La città di Buenaventura, dove la popolazione è in maggioranza afrodiscendente, è il principale porto marittimo del Pacifico colombiano e uno dei dieci porti più importanti dell’America Latina. Da qui passa il 60 per cento del commercio del paese. A dicembre del 2020 a Buenaventura è esplosa la violenza tra le gang rivali degli Shotas e degli Espartanos. Si tratta di due fazioni della Local che, insieme alla Empresa, si contendono il controllo del territorio. Con le loro azioni, i tre gruppi terrorizzano la popolazione.
A gennaio del 2021 ci sono stati almeno venticinque omicidi. Secondo un comunicato dell’Agenzia per i diritti umani e gli sfollati (Codhes), tra il 1 e il 18 gennaio cinquantacinque famiglie sono state cacciate dal quartiere Pampalinda. “Il 4 febbraio è arrivata la notizia dello sfollamento di trenta famiglie residenti nei quartieri Juan XXIII, Litoral, Caguán, el Otoño, la Unión e Buenos Aires”. E il 5 febbraio quarantacinque famiglie (più di 580 persone) che vivevano nel quartiere di San Francisco hanno dovuto abbandonare le loro case.
“L’anno si è aperto con sparatorie in diverse zone della città, morti, feriti, persone sfollate e scomparse, oltre all’aumento di reati come estorsioni e rapine”, ha scritto il giornalista locale Jonathan Hurtado-Carabali in un articolo intitolato “Crisi umanitaria a Buenaventura”. Il recente invio di un distaccamento delle forze militari, l’arresto di alcuni affiliati alle gang criminali e l’annuncio di ricompense per trovarne altri non bastano a risolvere la difficile situazione del porto.
Leonard Rentería, rapper e leader sociale di Buenaventura, è una delle figure più visibili delle manifestazioni che vanno avanti da settimane. Nelle proteste si legge spesso lo slogan: “Se non abbiamo la pace, il paese non deve avere le merci”. Tra le tante iniziative, il 10 febbraio gli abitanti di Buenaventura hanno organizzato una catena umana lunga più di venti chilometri.
Su Twitter Rentería, 29 anni, parla spesso delle sue azioni come attivista e segnala gli articoli che scrive per i giornali o sul suo blog, De frente. Ha fatto parte del comitato Paro cívico, il movimento che nel 2017 per ventidue giorni ha bloccato il porto di Buenaventura spingendo il governo di Bogotá ad assumersi alcuni impegni nei settori della sanità, dell’istruzione, delle infrastrutture e dell’accesso all’acqua.
Infatti, anche se si trova in una regione con abbondanti risorse idriche, a Buenaventura l’acqua arriva a giorni alterni e solo per qualche ora. Quattro anni dopo le promesse del governo, i progressi nella città sul Pacifico sono quasi inesistenti.
Esperienze dolorose
“Il ricordo di Buenaventura più bello che ho, quello che mi dà l’energia per andare avanti, è di quando ero bambino e vivevamo davanti a un pontile di legno sul mare. Se il pontile cadeva, le persone del posto si mettevano d’accordo per aggiustarlo. Se qualcuno aveva bisogno di una riparazione in casa, la domenica i vicini andavano ad aiutarlo, senza chiedere soldi in cambio. Era un gesto di solidarietà”, racconta Rentería.
È cresciuto con i genitori e i fratelli a San Francisco, un quartiere colpito dalla violenza delle gang, dall’estorsione e dal reclutamento forzato di minorenni. La sua infanzia è stata tranquilla: a tavola c’era sempre qualcosa da mangiare grazie al lavoro della madre, che lavava i panni nelle case degli altri, e del padre, conducente di furgoni per la Coca-Cola e per un’azienda elettrica, operatore di montacarichi al porto, pescatore e tassista. È stata un’infanzia di buoni voti, primi posti alla scuola Juan José Rondón e avvicinamenti occasionali alla poesia. Ma anche di conflitti. Se dovesse descrivere com’era in quel periodo, direbbe “un attaccabrighe”.
“Quando avevo 13 anni un amico mi portò in un gruppo di ballo. Cominciai a ballare, anche danze folcloristiche. C’erano ragazzi simpatici. Frequentai alcuni laboratori di formazione in politiche pubbliche, comunicazione, arte e cultura. Dico sempre che l’arte mi ha salvato perché è arrivata in un momento in cui ero molto aggressivo, mi mettevo sempre nei guai. Grazie all’arte ho capito che m’interessavano altre cose”, racconta. Ogni lunedì, mercoledì e venerdì Rentería andava a ballare. E il sabato lo dedicava al gruppo di amici.
“In quel periodo ho capito perché le cose andavano male e perché vivevamo in quel modo. E come mai in una città così ricca la gente era povera”, dice.
Ogni anno il porto genera cinquemila miliardi di pesos colombiani in tasse (più di un miliardo di euro), ma “meno del 20 per cento resta in città”, afferma Hurtado-Carabali. Citando il dipartimento nazionale di statistica, il giornalista aggiunge che il 66 per cento della popolazione vive in povertà e il 62 per cento è disoccupato. Il 91 per cento degli abitanti della città lavora in nero.
Buenaventura deve affrontare problemi strutturali da decenni a causa degli scarsi investimenti, che ostacolano l’accesso ai servizi pubblici e provocano carenze gravi in ambito educativo e sanitario. Nel 2009 la madre di Rentería ha avuto un ictus. Dal momento che era impossibile far arrivare un’ambulanza, mentre lei lo supplicava di non lasciarla morire Leonard ha dovuto accompagnarla in ospedale in taxi. Quando sono arrivati era tardi, c’è stato poco da fare. Nel 2015 un cognato di Rentería è stato ucciso a colpi di pistola, e la famiglia è stata obbligata a lasciare la casa e a cercare rifugio in un appartamento di fortuna in un altro quartiere. Nel 2018 è morto suo padre.
“Ero molto arrabbiato, e ho pensato che erano sentimenti su cui dovevo lavorare per non diventare un’altra persona, per evitare che l’odio cambiasse la mia vita”, dice.
Oggi Rentería coordina progetti culturali e di formazione sui diritti per l’associazione Rostros urbanos, che accompagna e promuove il talento artistico di bambini e ragazzi di Buenaventura. E contemporaneamente scrive una tesi in psicologia sulle difficoltà dell’infanzia nella sua città.
◆ Nel settembre del 2016 il governo colombiano del presidente Juan Manuel Santos e l’organizzazione guerrigliera delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) hanno firmato un accordo di pace che, sulla carta, ha messo fine a più di cinquant’anni di conflitto civile. La guerra, che ha provocato più di 260mila vittime e circa 80mila persone scomparse, era stata combattuta da gruppi guerriglieri, paramilitari di destra e agenti dell’esercito colombiano. Oggi, a quasi cinque anni dalla firma della pace, la situazione nel paese è difficile: ci sono scontri tra la dissidenza delle Farc e i guerriglieri dell’Esercito di liberazione nazionale, e nuovi gruppi paramilitari si contendono il narcotraffico e le risorse del territorio. Da gennaio a metà marzo 2021 sono state uccise 65 persone, in maggior parte attivisti. Bbc, Centro nacional de memoria histórica
“Sono convinto che questa realtà di povertà e violenza condizioni il comportamento dei bambini e li renda potenzialmente parte del problema”, dice. “Molti ragazzi che oggi appartengono a gruppi armati illegali arrivano da zone povere, quasi sempre sono cresciuti senza un genitore e hanno subìto violenze all’interno della famiglia. Sono esperienze che lasciano un segno, e i ragazzi vengono usati per alimentare la spirale di violenza. Ho vissuto situazioni molto forti dal punto di vista emotivo. Mi sono detto: quello che mi è successo non può distruggermi né rendermi meno sensibile. Devo restare il più umano possibile, non voglio pensare che la guerra sia una cosa normale. Allora mi sono iscritto a psicologia, perché mi avrebbe aiutato a elaborare i miei lutti, le perdite che ho subìto, la mia sofferenza. Volevo allontanarmi dalle cose che mi legano a un passato triste e violento, cambiare la mia esistenza e aiutare le altre persone, se loro lo vogliono”.
L’epoca coloniale
“Buenaventura è una contraddizione”, aveva dichiarato l’attivista Temístocles Machado, che si batteva per i diritti della popolazione afrodiscendente, al sito colombiano Verdad Abierta tre mesi prima di essere ucciso, il 27 gennaio 2018. “Non abbiamo un ospedale di secondo livello; non abbiamo acqua potabile e la copertura fognaria è scarsa; il livello di scolarizzazione è basso e le scuole sono in cattivo stato; c’è stata una sfacciata sottrazione di risorse; il livello di disoccupazione è alto e lo sfruttamento nelle zone portuali è intenso. Se le aziende private sono ingiuste con i lavoratori è perché il governo le lascia fare. Le aziende non reinvestono a Buenaventura. Ci mantengono nella miseria”.
L’origine di questa contraddizione risale all’epoca coloniale. Secondo il rapporto “Buenaventura: un porto senza comunità”, del Centro nazionale per la memoria storica, pubblicato nel 2015, in epoca coloniale il Pacifico era una regione mineraria dove imperversava la violenza contro le comunità indigene. E la popolazione africana era usata come manodopera in condizioni di schiavitù. I padroni delle miniere appartenevano alle élite delle città dell’entroterra, che da lì gestivano i loro affari. Non si sono mai insediati in città. Quella che per alcuni era solo una terra da cui estrarre ricchezza, per le prime generazioni di afrodiscendenti diventò una casa.
Nell’ottocento Buenaventura era già un porto marittimo, e nel novecento dal suo porto si esportava la metà del caffè del paese. Nel 1961 fu creata l’impresa pubblica Puertos de Colombia, Colpuertos, che secondo il rapporto assunse più di cinquemila lavoratori nativi della regione, consolidò la struttura sindacale e rafforzò il legame tra gli abitanti e l’economia del porto. Ma negli anni novanta, con l’inizio di un processo di privatizzazione, Colpuertos è scomparsa. La disoccupazione è aumentata, si sono persi diritti sul lavoro e gli stipendi sono diminuiti. La separazione è stata netta: da una parte la comunità, dall’altra la ricchezza generata dal porto. Oggi la partecipazione privata nel porto è dell’83 per cento.
“Sai qual è la cosa peggiore?”, chiede Rentería. “Il fatto che la gente consideri la povertà una cosa normale. La penuria sembra naturale. I bambini hanno messo su una banda suonando con i barattoli. Sono creativi anche nella povertà, ma questo li condiziona. Fin da piccoli imparano ad adattarsi. Ma secondo me è sbagliato”, afferma. “Le amministrazioni devono offrire delle alternative per permettere ai giovani di sognare senza accontentarsi di veder passare la ricchezza da lontano e dire: non fa per me”.
“Da dicembre le gang sono impegnate in una lotta per il territorio”, prosegue. “Non è una novità, ci sono sempre state violenze a Buenaventura. Le stesse organizzazioni cambiano nome e continuano a fare le stesse cose. Con l’aggravante che questa volta la situazione si prolunga nel tempo e le istituzioni statali non fanno niente. Mancanza di controllo, apatia e silenzio: la gente è in mezzo a questo fuoco incrociato”.
Un risveglio
Il rapporto “Buenaventura: un porto senza comunità” arriva alla stessa diagnosi: la disuguaglianza e l’esclusione sono un terreno fertile per il conflitto armato e l’economia illegale. La collocazione strategica della città la rende una zona contesa dove s’intrecciano vari interessi: le rotte del trasporto marittimo per il traffico di droghe e armi, il controllo dell’oleodotto del Pacifico, le coltivazioni illecite e l’estrazione mineraria nelle zone rurali. Diversi gruppi armati sono passati dalla città: l’organizzazione guerrigliera delle Farc negli anni novanta, il Bloque calima delle Autodifese unite della Colombia (Auc), i paramilitari di destra, a partire dal 2000 e, dal 2005, le gang nate dopo la parziale smobilitazione delle Auc. Ma la violenza è aumentata con l’arrivo dei nuovi gruppi paramilitari: omicidi, sparizioni forzate, massacri e sfollati.
“Perché in alcune zone della città c’è più violenza che in altre?”, chiedo.
“In quasi tutte le zone di Buenaventura ci sono progetti di grandi aziende preoccupate solo dei loro interessi. Secondo me non è un caso che certe cose accadano nei territori in cui ci sono dei progetti. Molti preferiscono la violenza, perché con la violenza è più facile cacciare la gente. Non sto accusando un settore particolare, ma spesso in Colombia se alcune persone hanno degli interessi, sono pronte ad assumere qualcuno per incutere paura, per costringere la gente a lasciare una zona così poi possono costruire le loro aziende”, dice. All’improvviso al telefono la sua voce diventa brusca, ritmata, più veloce e più alta. Rentería comincia a cantare un rap scritto da lui, s’intitola “Territorio”: “Quando Buenaventura era un terreno brullo / a nessuno interessava il nero che era qui / anno dopo anno hanno riempito questa città / dove i nostri antenati lavoravano senza mai fermarsi / i nostri padri hanno contribuito a costruire Buenaventura / dove regnava la pace e si esaltava la cultura / quando questo territorio era già stato trasformato / arrivarono i capitalisti che tutto hanno abusato / cacciando i nostri fratelli dal quartiere Cristo Rey / e usando come sempre le loro tecniche di violenza / come hanno fatto in molti luoghi dove hanno massacrato i popoli / per avere il controllo della terra dopo il dolore causato / in questo quartiere del porto hanno ucciso molta gente / l’obiettivo era la terra e dalla terra li hanno cacciati / sono banditi che guadagnano mucchi di soldi / mentre il nero del porto deve lavorare / e a fine mese guadagnare una miseria”.
A proposito delle giornate di protesta che da mesi si organizzano a Buenaventura, Rentería dice: “C’è una sensazione nuova. I più giovani hanno capito che non si può andare avanti così, e che non possono lasciare in eredità alle generazioni future quello che c’è oggi. Finalmente i ragazzi e le ragazze hanno cominciato a chiedere qualcosa che manca da decenni: che siano garantiti i loro diritti, soprattutto il diritto alla vita, perché noi giovani siamo le vittime principali e i carnefici. Siamo al centro della violenza, della povertà e dell’abbandono. Ma c’è un risveglio, ed è questo quello che si nota di più. La gente è stanca”. ◆fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1402 di Internazionale, a pagina 64. Compra questo numero | Abbonati