Non metterò mai più piede su una nave! È la promessa che mi ero fatto nel corso di una traversata dell’oceano Pacifico alla fine degli anni novanta. Andavamo da Tokyo a Los Angeles a bordo della nave cargo tedesca Punjab Senator. L’impossibilità di muoversi, gli spazi ristretti, la noia costante e il rumore incessante dei motori erano troppo per il mio stato d’animo, o forse troppo poco. In compenso avevamo festeggiato due volte il Natale, perché il 24 dicembre avevamo attraversato la linea internazionale del cambio di data. E così ci era stata servita due volte l’anatra alla pechinese, che era gommosissima e puzzava di olio motore, come tutto il resto d’altronde.

Il mio peso era aumentato del 20 per cento e la mia massa muscolare era calata della stessa misura. Il tempo passava così lentamente che sembrava essersi fermato. Ogni settimana sembrava durasse un mese. Poi ci aveva investito una tempesta, con onde alte quindici metri. Per tre giorni e tre notti nessuno era più riuscito a dormire. La Punjab Senator, al suo primo viaggio nel Pacifico, rischiava di essere travolta a poppa e a prua da un’onda anomala, una situazione estremamente pericolosa in cui un’imbarcazione può addirittura spezzarsi in due. Quando ne avevo parlato al capitano, mi aveva risposto con una frase che mi era rimasta impressa: “Si spezza solo ciò che non si piega”.

Vent’anni dopo

Il capitano della Sy Passage è il mio amico Till, che in passato ha fatto il giro del mondo in barca a vela. Negli ultimi quattro anni ha portato passeggeri a pagamento alla scoperta del grande nord, risalendo la costa norvegese fino all’isola di Spitsbergen, proseguendo giù lungo la costa orientale della Groenlandia fino in Islanda, e poi risalendo lungo quella occidentale per tornare in Europa. Fino a quel momento avevo sempre rifiutato i suoi inviti a unirmi a lui. Gratis, ovviamente.

Secondo Till, questo viaggio, obbligandomi a condividere uno spazio ristretto con persone diverse da me, mi avrebbe costretto a uscire dalla mia zona di comfort, rendendomi più tollerante. Mi ha spiegato che in barca quelli di sinistra diventano pappa e ciccia con quelli di destra e che nascono amicizie tra ufficiali delle forze armate e pacifisti, tra ambientalisti e orgogliosi proprietari di Ferrari. L’istinto di sopravvivenza fa in modo che a bordo ci si amalgami in un’unità dal funzionamento armonico.

L’idea di essere rinchiuso in una piccola imbarcazione con un branco di persone antipatiche non ha reso la prospettiva più appetibile. Oltretutto, con quasi mezzo secolo di vita sul groppone, alla parola cambiamento associavo soprattutto peggioramento. Il termine flessibilità, inoltre, mi faceva venire in mente il mal di schiena e i contratti di lavoro precari. Insomma, in realtà non volevo fare altro che tornarci, alla mia zona di comfort.

Si parte

Per molti anni, quando viaggiavo per il mondo facendo il fotografo freelance, da quella zona di comfort non ero mai uscito. Ma quando è cominciata la crisi della carta stampata, mi sono ritrovato come molti colleghi nella difficile condizione di lavoratore povero. All’epoca mi nutrivo soprattutto della speranza che, per dirla in termini nautici, il vento prima o poi tornasse in poppa. Questa era la mia situazione quando Till mi ha chiesto per l’ennesima volta di unirmi a lui.

Mi ha fatto capitolare un insieme di fattori: un’estate zurighese noiosa e caldissima, la lunga fase di disoccupazione e il richiamo dell’ignoto mi hanno spinto a considerare quel viaggio come un’ottima opportunità per distrarmi, rinfrescarmi e perfino racimolare qualche soldo grazie alle foto che avrei scattato. Quando l’ho raccontato a mio fratello, che si era già fatto il circolo polare in barca a vela, mi ha dato un consiglio: prima di partire dovevo fare ogni giorno dieci minuti di doccia fredda. Così, se fossi caduto nel mare ghiacciato, avrei ritardato almeno di qualche minuto la morte per ipotermia.

Il volo da Reykjavík a Kulusuk – uno dei cinque insediamenti sulla costa est della Groenlandia, lunga circa tremila chilometri – era pieno di turisti piuttosto giovani e in forma, con coloratissimi e costosissimi equipaggiamenti outdoor.

Ho chiesto alla donna seduta accanto a me come mai andava in Groenlandia e lei, con gli occhi che le brillavano, mi ha detto che avrebbe fatto un giro in kayak sperando di vedere orsi polari, narvali, cacciatori inuit e ghiacciai in distacco prima che si estinguessero tutti quanti. Siccome a quel punto mi era passata la voglia di parlare con lei, mi sono messo a guardare fuori dall’oblò dell’aereo riflettendo sulla fine del mondo.

A bordo del mio volo c’era anche la giovane Diane, una ricercatrice che si occupa di cellule staminali e che sulla Sy Passage avrebbe fatto da co-skipper, quindi sarebbe stata il mio capo. Diane veniva da due mesi di missione scientifica nell’Atlantico settentrionale, passati a raccogliere campioni di aria espirata dai cetacei per verificare la presenza di agenti inquinanti. Osservava le bolle di balena al microscopio elettronico e s’immergeva nel mare ghiacciato armata di fotocamera subacquea per ritrarre le orche. Diane scoppiava di ottimismo, fiducia in se stessa e sete di avventura. Io, dopo pochi minuti trascorsi insieme, scoppiavo di ammirazione per lei.

Di tanto in tanto il chiarore di un iceberg spezzava il grigio uniforme del mare. Quando è cominciata la discesa dell’aereo, di luci del genere se ne sono accese sempre di più: dal buio emergevano iceberg abbaglianti e bluastri e alcuni, visti dall’alto, sembravano squadrati come le navi cargo. Più lontana si stagliava minacciosa all’orizzonte una catena montuosa con migliaia di vette affilate. Il contrasto con le dolci scogliere islandesi, verdi e lisce non avrebbe potuto essere più grande.

Sermiligaaq, Groenlandia, luglio 2019 (Luca Zanetti)

Arrivati a Kulusuk, dopo il check-in, il proprietario dell’albergo ci ha detto che dovevamo assolutamente andare a vedere una balena pilota appena catturata. Per qualche motivo Diane e io eravamo convinti che l’animale fosse ancora vivo e ci siamo messi a correre verso il molo, entusiasti come se stessimo per incontrare Moby Dick. Quel pomeriggio il cielo era terso e azzurro e, con le sue villette unifamiliari dipinte di rosso e blu, la cittadina sembrava finta. Oltre alle case-giocattolo, c’erano un cimitero con croci sparse, bianche e senza nome, una chiesa, una scuola, un supermercato e un minuscolo museo dedicato allo “stile di vita tradizionale”.

La balena pilota grigio scuro misurava circa cinque metri e galleggiava sul pelo dell’acqua riversa su un fianco, con una corda avvolta attorno alla pinna caudale. L’occhio era aperto. Dove era stata colpita dalla fiocina, sopra le pinne pettorali, il sangue aveva formato un grumo congelandosi. La pinna dorsale si era staccata e giaceva su una roccia, accanto a una pelle di foca stesa ad asciugare. L’ho sollevata per toccarne la carne rossa: non avevo mai toccato un mammifero marino e per un momento mi sono sentito come se stessi contemplando un parente morto.

Il giorno dopo ci siamo uniti a un gruppo di turisti statunitensi che dovevano visitare il Museo dello stile di vita tradizionale. Abbiamo ammirato le capacità di sopravvivenza degli inuit, i loro kayak fatti di legno siberiano e ossa di animali e impermeabilizzati con pelle di foca, i loro stivali e gli abiti in pelliccia di orso polare, i guanti in pelliccia di foca, stranamente dotati di due pollici. Per evitare di restare accecati dalla neve, gli inuit intagliavano minuscole fessure nelle ossa per usarle come occhiali da sole.

Alcune foto in bianco e nero appese alle pareti ritraevano i familiari delle due guide del museo. Mi sono sentito in soggezione: erano i superstiti di un brutale processo di selezione, discendenti diretti di chi era riuscito a sopravvivere all’era glaciale, dei cacciatori più abili mai esistiti. Mi hanno spiegato che in passato qui la vita era dura. Quando una donna restava vedova, s’inoltrava tra i ghiacci fino a sparire in una bufera di neve.

Sulla barca a vela Sy Passage, luglio 2019 (Luca Zanetti)

Fase di transizione

Oggi è tutto diverso, siamo in una fase di transizione: da una società di cacciatori a una di pescatori. Secondo le nostre guide, gli inuit sono un popolo che guarda al futuro con ottimismo: la prossima generazione studierà e presto il paese si renderà indipendente dalla Danimarca. A quel punto i 56mila abitanti della Groenlandia – per l’88 per cento inuit – avranno a disposizione 2,1 milioni di chilometri quadrati di terra ghiacciata. Con l’indipendenza diventeranno ricchi: la calotta di ghiaccio, sciogliendosi, libererà ricche riserve di minerali, tra cui le tanto ricercate terre rare, che servono a fabbricare smartphone e auto elettriche. All’epoca, le nostre guide ancora non potevano sapere che con lo scioglimento dei ghiacci sarebbe cresciuto anche l’interesse di Donald Trump per il loro paese. Sapevano, però, che sarebbe bastato vendere i diritti di pesca per diventare tutti milionari. Mi sentivo molto solidale con gli inuit. Anch’io, pensavo, sono cacciatore e pescatore: vado a caccia di incarichi pagati male e dipendo da poteri superiori. Purtroppo non ho la prospettiva di arricchirmi in futuro.

Till aveva gettato l’ancora al largo di Tasiilaq, la città vicina. Il giorno dopo, mentre la raggiungevamo in motoscafo, sono riuscito a fotografare tra gli iceberg la pinna dorsale di una megattera, prima che sparisse nelle profondità dell’oceano. Sarebbe rimasta l’unica foto che avrei scattato a una balena.

Con circa duemila abitanti, Tasiilaq è il più grande insediamento della Groenlandia orientale e da lontano potrebbe sembrare una remota città mineraria delle Ande. Quando ancora eravamo rispettivamente reporter e fotografo, Till e io avevamo passato varie settimane in viaggio attraverso le Ande, eravamo stati nella Libia di Gheddafi e avevamo condiviso tante idee, tanti pericoli e tanti bei momenti. La Groenlandia in fondo era solo la prosecuzione di un lungo viaggio fatto insieme.

L’equipaggio, ormai quasi al completo, si era riunito a Tasiilaq. Mancava solo Bruno, un architetto di Zurigo che sarebbe arrivato il giorno dopo. A bordo c’erano: la skipper Leonie, una taciturna venticinquenne svizzera, con strane vesciche sulle mani; la co-skipper Diane, per metà iraniana e per metà statunitense ma cresciuta in Svizzera; Till, il nostro capitano, gran fumatore di sigarette tradizionali ed elettroniche, 65 anni, cittadino del mondo con in tasca un passaporto svizzero; io, fotografo quasi cinquantenne in piena crisi di mezza età, occhiali da vista bifocali dalla montatura nera firmata e calvizie compensata dalla barba; Johannes, 60 anni, anche lui fumatore incallito, architetto tedesco (viene da Monaco) non proprio di primo pelo, ma con i capelli lunghi e gli occhialetti alla John Lennon, che ci ha assicurato che con le sue abilità velistiche sarebbe riuscito a far correre un po’ la nostra barca a vela; Matthias, un quasi sessantenne di Zurigo, padre di famiglia, glaciologo, nostalgico dei ghiacci visti da giovane in Alaska, anche lui per la prima volta in barca a vela.

Come primo incarico, mi sono dovuto occupare delle misure anti-orsi polari. Till mi ha spedito da Roberto Peroni, ricercatore italiano ultrasettantenne autore di un libro che documenta la sua traversata della calotta glaciale: 1.400 chilometri senza cani da slitta né assistenza aerea. Oggi Peroni gestisce un ostello su una collina fuori città. La speranza era che, rivolgendomi a lui nella sua lingua madre, riuscissi a conquistarne la benevolenza per convincerlo a noleggiarmi un fucile da caccia a proiettili cosiddetti dum-dum, che consentono anche a un tiratore inesperto di difendersi dagli orsi polari.

Storo, Groenlandia, luglio 2019 (Luca Zanetti)

Peroni si è dimostrato comprensivo, ma mi ha detto sorridendo che non ci avrebbe prestato un bel niente. Gli ho chiesto se riteneva esagerato quel che si diceva sugli orsi polari, cioè che mangiassero gli esseri umani, tanto più che un animale che pesa diversi quintali non riuscirebbe mai a uscire dall’acqua per arrampicarsi su una barca a vela. Peroni mi ha spiegato che gli orsi polari sono anfibi che preferiscono il mare alla terra e sono in grado, letteralmente, di saltare fuori dall’acqua. È quello che fanno quando vanno a caccia di foche: schizzano fuori dall’acqua lanciandosi sulle lastre di ghiaccio su cui se ne stanno, ignare, quelle povere creature. Insomma: se ci tenevamo alla nostra pelle ci conveniva portarci un fucile.

Till ha deciso di comprarne uno allo spaccio del paese. Dopo dieci minuti, siamo usciti dal negozio imbracciando un binocolo e un’arma, senza bisogno di esibire documenti d’identità o permessi, neanche avessimo comprato una padella.

Quel pomeriggio siamo usciti nella baia per familiarizzare con le misure di sicurezza. A capo delle operazioni c’era Leonie. Ci siamo provati le spesse tute rosse in neoprene, che lasciavano liberi solo naso e occhi. Avvolto in quella seconda pelle di gomma mi sentivo una specie di salsicciotto, tanto più dopo aver scoperto che la tuta spesso ti salva la vita solo temporaneamente: quando galleggi nell’acqua senza più forze, infatti, pare arrivino i gabbiani a cavarti gli occhi.

Evitare lo scorbuto

Uno dei miei compiti era comprare viveri per tre settimane per sette persone. L’esperta Leonie aveva una regola per la spesa: almeno un carrello pieno per ogni settimana da trascorrere in mare. In più, una mela al giorno per ciascuno, per un totale di 147 mele. Non riuscivo a smettere di guardare le mani di Leonie piene di vesciche: era una reazione allergica o l’effetto del famigerato scorbuto? Dopo qualche settimana senza vitamina C, infatti, i marinai perdono i capelli, hanno problemi alle gengive, impazziscono e muoiono per un’infezione. Da qualche parte avevo anche letto che nel medioevo i marinai veneziani, grazie al consumo di cipolle, riuscivano a navigare più lontano e più a lungo dei loro rivali. Quindi ho deciso di mangiarmi anche una cipolla al giorno. Alla fine, avevamo cinque carrelli pieni, che ci sono costati 2.500 franchi (2.600 euro).

Groenlandia, luglio 2019 (Luca Zanetti)

La sera siamo andati in discoteca. La gente ballava in cerchio mentre suonava una rock band con una meravigliosa cantante dalla voce potente, vestita da calciatrice. Quando non cantava, abbracciava e baciava le sue amiche. Sulla pista da ballo c’era gente tra i quindici e gli ottant’anni. Venivano a turno per invitarci a ballare.

La mattina presto, quando me ne sono andato, c’era abbastanza luce per leggere un libro. Una vecchia signora, così ubriaca che a stento si reggeva in piedi, stava cercando di uscire dalla discoteca accompagnata da un ragazzo che, quando lei cadeva, l’aiutava a rialzarsi. Sono riusciti a percorrere circa cento metri prima di finire entrambi per terra. Sembravano tranquilli, come una coppietta di innamorati che sta per addormentarsi.

Alla fine ci ha raggiunto anche l’architetto svizzero Bruno, stilosissimo e con una barba da vero hipster. È arrivato in elicottero e, fosse stato per lui, saremmo salpati immediatamente per il mare aperto. Invece abbiamo deciso che, prima di tutto, ci saremmo diretti verso sud. Pareva che lì avrei potuto scattare fantastiche foto da pubblicare per risollevare le mie finanze e dire finalmente addio a tutte le preoccupazioni di natura economica.

Il lamento degli iceberg

Cazzata la randa, abbiamo lasciato silenziosamente il porto protetto di Tasiilaq, il più grande insediamento della Groenlandia orientale. Tra le molte cose a cui mi sarei dovuto abituare a bordo, c’era anche la vista snervante del dispositivo gps: indicava quasi sempre che stavamo navigando sulla terraferma, tra rocce e montagne. Ho scoperto che la Groenlandia orientale non è stata ancora mappata in maniera affidabile. Le mappe digitali sono piene di errori: mostrano isole che non esistono e, cosa ancora più problematica, indicano mare là dove in realtà ci sono isole.

Un altro problema tecnico l’abbiamo avuto con l’ecoscandaglio, che serve a determinare la profondità. Navigando nel denso pack o nelle vicinanze di un ghiacciaio in fase di distacco, le misure di profondità semplicemente sparivano. Matthias, il glaciologo, ipotizzava che il problema dipendesse dalle variazioni di salinità, che comportano variazioni anche nella velocità del suono e, di conseguenza, nell’accuratezza dell’ecoscandaglio. Siccome i nostri strumenti non erano affidabili, ci toccava stare costantemente di vedetta per individuare scogli, isole e iceberg. Facevo turni di quattro ore con Johannes e Bruno – un vero peccato, avrei decisamente preferito farli con Diane.

Un ragazzo inuit del villaggio di Iliartalik, Groenlandia, luglio 2019 (Luca Zanetti)

Finito il turno, volevo solo cadere in un sonno profondo. Ma, anche dopo mezz’ora attaccato all’unico termosifone di bordo per riportare il corpo a una temperatura accettabile, il tentativo di prendere sonno su una brandina che oscillava al di sotto del livello di quel mare ghiacciato era una specie di sport estremo. I blocchi di ghiaccio non facevano che urtare lo scafo in alluminio producendo un rumore continuo: era come avere in testa un arrotino permanentemente intento ad arrotare i suoi coltelli. Di tanto in tanto un lastrone delle dimensioni di un’utilitaria si scontrava con la chiglia della Sy Passage producendo un rumore assordante.

Il mattino dopo c’era un’aria lattiginosa che rendeva difficile distinguere il mare dal cielo. Tutto appariva sfocato. Si andava diffondendo una soverchiante sensazione di isolamento, aggravata dal fatto che non prendevano più i telefoni. Pur sembrando distanti e senza vita, le acque ghiacciate della Groenlandia orientale non sono certo silenziose.

Dipende dagli iceberg. Più ti avvicini, più ne senti il rumore: emettono crepitii, cadono con fragore oppure si spaccano gemendo forte. In una giornata di sole l’attività dei ghiacciai aumenta a dismisura: di prima mattina cominciano a sudare, grondando come un europeo sovrappeso ai tropici. Le bolle d’aria imprigionate nel ghiaccio esplodono con un fragore che sembra quello di un milione di bottigliette di bibite gassate aperte contemporaneamente. Nel pomeriggio, l’acqua di fusione scorre a fiumi e dalle vette partono vere e proprie cascate, finché quelle enormi costruzioni di ghiaccio non si frantumano in milioni di piccoli pezzi che galleggiano sul pelo dell’acqua come tessere di un gigantesco puzzle.

Gli iceberg sembrano opere di land art, sculture galleggianti dalle forme e dai colori più incredibili. Ma nelle loro colossali dimensioni alberga, oltre a quella reale, anche una forza simbolica: sono testimoni del pianeta che si scioglie, monumenti alla storia del clima e della Terra. L’acqua, immagazzinata da millenni al loro interno, contribuirà all’innalzamento del livello del mare, modificherà la salinità degli oceani e interromperà correnti e catene alimentari. Gli iceberg sono il nostro monte Fato, il tetro vulcano del Signore de gli anelli.

Iceberg al largo della Groenlandia, luglio 2019 (Luca Zanetti)

Abbiamo esploso qualche colpo per testare il fucile. Ho mirato a una linea blu scuro su un iceberg: era l’acqua di fusione congelata che lo divideva a metà in verticale. Il colosso però non si è spezzato. Una volta gettata l’ancora in un punto da cui potevamo vedere il ghiacciaio in distacco, abbiamo preparato i kayak per avvicinarci agli altissimi iceberg, che sembravano molto più vicini di quanto in realtà non fossero. Tornando verso la barca, Till mi ha chiesto di prendere del ghiaccio per il nostro gin tonic pomeridiano.

Il giorno dopo abbiamo attraversato i fiordi e, nel tardo pomeriggio, siamo arrivati a Kuummiit, una cittadina con un centinaio di case. Sul molo quattro uomini e una donna bevevano caffè, fumavano sigarette e guardavano il fiordo, dove due megattere emergevano dall’acqua per respirare. Erano operai in pausa: nello stabilimento ittico preparavano l’halibut per l’esportazione via nave. Ho scattato una foto a uno degli uomini, capelli grigi e gran sorriso. Abbiamo chiesto all’azienda se potevamo riempire i nostri serbatoi d’acqua. In cambio abbiamo offerto cioccolato svizzero, moneta apprezzatissima in Groenlandia.

Molte case erano ancorate al terreno per mezzo di funi tese sopra i tetti. Mi hanno spiegato che è per via dei temuti venti catabatici Piteraq, che in inuit significa “ciò che ti colpisce”. Si formano quando l’enorme depressione al di sopra del mare risucchia le masse di aria fredda situate sopra la calotta glaciale groenlandese (spessa fino a tre chilometri) e le getta verso la costa. In casi estremi, i venti di caduta raggiungono velocità superiori ai duecento chilometri orari e colpiscono brutalmente le località costiere.

L’equipaggio

A bordo la situazione era stabile. Leonie restava una figura pragmatica e taciturna, che non si lamentava mai e preparava fantastiche torte di mele con zucchero e cannella. La sua peculiarità, però, era correre qualsiasi rischio. La cosa che le piaceva di più era aspettare il mare mosso per arrampicarsi sull’albero maestro sbatacchiato avanti e indietro dal vento gelido. Johannes viveva a Monaco ed era padre di tre figli nati da tre matrimoni diversi. Con il tempo, ha abbandonato le sue ambizioni di maschio alfa del gruppo e si è fatto più taciturno. Probabilmente anche perché il resto dell’equipaggio parlava lo svizzero tedesco e raramente usava il tedesco standard.

Bruno, l’architetto svizzero alla moda, oltre alla barba da hipster ha portato a bordo anche un drone. Era un tipo discreto, affidabile, amante dell’ordine, disposto al compromesso e, in generale, molto svizzero. Si è anche dimostrato un ottimo cuoco e sapeva sempre cosa c’era da fare sul ponte. Per quanto riguarda la sua vita a terra, ci ha rivelato un’unica informazione: a casa ha un Jack Russell, rimasto con lui dopo la fine della sua ultima relazione seria.

Improvvisamente si è abbattuto su di noi un vento di terra con raffiche di 40 nodi

Matthias ha sofferto di mal di mare per qualche giorno e noi, che riponevamo grandi speranze nelle sue conoscenze di glaciologo, aspettavamo con ansia che si riprendesse. Quando navigavamo lungo la costa o entravamo in un fiordo e l’ecoscandaglio dava i numeri, lo consultavamo come fosse un oracolo.

E allora Matthias si metteva a osservare il paesaggio e, dopo averne studiato la conformazione, decretava quale rotta, secondo lui, si sarebbe rivelata più profonda. Una magia. Proprio come gli inuit, anche noi avevamo il nostro sciamano e seguivamo le sue indicazioni. A casa Matthias si guadagnava da vivere come valutatore del rischio. Mi piaceva molto Matthias, era una di quelle persone che ti fanno sentire più intelligente di quello che sei.

Till era senza dubbio il nostro vecchio lupo di mare, sempre pronto a raccontare qualche storia tratta dal suo infinito repertorio di avventure. C’era, per esempio, quella del suo rapimento in Sudan, dove si trovava come reporter di guerra, una disgrazia che, con il senno di poi, considerava la cosa migliore che gli fosse mai successa.

Till adorava sconvolgere il suo uditorio e ci riusciva sempre, se non altro quando raccontava che la morte di suo padre e quel rapimento lo avevano liberato dalla pressione costante di dover dimostrare al mondo e al padre quanto valeva. Till è stato un caro amico a cui ho voluto un gran bene, a bordo e a terra.

E poi Diane, il sole della nostra barca a vela, sempre con un luccichio negli occhi e un sorriso sul volto. Nel nostro viaggio psichedelico Diane è stata la porta che riconduceva al mondo familiare, la fiamma che mi scaldava, un’assicurazione sulla vita da opporre alla follia che stava per abbattersi su di noi.

A causa di una depressione che si muoveva tra la Groenlandia e l’Islanda, erano previsti forti venti. Per questo abbiamo deciso di allontanarci dalla costa e dirigerci verso nord, in mare aperto, puntando sulla piccola isola Storo dove, stando a una voce del volume II delle Admiralty sailing directions: arctic pilot, del 1931, avremmo potuto trovare rifugio. Il mare agitato rendeva difficile distinguere i blocchi di ghiaccio dalle onde, per non parlare degli scogli che potevano affiorare dall’acqua ovunque. L’atmosfera era tesa: eravamo tutti sul ponte, pronti a eseguire gli ordini. Siamo arrivati a Storo appena in tempo, prima che il vento riversasse sulla costa migliaia di iceberg che avrebbero spiaccicato senza alcuno sforzo la nostra imbarcazione.

Il capitano si fa serio

Il pomeriggio del giorno dopo, quando il vento si è placato, abbiamo deciso di dirigerci verso il mare aperto, evitando la costa rocciosa, per poi tagliare verso est in direzione dell’Islanda. Ma non appena abbiamo lasciato l’isola che ci aveva offerto riparo, abbiamo dovuto fronteggiare una tempesta di iceberg e blocchi di ghiaccio, con mare mosso e forti venti contrari. Qualcuno avrebbe dovuto proporre di tornare verso l’isola – avrei potuto pensarci io – ma eravamo troppo agitati, soprattutto Leonie e Johannes. I loro occhi brillavano come in preda a una febbre, carichi di adrenalina.

Mentre la luce calava rapidamente, Johannes mi ha detto di mettermi su un lato e aguzzare la vista per individuare piccoli iceberg e altri ostacoli simili. Ma io, con gli occhiali, vedevo poco e niente. Poi, a un centinaio di metri da noi, Johannes ha avvistato una piccola isola che nessun altro aveva visto: la stavamo puntando. Individuarla nel mare in tempesta era quasi impossibile, ma una volta capito dove guardare, si riusciva a intravedere la schiuma delle onde che si rompevano sulla sua costa rocciosa. Per la prima volta durante il viaggio anche Till si è fatto serio.

Ha ordinato immediatamente di invertire la rotta con una manovra a 180 gradi che ci ha portato a navigare con la costa sopravento, molto meno rumoroso e spaventoso. C’era mancato veramente poco. Con tutta probabilità Johannes aveva salvato la Sy Passage e tutti noi dal naufragio.

Il giorno dopo il vento si è placato e finalmente è arrivato il momento del meritato riposo. Abbiamo avuto la possibilità di dormire, lavarci e cambiarci. Diane si è messa la muta da sub per controllare se qualcosa fosse rimasto impigliato sotto la barca, nella chiglia o nel timone. Poi, improvvisamente, si è abbattuto su di noi un vento di terra con raffiche di quaranta nodi. La barca ha cominciato a ruotare su se stessa e abbiamo sentito il rumore dell’ancora che strusciava sul fondo. La temperatura è salita da 9 a 21 gradi. Era un tiepido vento Piteraq, che si riscaldava discendendo dalle vette del ghiacciaio continentale. Ho chiuso gli occhi, ho aperto una lattina di birra e mi sono goduto quel vento caldo. Finalmente era tutto finito: basta umidità, freddo, mare mosso, mal di mare, ghiaccio, iceberg e la paura di schiantarsi sulle scogliere di un’isola sconosciuta.

E ora?

Questo viaggio mi ha cambiato la vita? No. Ho fatto nuove amicizie? No. Le foto che ho scattato hanno rimesso in sesto le mie finanze? Magari. Ma su una cosa Till aveva ragione: non dimenticherò mai la solidarietà del nostro variegato equipaggio, quella sensazione di fare tanto più squadra quanto più il mondo esterno era ostile e pericoloso.

Ma soprattutto, questo viaggio mi fa pensare a Till, perché è stato l’ultimo che abbiamo fatto insieme. Poco dopo Till è morto all’improvviso. So che questa macabra conclusione gli sarebbe sembrata un finale perfetto per un racconto d’avventura in cui tutti noi eravamo scampati alla morte. Ma io non sono Till: sono triste e mi manca il mio amico. Non metterò mai più piede su una nave. ◆ sk

Luca Zanetti è un fotografo svizzero. Vive tra Zurigo e la Colombia.

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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati