Era sempre mia nonna a comandare in cucina. Sono cresciuta a Londra circondata da piatti tipici della Sierra Leone: stufati, riso, zuppe, manioca, salse dense a base di verdure, banane platano, salmoni cotti interi, riso fritto, riso jollof e tante altre pietanze che è impossibile ricordarle tutte. Per mia nonna – e le sue amiche – cucinare era parte integrante della giornata. Cucinava per me, i miei genitori, i miei cugini e, se noi eravamo sazi, metteva gli avanzi nelle vaschette da gelato e li infilava nel congelatore, caso mai fosse arrivato qualcuno che doveva mangiare. Mi è capitato spesso di aprire un barattolo di gelato alla vaniglia e trovarci la zuppa di okra (un ortaggio originario dell’Africa) del martedì prima. Gli ingredienti erano sparsi per tutta la casa. Certe volte sul pavimento della cucina c’erano delle file di bricchi d’olio di palma che arrivavano fino ai fornelli, montagne di ciotole di trippa e zampetti di maiale provenienti dal mercato di Lewisham, cesti di banane verdi e cartocci di pesce affumicato avvolto nella carta da giornale. I contenitori pieni di cose da mangiare invadevano perfino il cortile dietro casa, finché non arrivava il momento di tuffarle in un pentolone argentato tanto grande che occupava tutti e quattro i fornelli a gas.
Queste prime esperienze alimentari mi hanno riempito non solo la pancia, ma anche la mente con l’idea che nutrirsi sia una parte importante della vita. Mi hanno spinto a scoprire gli ingredienti e le culture gastronomiche dell’Africa, dove si usano modi diversi per raccogliere, conservare e cucinare gli alimenti. In questo viaggio sono stata guidata da quattro chef, che dividono il loro tempo tra il continente e le città del nord del mondo, e che promuovono l’uso di cereali, frutta, semi e verdure tipici dell’Africa.
Varietà indigene
La prima tappa è il Kenya, in Africa orientale, il paese di Njathi Kabui, un noto chef che fa cucina biologica, e che nel resto del tempo tiene conferenze e porta avanti le sue campagne da attivista. Kabui è nato nel 1968, cinque anni dopo l’indipendenza keniana. È cresciuto in una fattoria vicino al monte Kenya, in un appezzamento di proprietà della sua famiglia, dove ha vissuto con la madre fino a dieci anni.
Ricorda che i raccolti e il bestiame bastavano a soddisfare i loro bisogni. “Avevamo alberi da frutto, papaya, guava, aranci, limoni, nespoli, avocado, e anche la canna da zucchero… Una grande varietà”, mi dice al telefono dal North Carolina, dove vive in questo momento. “Avevamo anche cereali: granturco, frumento, miglio. Poi coltivavamo zucche, patate dolci, ignami, carote e manioca. A volte tenevano delle mucche e dei maiali da vendere, mentre le galline e i piccioni li allevavamo per mangiarli”.
Kabui oggi pratica l’agricoltura urbana e decanta i benefici del mangiare sano, sia negli Stati Uniti sia in Kenya: “Sappiamo talmente poco di quello che consumiamo. Gran parte delle decisioni che prendiamo hanno come unico risultato di sottrarci potere e finiscono per avvantaggiare altre persone senza che ce ne rendiamo conto”. La società, sostiene, ha bisogno di ripensare il modo in cui concepisce gli ingredienti di cucina. Negli ultimi vent’anni Kabui ha lavorato sul concetto di “alfabetizzazione alimentare”, che secondo lui dev’essere preso sul serio come quello dell’alfabetizzazione scolastica. Per questo tiene dei seminari e ha contribuito a sviluppare degli orti comunitari dove si coltivano “lamponi, mirtilli, fichi, fragole, piante aromatiche e verdure”.
“Siamo stati manipolati da potenze e grandi aziende, che ci hanno confuso le idee su come e cosa mangiamo”, dice Kabui. Si rammarica che la colonizzazione britannica abbia cancellato gran parte della cultura alimentare keniana, che era complessa e molto varia. Per recuperare quei saperi, conta di tornare presto nelle terre della sua famiglia e costruire il Centro per la sostenibilità e l’alfabetizzazione alimentare Thayu, vicino al lago Naivasha. Il progetto comprende una biblioteca dedicata alla storia alimentare dei neri e ai suoi cuochi, e un laboratorio di cucina internazionale dove si prepareranno piatti africani, usando i migliori ingredienti selvatici che crescono da quelle parti.
Kabui racconta che in Africa si usano ormai pochi cereali – mais, frumento e riso – nonostante l’abbondanza di varietà indigene. Il miglio, un alimento integrale molto nutriente che si ricava da una varietà di graminacee dai semi piccoli, ha un posto speciale nella sua cucina. Kabui mi svela la ricetta di un’insalata calda in cui mescola il miglio a fagioli dall’occhio e verdure, e la rende dolce aggiungendo del miele e delle spezie scaldate, come il cardamomo.
Infine mi parla di un ingrediente chiamato ngai ngai, cioè le foglie più giovani della pianta d’ibisco. I fiori, con l’aggiunta di agrumi, si usano per fare il tè, caldo o freddo. Ma le foglie non vanno sprecate e si possono usare come condimento. Il ngai ngai esalta il sapore dei cereali e delle insalate, ed è la base di ottime salse: è una grande dimostrazione di come si può insaporire un piatto senza usare condimenti industriali, dice Kabui.
Anche la chef Fatmata Binta, che vive in Ghana, fa notare che la grande diffusione di ingredienti come il glutammato e gli additivi artificiali sta rendendo sempre più complicato creare i sapori africani tradizionali. Binta racconta che in un recente viaggio nel nord del Ghana ha mangiato molti piatti insaporiti con semi di neré e sali prodotti localmente. Mi parla anche di un altro ingrediente, il dawadawa, ottenuto da un baccello dalla polpa morbida, gialla e dolce che cresce sempre sugli alberi di neré.
“L’Africa non è solo riso jollof”, dice Binta, riferendosi alla pietanza a base di riso speziato diffusa in tutta l’Africa occidentale. Quando ha assaggiato per la prima volta il dawadawa è stata conquistata dal gusto umami, con sentori di cioccolato fondente e cacao. Mi spiega che dopo la raccolta dei baccelli, i semi sono fatti fermentare e poi essiccati. Si possono usare interi, macinati finemente o trasformati in una pasta dal sapore intenso che si aggiunge a piatti tradizionali come la zuppa di okra e l’egusi, una minestra fatta con semi di melone macinati.
I segreti dei peul
Binta è nata nella comunità peul (o fulani), e ha vissuto prima in Sierra Leone e poi in Guinea. Nel 2017 ha creato Fulani kitchen, un ristorante itinerante, con il quale vuole far conoscere la cucina e la cultura dei peul agli abitanti di tutto il Ghana.
I peul sono una delle comunità nomadi più grandi del mondo. Nel corso della loro storia hanno attraversato in lungo e in largo l’Africa occidentale in cerca di pascoli per il loro bestiame. Spostandosi da una parte all’altra, hanno imparato a usare diversi ingredienti e hanno assorbito una grande varietà d’influenze culturali.
Essiccare non serve solo a conservare gli alimenti, ma anche a limitare gli sprechi
Binta ricorda che il suo interesse per la cucina è cominciato quando viveva in un villaggio della Guinea insieme alla nonna. Ha imparato a procurarsi la legna per il fuoco, a raccogliere gli ingredienti nella fattoria e a cucinare ciò che aveva a disposizione. I peul essiccano tutti gli ingredienti: odori, verdure, spezie e carne. È un modo per conservare gli alimenti e limitare gli sprechi, perché ne allunga la durata. Anche se i peul consumano prodotti d’origine animale, la loro dieta non include molta carne. Quando macellano gli animali, vendono la carne nei mercati e tengono per sé le interiora, che vengono essiccate. Oltre a questo, mangiano cereali, miglio, mais e riso. Da bambina Binta aveva un piatto preferito, che oggi serve ai suoi clienti: un couscous di granturco cotto al vapore, accompagnato da yogurt fresco, fatto con latte di mucca, così dolce che non serve zuccherarlo. Come Kabui, Binta crede che sia necessario ripensare il modo in cui cuciniamo. Nelle zone rurali del Ghana, dove gli abitanti sono più fedeli alle tradizioni e preparano e consumano i pasti con lentezza, la domanda di prodotti locali non è diminuita. Nelle città, invece, la dieta e i gusti delle persone sono cambiati dopo che sui mercati africani sono arrivati i prodotti industriali.
Spesso, fa notare Binta, sono i ricchi a mangiare in modo meno sano. I poveri non hanno i soldi per comprare prodotti importati. “Un povero sceglierà i fagioli, che contengono molte proteine”, spiega. “O del pesce affumicato, al posto del manzo o di salsicce fatte con ingredienti di scarsa qualità”.
La speranza di Binta è che gli africani comincino a rivalutare le loro tradizioni. “Chi lavora nella ristorazione deve usare bene la propria voce e le piattaforme che ha a disposizione”, dice. “Se continuiamo a parlare e a educare le persone, credo che la domanda di prodotti industriali diminuirà”. Binta spera di portare lontano la sua Fulani kitchen e di srotolare le stuoie su cui fa accomodare i clienti in tutto il mondo. Oggi dedica buona parte del suo tempo all’agricoltura, perché vuole contribuire a creare nuovi mercati per i prodotti tradizionali. Lavora con le donne nel nord del Ghana per coltivare e raccogliere il fonio, un cereale antico e versatile con cui si cucinano piatti dolci e salati. Il fonio è delicato ma resiste alla siccità, è nutriente, cresce in fretta e ha un buon sapore. Binta collabora con l’azienda Sassou Fonio, che insegna le tecniche di coltivazione alle donne e controlla che ricevano un compenso equo per i raccolti. In Ghana più del 40 per cento della popolazione lavora la terra, ma molti non riescono a vendere abbastanza per assicurarsi una vita decorosa. Binta vuole che tutto questo cambi.
Salvaguardare la biodiversità
Un altro ammiratore del fonio è lo chef senegalese Pierre Thiam, che gestisce due ristoranti, uno a New York e l’altro a Lagos, in Nigeria. Possiede anche la Yolélé, un’azienda che produce fonio e altri prodotti alimentari locali. Lavora con piccoli coltivatori in tutta l’Africa occidentale con l’obiettivo di garantirgli un lavoro stabile e cerca di salvaguardare la biodiversità, evitando che alcune coltivazioni spariscano. Thiam è cresciuto a Dakar, la capitale del Senegal, che secondo lui ha “una delle culture alimentari più stimolanti del mondo”. “Dakar è un melting pot molto interessante”, spiega. “È un porto, quindi la dieta dei suoi abitanti combina prodotti del mare e cereali. Ma il Senegal è stato per tanti anni anche uno dei principali punti di accesso all’Africa, e nei secoli i suoi piatti si sono arricchiti di nuovi sapori”.
Thiam teme che gli ingredienti della sua infanzia stiano scomparendo. “In Senegal è rimasta una mentalità coloniale e disprezziamo ciò che è locale. Nei supermercati di Dakar si trovano in gran parte prodotti occidentali, solo il 10 per cento sono senegalesi ”, spiega. Con la Yolélé, vuole riconquistare il controllo della dieta e del sistema alimentare: “Il mercato non è semplicemente pieno di prodotti cattivi, ne è dominato. L’agricoltura industriale ci impone quattro colture. Mangiamo riso o soia, grano o mais, e ci dimentichiamo totalmente di cereali come il fonio”.
L’agricoltura intensiva ha effetti negativi sull’ambiente: genera gas serra (circa il 30 per cento del totale) ed esaurisce le risorse idriche. Il 70 per cento dell’acqua del pianeta è usata solo per quelle quattro colture. Invece, fa notare Thiam, le piante indigene come il fonio, il miglio o il sorgo non richiedono molta acqua e sono più nutrienti. Il fonio si prepara in diversi modi. In Senegal accompagna l’okra. “Un accoppiamento perfetto”, lo definisce Thiam. D’estate, nel ristorante di New York, Thiam serve il fonio con barbabietole dolci arrosto e carote marinate con peperoncini piccanti, e per dessert prepara un budino di fonio con latte di cocco e mango arrostito.
Un’altra coltivazione che Thiam vuole rilanciare è quella delle arachidi bambara. Sono legumi dal sapore simile a quello delle arachidi normali, ma non contengono allergeni. Erano diffuse in tutta l’Africa occidentale prima che le comuni arachidi, più facili da coltivare, conquistassero il mercato. Ma le arachidi bambara sono più nutrienti e venivano coltivate a rotazione con il fonio, perché contribuiscono a mantenere fertile il terreno. Thiam vuole coltivare il fonio insieme ad altri prodotti tradizionali con metodi sviluppati nel corso di secoli. “La rivoluzione agricola ha portato in Africa fertilizzanti chimici ed eliminato la stagionalità. E questo ha avuto conseguenze terribili. Dobbiamo tornare al sistema della rotazione, che consente ai terreni di respirare e riposare”.
Omer Eltigani è uno chef originario del Sudan. Da piccolo ha osservato da vicino le donne che l’hanno cresciuto, partecipando alle attività in cucina e godendo dell’intimità caratteristica di questo spazio. Ora che si sta affermando come chef e che sta per pubblicare il suo primo libro, Sudanese kitchen, Eltigani vorrebbe che il cibo servisse a offrire un’immagine più realistica del suo paese. “Quando si parla del Sudan le persone pensano a guerra e distruzione”, mi dice al telefono dalla casa di suo nonno a Khartoum. “Ma in realtà è un paese con un’incredibile cultura gastronomica”.
Il Sudan ha una cucina raffinata, con radici antiche. Facendo ricerche per il libro, Eltigani ha raccolto informazioni in tutto il paese visitando villaggi e comunità, e ha trascritto ricette che riflettono una grande varietà regionale. La conoscenza di questi piatti è affidata alla memoria di poche persone (spesso nonne), ma Eltigani si è dato una missione: impedire che queste tradizioni vadano perdute. Oltre a trascrivere le ricette, ha imparato a cucinarle e le serve in occasione degli eventi che organizza in giro per il paese. Il mullah è un piatto sudanese che Eltigani ama particolarmente. Fatto con cipolle e carne, di solito macinata, e l’aggiunta di verdura, il mullah si mangia con pani diversi e cereali cotti da cui si ricavano porridge, gnocchi o l’asida, una specie di polenta che ricorda il fufu dell’Africa occidentale, ma fatto con farina, lievito e a volte burro. Un altro piatto classico è la kisra: un impasto fermentato cotto su un piatto bollente per creare delle sfoglie sottili simili all’injera, che si mangia nella vicina Etiopia. La kisra è fatta però con il sorgo, un cereale che ricorda il miglio. La sua farina di un bianco sporco ha una consistenza leggera e non contiene glutine. La farina è mescolata ad acqua e yogurt e lasciata fermentare. La kisra si mangia insieme agli stufati e ad altri piatti tipici sudanesi. Anche Eltigani vorrebbe che in Sudan fossero lanciati nuovi programmi agricoli, che sfruttino pienamente il potenziale del paese e favoriscano la disponibilità di ingredienti locali, riducendo di conseguenza la domanda di quelli d’importazione. Tutti gli chef con cui ho parlato sembrano d’accordo sulla necessità di un ritorno alla terra per recuperare la produzione di colture locali. Allo stesso tempo si sforzano di avvicinare i palati moderni ai gusti e ai benefici nutrizionali di preparazioni antiche. Chi vuole un mondo dove si coltivano solo i prodotti più commerciali e redditizi, svuotando l’agricoltura della cultura, della storia e dei rituali tradizionali?
Questi chef mi hanno fatto capire che dobbiamo apprezzare l’intero ciclo della produzione alimentare, dalla terra al piatto. E che volendo possiamo recuperare coltivazioni che erano state cancellate o dimenticate. Nel mio piccolo sto imparando a cucinare i piatti che mangiavo da bambina. Fortunatamente ho trovato a Londra il dawadawa consigliato della chef Binta e l’ho usato per condire la zuppa di okra. L’odore è forte, ma l’aroma che dona alla zuppa è morbido e delicato. E mentre comincio a ritrovare i sapori della cucina di mia nonna, la mia unica speranza è di riuscire a renderle giustizia. ◆ gc
È stato scritto da Kareem Arthur, autrice e cuoca che vive a Londra. Fa parte di una serie di articoli del New Internationalist chiamata Food justice files, sul perché si soffre ancora la fame nel mondo. Il progetto è finanziato dal programma European development journalism grants, sostenuto dalla fondazione Bill & Melinda Gates.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati