che Guevara, ideale del guerrigliero latinoamericano che aveva invitato i presenti a imparare “nella straordinaria università dell’esperienza e del contatto vivo con il popolo, con le sue necessità e le sue aspirazioni”. Mujica continuava a cercare il suo posto nel mondo. Anni dopo, superata la trentina, entrò nel Movimento di liberazione nazionale Tupamaros, da Tupac Amaru, leader e martire di una rivolta inca alla fine del seicento.

I Tupamaros erano un partito armato di sinistra attivo in un periodo in cui tutti i paesi della regione ne avevano uno. Rifiutava il modello cubano basato sulla lotta nelle foreste e nelle montagne e preferiva l’attivismo in città, anche perché in Uruguay non c’erano montagne né foreste. All’inizio il movimento si dedicava a “espropriare” armi e denaro. Anni dopo, in un documentario realizzato da Emir Kusturica, Mujica ribadì che pochi crimini sono peggiori della fondazione di una banca – “guadagnare sfruttando i soldi degli altri è un distillato del capitalismo, la sua quintessenza” – e che “entrare in una banca con una calibro 45 in mano è la cosa più bella del mondo. Tutti ti rispettano”.

I Tupamaros svaligiavano banche senza molta arte né preparazione. In uno dei suoi primi colpi, l’espropriazione di un’azienda tessile, Mujica fu catturato. La polizia cercava un tale Facundo, ma non sapeva che fosse lui. Passò per un ladro comune e fu condannato a otto mesi di carcere. Tornato in libertà, Facundo entrò nella direzione del movimento, che cercava di affermarsi come organizzazione armata ma anche di beneficenza. Metteva a segno colpi sensazionali e violenti, però il meno violenti possibile. Quando assaltavano un’azienda, i Tupamaros ne denunciavano le frodi. Quando sequestravano diplomatici imperialisti per chiedere un riscatto, condividevano il denaro con gli abitanti dei quartieri poveri. L’8 ottobre 1969, per ricordare il secondo anniversario dell’esecuzione di Ernesto Che Guevara in Bolivia, decisero di conquistare la cittadina di Pando, a trenta chilometri da Montevideo. I guerriglieri, tra cui Facundo, inscenarono un falso corteo funebre e occuparono il commissariato, la stazione dei pompieri, la sede dell’azienda telefonica e diverse banche. Nello scontro con la polizia morirono un agente, un civile e tre militanti. Nei giorni successivi furono arrestate molte persone del movimento.

Alcuni mesi dopo, una sera di maggio del 1970, Facundo stava bevendo una birra con altri uomini in un bar di Montevideo. Qualcuno sostiene che avessero appena compiuto un’azione armata. Entrarono i poliziotti e gli chiesero i documenti. Facundo rispose con la pistola: “Questi sono i miei documenti”, si racconta che disse mentre sparava. Ferì un agente, fu ferito, cercò di scappare, ma cadde in strada. I poliziotti gli spararono altre cinque volte, lasciandolo agonizzante. Poi lo portarono in ospedale, dove un chirurgo che simpatizzava con la causa lo salvò. Fu la fine della prima vita di José Alberto Mujica Cordano.

In quegli anni sessanta, dopo decenni di frustrazioni, golpe militari e violenza di stato, molti gruppi della sinistra del terzo mondo credevano che alla violenza dall’alto si potesse rispondere solo con la “violenza dal basso”. Quindi imbracciarono le armi e si dedicarono a quello che oggi viene chiamato terrorismo. Seguivano l’esempio dei cubani, ma anche dei partigiani francesi e del popolo vietnamita, di padre Hidalgo, di José de San Martín, di Simón Bolívar. Alla fine persero la battaglia. Per migliaia di persone all’epoca quella sembrava l’unica via d’uscita.

Pochissime speranze

La seconda vita di José Alberto Mujica Cordano è stata piena di ombre. Nel paese la situazione era drammatica: i soldi scarseggiavano, le manifestazioni aumentavano e la repressione era brutale. I Tupamaros diventarono più violenti. Nel luglio del 1970 il gruppo sequestrò Dan Mitrione, un funzionario dell’ambasciata statunitense e agente della Cia con una lunga storia alle spalle, arrivato in Uruguay per addestrare gli agenti locali nelle tecniche di tortura più avanzate. I Tupamaros pretesero la scarcerazione di decine di militanti in cambio della sua liberazione, ma i governi dell’Uruguay e degli Stati Uniti rifiutarono. Alla fine i guerriglieri uccisero Mitrione in nome della giustizia rivoluzionaria, e così intaccarono la loro immagine. Mujica, nel frattempo, era ancora malconcio. Quando si riprese, le autorità lo trasferirono nel carcere di massima sicurezza di Punta Carretas, insieme a molti compagni. Lì organizzarono una fuga rocambolesca: per mesi scavarono un tunnel lungo quaranta metri e profondo dieci, che permise a 106 detenuti di scappare. Mujica, che a quel punto si faceva chiamare Emiliano, fu arrestato quasi subito. Fuggì di nuovo, fu catturato, scappò ancora ma la sua libertà fu breve.

Nel marzo del 1973 i militari presero il potere. I Tupamaros erano in difficoltà, ma attivi. Per controllarli, l’esercito prelevò nove leader del movimento dal carcere Libertad e li inviò in varie caserme come ostaggi.

Un maggiore chiamato Niño, incaricato di gestire quelle operazioni, spiegò la situazione a uno degli ostaggi in modo brutale: “Porto con me una risoluzione del comando generale dell’esercito: sei condannato a morte”, disse. “Al primo attentato, ti ammazziamo. Sai che è facile, basta che facciamo finta che hai provato a scappare e sei finito”. Nei dodici anni successivi Mujica restò in carcere, isolato, senza libri né medicine, senza un letto, un bagno, praticamente senz’acqua e senza mangiare, con pochissime speranze. Per due anni rimase chiuso in una cisterna buia, senza potersi muovere. Perse tutti i denti, non conteneva l’intestino, sentiva voci inquietanti e imparò ad ascoltare le formiche. “Nel pozzo ho scoperto che le formiche gridano. Basta accostare l’orecchio per sentirlo”, raccontò in seguito. Dato che non gli davano abbastanza acqua, beveva la sua urina. A volte, quando ci riusciva, ricordava una ragazza bionda, compagna del movimento, che aveva conosciuto in una delle sue fughe e con cui aveva parlato quando lei gli aveva preparato un documento falso. Desiderava che fosse ancora viva e non lo avesse dimenticato.

La dittatura militare uruguaiana, pioniera nel Cono sud, durò dodici anni e cercò di trasformare il paese più libero e laico della regione in una roccaforte cattolica. Non ci riuscì e nel 1985 dovette accettare il ritorno della democrazia. Uno dei primi provvedimenti del nuovo parlamento fu la liberazione degli ostaggi tupamaros. Quando Mujica, che ormai era per tutti “El Pepe”, uscì dall’ultimo commissariato, era un relitto umano. Aveva cinquant’anni, ma il carcere e la tortura lo facevano sembrare più vecchio. Molti gli riconoscevano il merito di aver rischiato la vita da leader guerrigliero. Altri gli rimproveravano il passato violento. Ma per la maggioranza degli uruguaiani era la vittima per eccellenza della barbarie della dittatura. In quei giorni dopo la liberazione, cominciò la sua terza vita.

Un altro cammino

In quelle prime settimane lo chiamavano a incontri e dibattiti. Mujica parlava lentamente, con ironia e semplicità, tenendo la testa bassa. Ammetteva senza enfasi che lui e i suoi compagni non avevano una linea o un programma da offrire, che erano appena stati liberati. Ma sapevano che l’idea di base era ancora la stessa: fare in modo che tutti vivessero nell’uguaglianza. Mujica non era più un capo che cercava di convincere la platea, ma un vecchio che chiacchierava. Eppure le sue convinzioni restavano solide: “Noi di sinistra siamo filosoficamente diversi. L’uomo è il problema ma anche la speranza. Non viviamo per sfruttare gli altri, per succhiargli il sangue. Vogliamo convivere con gli altri. Non lasciate che vi rubino la vita. Non lasciate che cambino il vostro modo di sentire”.

In quel periodo gli ex carcerati tupamaros e altre migliaia di persone formarono un partito che entrò nel Frente amplio, un’alleanza di centrosinistra che voleva rompere il bipartitismo degli ultimi 150 anni di storia politica uruguaiana. Mujica era uno dei punti di riferimento. Si era ricongiunto con la ragazza bionda, Lucía Topolansky, e abitavano in una vecchia fattoria alla periferia di Montevideo. Mujica coltivava la terra e viveva per l’amore, la militanza, il lavoro, il mate e l’orto.

Nel 1995 il partito ottenne i voti necessari per portare in parlamento Mujica e altri attivisti. Fin dal primo giorno da deputato Mujica si presentò vestito come sempre, con la Vespa vecchia e scolorita. Un agente lo avvicinò facendogli presente che quel posto era riservato ai deputati, e gli chiese se volesse lasciare lì la Vespa a lungo. “Se non mi cacciano prima, cinque anni”, rispose con il suo solito sorriso canzonatore.

Nel 2000 Mujica era una figura di rilievo nazionale. Attirava l’attenzione perché viveva come sempre, anche se era un senatore. “Bisogna pensare a vivere come poveri, nello stesso modo degli altri”, diceva.

Il suo stile semplice, le sue parole chiare, piacevano e attiravano voti. “Sono di una generazione convinta che il socialismo fosse dietro l’angolo. La mia gioventù appartiene al mondo dell’illusione. La storia ci ha dimostrato che era più difficile di quanto pensassimo. Abbiamo imparato che per avere un’umanità migliore, la questione culturale è importante come quella materiale. Possiamo cambiare le cose materiali, ma non serve a niente se non cambiamo anche la cultura. Il vero cambiamento è dentro la nostra testa. Molti ex socialisti sono passati al capitalismo. Poi ci sono quelli come me, che cercano di arginare in qualche modo il capitalismo. Ma il capitalismo non è la soluzione. Bisogna trovare un’alternativa, un altro cammino”.

Nel 2005 il candidato presidenziale del suo partito, Tabaré Vázquez, un elegante medico cattolico e dalle idee progressiste, vinse le elezioni. Mujica fu nominato ministro dell’allevamento, dell’agricoltura e della pesca.

Come la maggioranza

La sua terza vita raggiunse l’apogeo cinque anni dopo quando, dopo aver superato le primarie del Frente amplio, vinse le presidenziali al secondo turno. Il 1 marzo 2010 un ex guerrigliero, ex prigioniero della dittatura e anticapitalista alla ricerca di una nuova via, fu nominato presidente, acclamato dal popolo.

La sua presidenza ebbe alti e bassi, come tutte. Mujica firmò la legge sull’aborto (su cui il suo predecessore aveva posto il veto) e quella sul matrimonio omosessuale. “Il matrimonio gay è più vecchio del mondo. Basta pensare a Giulio Cesare e Alessandro Magno. Dicono che è moderno, ma è più antico di noi. È una realtà oggettiva. Esiste. Non legalizzarlo significa torturare inutilmente le persone”, disse all’epoca. Ma probabilmente la misura più conosciuta tra tutte quelle introdotte dal suo governo è stata la legalizzazione della marijuana nel 2013, nel tentativo di separare la droga dalla delinquenza. “Il consumo di cannabis non è l’elemento più preoccupante. Il problema reale è il traffico di droga”, disse Mujica. “Il nostro obiettivo è privare il narcotraffico del suo mercato, perché questo è il modo migliore per combattere l’attività criminale. L’alternativa è quello che succede ora: sequestriamo un carico, poi un altro, vinciamo molte battaglie ma perdiamo la guerra. Non so se il nostro progetto risolverà il problema, ma è chiaro che cent’anni di persecuzioni nei confronti dei consumatori non hanno portato risultati”. Mujica ridusse anche la disoccupazione e aumentò il salario reale, ma non riformò il sistema scolastico a causa dell’opposizione dei sindacati. E non giudicò i crimini della dittatura: “La giustizia puzza di vendetta”, disse in un’intervista.

José Pepe Mujica con il presidente cileno Gabriel Boric. Montevideo, 3 febbraio 2025  (Presidency of the Republic of Chile/Reuters/Contrasto)

I risultati migliori Mujica li ottenne nella costruzione di se stesso. In tutto il pianeta si parlava “del presidente più povero del mondo”, che donava il 90 per cento del suo stipendio alle cause sociali e viveva nella sua fattoria con la compagna Lucía e con la cagna Manuela, spostandosi a bordo di una vecchia Volkswagen celeste del 1987. L’immagine era quella di un uomo che viveva come la maggior parte dei suoi connazionali. Tutti pensavano che quelli come lui non sarebbero mai diventati presidenti, e se ci fossero riusciti avrebbero smesso di essere quello che erano prima.

Mujica distrusse entrambe queste certezze. “Sono repubblicano, ma il problema è che le presidenze si concludono somigliando alle monarchie, con il tappeto rosso e tutto l’apparato di corte. Le repubbliche, invece, devono essere qualcosa di diverso. Se gli elettori sono la maggioranza, allora anche gli eletti devono vivere come vive la maggioranza, non come le élite”, diceva. “Dicono che sono il presidente più povero, ma non mi sento povero. Poveri sono quelli che lavorano per cercare di mantenere uno stile di vita alto e vogliono sempre di più. È una questione di libertà. Se non possiedi molte cose non devi lavorare per tutta la vita come uno schiavo per mantenerle, quindi hai più tempo per te”.

L’obiettivo di Mujica, una società più giusta e ugualitaria, non è mai cambiato. A evolversi sono state le forme in cui pensava di raggiungerlo: “La parola ‘socialismo’ è già abbastanza complicata, basta cominciare dalle cose semplici: lottiamo per l’uguaglianza fondamentale tra gli esseri umani”.

Alla fine del suo mandato, nel 2015, Mujica pronunciò il suo discorso di addio: “Caro popolo, ti ringrazio. Non dubitare, se avessi due vite le userei entrambe per aiutarti nelle tue lotte, perché nei miei quasi ottant’anni ho capito che questo è il modo più grandioso di amare la vita. Non me ne vado, sto ancora camminando. Me ne andrò con l’ultimo respiro e ovunque sarò, sarò con te, perché stare con il popolo significa stare con la vita”. Così cominciava la sua quarta vita.

Da vecchio, Pepe Mujica è stato come vorremo essere tutti: un uomo rispettato per il percorso della sua vita, ascoltato da molti perché quel percorso legittimava le cose che diceva. Aveva vissuto e continuava a vivere senza allontanarsi mai da quello che pensava, e per questo quello che pensava era seguito con interesse, perfino con riverenza. Nei dieci anni della sua quarta vita, Mujica è stato il vecchio saggio della tribù, e la sua tribù era sconfinata: milioni di uomini e donne a cui stava a cuore il futuro delle nostre società.

Mujica trascorse l’ultima delle sue quattro vite predicando: diceva cose che altri non dicevano, che avevano smesso di dire da decenni, che poteva dimostrare con la sua esperienza e la sua storia. In un mondo in cui quasi nessuno risulta credibile e si fida di niente, Pepe Mujica ha occupato uno spazio di fiducia e credibilità, insperato. È bastata la sorpresa di vedere un uomo vivere come invitava gli altri a vivere, insieme al fatto che non voleva nulla per sé, o almeno nulla di materiale. Le sue quattro vite sono state una vita sola, coerente. È straordinario.

Continuava a vivere senza mai allontanarsi da quello che pensava, e per questo era seguito con interesse

Guardare avanti

Mujica non ha mai lavorato per il presente, ma sempre per il futuro. Aveva convinzioni salde e le considerava la base della sua esistenza. “Diciamo che bisogna risparmiare la corrente perché c’è poco combustibile e potrebbero verificarsi dei blackout, senza renderci conto che il combustibile non manca per la crudeltà del destino, ma perché viviamo in una società in cui lo spreco è legge. Pensiamo al vero significato della parola ‘spreco’. Diciamo ‘bisogna risparmiare la corrente per non far mancare la luce’. Io mi chiedo: è la luce che non dobbiamo sprecare? No, è la vita umana. Perché quando si compra non si compra con il denaro, si compra con la vita che si spreca per ottenere il denaro. Ma la vita non è una merce. È l’unico bene che non possiamo comprare. Quando hai sprecato la vita dietro al denaro, hai sprecato la cosa più bella che esiste, la libertà. Parlo della libertà di fare quello che ti piace e ti gratifica. Quanto più è grande la parte della vita che dedichi al denaro, più piccolo è lo spazio per la libertà. Un tempo pensavo che il problema fossero le classi sociali, ora credo che sia la civiltà in cui ci tocca vivere”, disse alla grande giornalista uruguaiana María Esther Gilio, che gli aveva chiesto come potevamo creare l’umanità “un po’ migliore” di cui parlava.

“Questa umanità si costruisce”.

A partire da cosa?

“Da una cultura diversa, da un modo di vivere diverso”.

Come possiamo riuscirci? Non è facile.

“Certo che non è facile, e non so nemmeno se è possibile. Potremmo fallire. Ma se rinunciamo a quest’aspirazione non usciremo mai dal capitalismo. Seguiremo un lungo cammino con la convinzione che ci stiamo avvicinando al socialismo, ma ci accorgeremo che continuiamo ad avere intorno solo il capitalismo”.

È già successo. È difficile. Non sappiamo bene cosa fare.

“Dobbiamo continuare a provare, a percorrere nuovi cammini. Ascolta, io non ho risposte certe. Non posso averle. Per me questa è la sfida centrale che deve affrontare la sinistra”.

Cambiare l’umanità.

“Sì, cambiare l’umanità. Possiamo cambiare tutto quello che ci circonda: la sanità, l’insegnamento, il modo di mangiare, i divertimenti, la casa. Ma se non cambiamo l’umanità, se i valori rimangono gli stessi…”.

A quel punto la giornalista gli chiese cosa avrebbero detto di lui le generazioni future.

“Non voglio essere ricordato. Se potessi scegliere, vorrei essere dimenticato. Non c’è niente di peggio della nostalgia, di affidarsi a divinità morte. I morti vanno seppelliti e poi ricordati una volta all’anno, quando è il momento”.

Non puoi dire così, le persone ti ricorderanno lo stesso.

“Con i morti non si costruisce nulla. La gente deve vivere con coraggio, guardando avanti. Bisogna servire da fertilizzante, non da ostacolo. Servire da fertilizzante significa mineralizzarsi, semplificarsi, trasformarsi in qualcosa di utile. Perdere il senso di appartenenza. L’importante non è che resti il nome, ma le idee, senza chiedersi o sapere da dove vengono, perché devono essere fatte proprie da chi le segue”.

Oggi abbiamo una tentazione irresistibile di citarlo all’infinito, di lasciar parlare lui. Quando la sinistra ci è sembrata timorosa o dogmatica, autoritaria o sterile, le sue parole ci stimolavano, ci spingevano a pensare, creavano speranza. Per questo l’ex guerrigliero, ex detenuto, ex presidente ed ex vecchio saggio Pepe Mujica continuerà a parlare ancora per molto tempo. ◆ as

Martín Caparrós è un giornalista e scrittore argentino. I suoi ultimi libri pubblicati in Italia sono Ñamerica (Einaudi 2022) e La fame (Einaudi 2022).

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Questo articolo è uscito sul numero 1615 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati