Nei primi anni novanta facevo la giornalista al Wash­ington Post. Avevo appena compiuto trent’anni ed ero la più giovane della redazione, perciò quando sono spuntate le prime startup dei mezzi di comunicazione digitali è toccato a me occuparmene. Molti miei colleghi erano contenti che ci pensassi io: a nessuno interessava capire i cambiamenti in corso. Man mano che prendevo confidenza con l’argomento, spesso mi ritrovavo a spiegare agli altri cosa fosse questa diavoleria di internet.

Al giornale mi lasciavano scrivere su una grande varietà di argomenti digitali (anche perché altrimenti non l’avrebbe fatto nessuno), comprese molte tecnologie “definitive”, come il cd-rom, che sono definitivamente scomparse.

Ricordo che in quel periodo feci una previsione che avrebbe cominciato ad avverarsi molto prima del previsto: la fine dei mezzi d’informazione tradizionali

Ricordo che in quel periodo feci una previsione che avrebbe cominciato ad avverarsi molto prima del previsto: la fine dei mezzi d’informazione tradizionali. Il segnale era il crollo di uno dei loro pilastri economici più importanti: gli annunci economici.

Nel 1995 un bizzarro programmatore di San Francisco di nome Craig Newmark aveva cominciato a inviare agli amici una serie di email con una lista delle cose da fare, delle offerte di lavoro e degli oggetti in vendita nella sua zona. L’anno successivo trasformò Craigs­list in un servizio web e cominciò a diffonderlo in tutto il paese e poi in tutto il mondo.

Era chiaro che per i giganti dell’informazione su carta quella lista era letale. A chiunque mi stesse ad ascoltare ripetevo che il Washington Post doveva puntare tutto – soldi, persone, incentivi – sul digitale. Dicevo ai capi che per i lettori il digitale doveva diventare la cosa più importante. Ma non ne volevano sapere, perché il modello d’affari che conoscevano era basato sulla stampa. Ogni tanto manifestavo le mie preoccupazioni sul nostro passo da tartaruga nel cambiamento digitale all’amministratore delegato della Wash­ington Post company, l’affabile Don Graham, figlio della leggendaria editrice Katharine Graham, una tipa tosta e sorprendentemente divertente. Don Graham era inspiegabilmente umile, sembrava quasi imbarazzato dal suo potere. Quando sparavo a zero sui grandi inserzionisti nei miei articoli sul declino del commercio al dettaglio a livello locale, la cosa peggiore che mi diceva – sempre scusandosi per avermi interrotto – era: “Ahi”. Poi si allontanava dalla mia scrivania con un cenno scherzoso. Mi ascoltava con interesse quando gli parlavo di quello che stava facendo Newmark, ma quando gli dicevo che Craigs­list avrebbe azzerato i ricavi degli annunci pubblicitari del Washington Post si metteva a ridere. “Costano troppo, il servizio clienti fa schifo e soprattutto non funzionano”, gli dicevo, facendogli la lezioncina sul suo modello di business. “Sparirà perché è un bersaglio perfetto. Morirete, vi decomporrete una cellula dopo l’altra, e non ve ne accorgerete finché non stramazzerete al suolo”.

Don mi sorrideva con una gentilezza che in quel momento certamente non meritavo. “Ahi”, diceva.

Naturalmente oggi il Wash­ington Post appartiene a un miliardario della Silicon valley, Jeff Bezos, e altri giganti della tecnologia hanno comprato mezzi d’informazione tradizionali, o ci hanno investito parecchi soldi. Questo però non ha scongiurato l’inesorabile declino del settore e non ha fermato l’emorragia di posti di lavoro degli ultimi anni, in cui il mondo digitale ha assorbito e ridimensionato la carta stampata. Graham, che se n’è andato dal Washington Post nel 2015, si è impegnato in una serie di energici sforzi digitali per stare al passo con i tempi (e ha anche fatto parte del consiglio di amministrazione di Face­book). Ma la maggior parte di questi sforzi non è riuscita a tamponare la ferita. A quanto pare quasi tutti gli altri dirigenti del mondo dei giornali avevano una predisposizione genetica a contrastare l’innovazione, e per anni non si sono rassegnati a prendere atto del disastro imminente né a fare a meno delle loro sontuose auto aziendali (che ovviamente hanno mantenuto).

Al loro posto è arrivato un esercito di adulti-bambini vestiti con felpe e tute, anche loro quasi tutti maschi e bianchi (certe cose non cambiano mai), la cui conoscenza dei mezzi d’informazione, della storia e, soprattutto, di come funziona una democrazia era pericolosamente esile.

Anche se scrivere di tecnologia nei primi anni novanta era considerata un’attività molto marginale, una specie di terra di nessuno infestata di nerd noiosi e sfigati e d’informazioni tecniche che nessuno voleva conoscere, io credevo davvero nel mio lavoro, perché ero convinta che il settore fosse sul punto di esplodere e che le possibilità fossero infinite. Per farlo, però, dovevo trasferirmi in California.

Solo una persona appoggiò la mia decisione. Walt Mossberg era il più famoso dei giornalisti esperti di tecnologie, grazie alla sua popolare rubrica Personal technology, lanciata sul Wall Street Journal nel 1991 con la più grande battuta iniziale di sempre nel settore: “I computer sono troppo difficili da usare. E non è colpa vostra”. Mi ero presentata a questo guru con il pizzetto mentre stavo scrivendo un libro sul sito Aol, e lui aveva gentilmente accettato di concedermi un’intervista. Diventammo subito amici, legati dallo stesso destino professionale e dalla stessa mentalità tecnofila.

Nel 1997 il Wall Street Journal non aveva un giornalista che si occupasse di internet, quindi Walt chiamò Paul Steiger, il direttore del giornale, e in pratica gli ordinò di assumermi. Walt aveva questo tipo di potere, perché all’epoca la sua rubrica attirava milioni di dollari di pubblicità.

Nei miei ultimi giorni al Washington Post incrociai Graham, che mi chiese perché stavo andando via. Mi lanciai in una tirata sulle pianure dell’editoria che si abbassavano, i fiumi dell’informazione che crescevano e il rapporto sempre meno stretto tra lettori e inserzionisti. Con il suo solito sorriso, Graham sogghignava mentre io straparlavo come una scema.

“Sta arrivando l’inondazione”, lo avvertii. “Quindi vado in un posto più in alto”.

“Allora è meglio se ti metti al riparo”, mi rispose, scherzando. “A quanto pare a me servirà una barca più grande”.

L’arca di Noè, pensai. A 34 anni caricai la macchina con tutte le mie cose e attraversai il paese, diretta in un posto che a malapena conoscevo. Walt mi diede solo un altro consiglio. “Entra subito a gamba tesa”, mi disse. “Non capiranno mai cosa li ha colpiti. Sii corretta, ma non fare sconti a nessuno perché questa gente dominerà il mondo”.

Al Wall Stret Journal trovai subito la stessa mancanza di entusiasmo per la nuova era digitale. Gran parte della redazione di New York non sapeva che farsene di me. Per i giornalisti emergenti l’incarico più prestigioso era occuparsi dei vecchi giganti dell’informazione: colossi come Time Warner, Condé Nast, News Corp e Disney, entità che controllavano tutto ciò che l’umanità vedeva e ascoltava. E non a caso chi se ne occupava si comportava come i notabili di cui scriveva, pavoneggiandosi con l’aria inconfondibile di chi spesso ha torto ma non ha mai dubbi.

A me, invece, toccava occuparmi di aziende come Yahoo, che si era quotata in borsa nel 1996 con una capitalizzazione di mercato di quasi novecento milioni di dollari. In poco tempo quella cifra era raddoppiata e Yahoo era diventata una delle aziende più ambite per chi lavorava alla Silicon valley. A differenza di altre startup come Netscape, pioniera del mondo dei browser, Yahoo sembrava focalizzata sui consumatori, con il suo logo allegro, il suo irritante punto esclamativo e un’aria di giovanile stravaganza. Il suo sito era diventato il più importante del mondo, una directory di altri siti web catalogati rigorosamente a mano da un gruppo di umani che avevo soprannominato “i buttafuori di internet”.

Davide Bonazzi

La regolamentazione della rete era già un tema spinoso. Come scrivevo allora, gli unici siti che Yahoo non inseriva nella sua lista erano quelli che promuovevano attività illecite, come fabbricare bombe, e la pornografia infantile. In compenso, il sito aveva una categoria chiamata Società e cultura, in cui esistevano comunità di utenti che facevano propaganda al Ku klux klan e altri gruppi d’incitamento all’odio. Andy Gems, il capo dei buttafuori di Yahoo, spiegava di non essere un censore. Vi suona familiare?

Intervistai Gems in una stanza buia nel campus di Yahoo a Sunnyvale, in California, per uno dei miei primi articoli al Wall Street Journal. Prima di Yahoo, Gems aveva lavorato alla libreria Borders books & music, nel centro di San Francisco. Il suo era uno degli incarichi importanti del settore: insieme ad altri sessanta web surfers aveva il potere di decidere cosa accettare e cosa no sul motore di ricerca. Sulla scrivania aveva una tarantola che mangiava grilli vivi. Yahoo era, almeno all’epoca, la porta di accesso alla rete. Oltre alla famosa directory di siti, offriva ogni genere di accessorio digitale come servizio email, piattaforme di commercio e notizie. Il suo marketing era inesorabile. Inizialmente il marchio era stato costruito intorno ai fondatori e al loro incredibile salto dai laboratori informatici alla stratosfera. In un articolo, i due erano fotografati mentre uscivano con aria esuberante da una Mini viola con il logo Yahoo; in un altro, uno dei due surfava con un computer sulla testa.

La gente che lavorava con internet amava questo genere di esibizioni: era un modo per dire “non m’interessano le formalità”, piaceva al pubblico e soprattutto funzionava bene a livello pubblicitario. Ovviamente erano sciocchezze. Ma chi ero io per obiettare? E poi queste novità sembravano funzionare.

All’epoca pochi leader tecnologici avevano imparato la più importante lezione del settore, cioè che i giovani divorano inevitabilmente i vecchi.

Sicuramente Yahoo se ne accorse, e anche in fretta. Nel 2000 Google strinse un breve accordo con Yahoo per alimentare il motore di ricerca del suo sito, che all’inizio non aveva algoritmi di ricerca avanzati. L’accordo prevedeva che il logo di Google, con le sue lettere di colori primari, fosse ben visibile sul visitatissimo sito di Yahoo. Era come se la Coca-Cola avesse messo il logo della Pepsi sulle sue lattine. Quell’anno, durante un’intervista con Larry Page, uno dei fondatori di Google, mi cadde l’occhio sui grafici di crescita di google.com appesi alle pareti dell’ufficio: era chiaro che stavano portando via molti clienti a Yahoo. “Loro lo sanno?”, chiesi a Page. “Non credo”, rispose, lasciando intravedere il tipico ghigno malizioso che ogni tanto spuntava sulla sua faccia impassibile.

Google era diventato un mostro che risucchiava tutte le informazioni del mondo e le risputava fuori guadagnandoci un sacco di soldi. Ogni resistenza si sarebbe rivelata inutile. Alla fine del 2003 Page era deluso che gli editori di libri non avessero accolto la proposta di Google di digitalizzare i loro contenuti. Provai a spiegargli che per loro la proprietà intellettuale era importante e che Google non poteva semplicemente appropriarsene senza aspettarsi conseguenze. Se l’avesse fatto, in futuro nessuno avrebbe più potuto digitalizzare il materiale, e gli autori – e le loro opere – si sarebbero ritrovati ostaggio della tecnologia. Google avrebbe avuto il dominio su tutti i contenuti senza aver generato nulla tranne il sistema di distribuzione. Era un’altra Craigs­list, solo molto più grande. E gli imprenditori del web come Page erano convinti che fosse un bene per l’umanità. La verità è che era un bene per loro.

L’11 gennaio del 2000 il Wall Street Journal pubblicò un articolo che raccontava come l’azienda emergente Aol si era pappata il venerabile colosso dei media: Time Warner. La fusione era stata un gran casino fin dall’inizio, ed era poi saltata anche a causa della quotazione gonfiata di Aol, facendo scoppiare la bolla delle dotcom. Molti addetti ai lavori della Time Warner legati al vecchio modello editoriale erano contentissimi per la crisi della rete e vaneggiavano di come il pubblico si sarebbe presto stancato del digitale per tornare alla normalità. Ma la normalità non esisteva più. Sfidando l’ostilità verso il digitale di quei giorni, citai addirittura Winston Church­ill e definii il crollo delle dotcom come “la fine dell’inizio”.

La musica, i film, i libri sarebbero stati inesorabilmente digitalizzati. E l’incrocio di tecnologia e mezzi di comunicazione, che prima o poi avrebbe permesso ai consumatori di accedere alle informazioni ovunque e in ogni momento, era comunque inevitabile, anche se momentaneamente rimandato a causa dell’incompetenza dei dirigenti della Time Warner. Proprio allora decisi di tuffarmi anch’io nel mare dell’imprenditoria, sperando di non affogare.

Davide Bonazzi

Ogni metamorfosi nella mia carriera è cominciata con un mal di pancia, ed era già da un po’ che mi lamentavo con Walt del mio ruolo di editorialista. Mi sentivo intrappolata in una prigione di aspettative in un mezzzo d’informazione in cui non credevo. Continuavo ad arrabbiarmi alle riunioni in cui i redattori, in buona fede, discutevano di come convincere “i giovani” a leggere il giornale, mentre i dirigenti si ostinavano a sottovalutare il digitale e pianificavano l’uscita di un’edizione cartacea del sabato. “Se fosse per me, butterei via le presse e punterei tutto sul digitale”, pensavo io. Ma i nostri lettori erano soprattutto bianchi anziani e amavano sfogliare il giornale di carta.

A quel punto mi resi conto che ero, e che sarei sempre stata, un’ottima giornalista ma non una brava dipendente. Così chiamai Walt e gli dissi che dovevo fare qualcosa di nuovo. Riflettendo tra noi, capimmo che la priorità era sfruttare la sua influenza per convincere i capi del Wall Street Journal ad appoggiare la nostra nuova impresa come una sorta di esperimento interno, uno skunkworks, come si diceva in gergo.

Questo termine, usato in campo tecnologico, si riferisce a un gruppo d’innovatori che ruba dalla nave ammiraglia per creare una nave pirata più piccola e veloce. Volevamo formare una squadra scelta di giornalisti delusi e senza peli sulla lingua, disposti a cambiare il modo di fare informazione. Volevamo lanciare una pubblicazione esclusivamente digitale che avesse faccia tosta e personalità, senza intromissioni. Facemmo il giro dell’impero Dow Jones e consultammo i pezzi grossi, salvo poi scartarli quasi tutti, tranne quelli della pubblicità, che erano contenti di avere un nuovo prodotto da vendere. Ci serviva solo un nome. “Chiamatelo D”, ci disse Richard Saul Wurman, l’inventore delle conferenze Ted, quando io e Walt gli chiedemmo un consiglio. “Così gli potete dare il significato che volete. Delizioso. Difficile. Distruttivo”. La cosa ci piacque e decidemmo per D: all things digital (D: tutto sul digitale), estendendo il nome anche alle nostre conferenze (le quali, dopo il nostro addio al giornale, sono state ribattezzate Code).

Mentre il progetto cresceva, i nuovi padroni prendevano il posto dei vecchi. La differenza è che erano molto più giovani. Ricordo che nel 2010, alla nostra conferenza annuale a Rancho Palos Verdes, in California, Mark Zuckerberg, con il sudore che gli colava sulla faccia pallida e tonda, sembrava sul punto di accasciarsi davanti a me. “Quando parla in pubblico gli vengono gli attacchi di panico”, mi aveva avvertito anni prima un dirigente di Face­book. “Potrebbe svenire”. Sospettavo che fosse un trucco per convincerci a essere più gentili con lui. Non funzionò. Mentre io e Walt lo torchiavamo con le nostre domande sul palco principale, rivoli di sudore gli colavano sul viso cereo. Mark si era sempre sentito a disagio con me. La prima cosa che mi disse nel 2006, quando lo conobbi a Palo Alto, fu: “Mi hanno detto che pensi che sono uno stronzo”. Non lo pensavo, anche se alla fine mi sono convinta che sia uno degli uomini più avventati e pericolosi della storia della tecnologia. Quattro anni dopo, in pieno boom di Face­book, era chiaramente agitato per l’imminente uscita del film The social network. L’azienda si era lamentata in modo ipocrita e rumoroso con quelli di Hollywood per come era stato rappresentato Mark, cosa che ovviamente aveva creato ancora più attenzione intorno al film. Gli consigliai di farsi una risata e gli dissi di andare alla prima e abbracciare l’attore Jesse Eisenberg, che lo impersonava sullo schermo. “Controlla la narrazione, Mark. Il film uscirà, che ti piaccia o no. E alla fine sarai più ricco e più famoso di tutti loro”.

Anche se alla fine si è fatto una risata, ed è perfino andato ospite al Saturday night live con Eisenberg, quella sera Zuckerberg era ancora teso. “La gente crede a tutto quello che vede sullo schermo e penserà che sono davvero come mi dipingono”, mi disse aggrottando la fronte, all’epoca ancora senza rughe. Aveva appena compiuto 26 anni e quasi non si rendeva conto che la vita è lunga e che per lui sarebbe stata una maratona d’intrusioni e indiscrezioni. Mi sembrò vulnerabile: più che essere arrabbiato, sembrava non capire perché mai il mondo fosse così ingiusto nei suoi confronti. In fondo ci aveva regalato Face­book.

Quel primo Zuckerberg non era ancora l’uomo muscoloso che fa combattimenti di arti marziali, caccia bisonti e guida trattori in cui si sarebbe trasformato nei dieci anni successivi. E non era ancora diventato il simbolo della disinformazione diffusa dei social network, mentre ora Face­book e Google hanno preso il posto dei mezzi di comunicazione tradizionali come padroni globali dell’informazione.

Ora che è arrivato il loro momento, come si comportano questi nuovi padroni? A luglio del 2021 Casey Newton del sito d’informazione Platformer ha chiesto a Zuckerberg cosa pensasse della dichiarazione del presidente Joe Biden – poi ammorbidita – secondo cui la disinformazione sui vaccini e sul covid-19 su Face­book stava “uccidendo migliaia di persone”. La risposta è stata secca e rivelatrice: “Quando si pensa all’integrità di un sistema come questo, è un po’ come combattere la criminalità in una città. Nessuno si aspetta davvero che possa essere debellata del tutto”.

L’aspetto rilevante che Zuckerberg ha omesso è che quando ci sono problemi, come spesso accade, i cittadini possono mandare a casa il capo della polizia ed eleggere un nuovo sindaco. Zuckerberg, al contrario, è l’imperatore di Face­book. La struttura dell’azienda gli permette di controllare il consiglio d’amministrazione e tutte le azioni con diritto di voto, e stabilisce che il fondatore non può essere sollevato dal suo incarico con metodi in qualche modo democratici. Zuckerberg non può essere licenziato.

Va anche sottolineato che il paragone con la lotta contro la criminalità nelle città è arrivato appena sei mesi dopo che a Washington una folla inferocita aveva preso d’assalto il campidoglio, il 6 gennaio del 2021. I social network, Face­book in particolare, avevano avuto un ruolo importante nel permettere all’allora presidente Donald Trump e ai suoi scagnozzi di diffondere odio e bugie, trasformandole poi in violenza. Se è difficile dire con esattezza fino a che punto le aziende tecnologiche siano state responsabili di quegli eventi, non c’è dubbio che le tensioni siano state esasperate da una gestione quantomeno disattenta delle piattaforme di comunicazione.

In tutto il mondo sono sempre di più le persone che s’informano e si fanno un’opinione grazie ai social media. Questi strumenti hanno una capacità spaventosa di generare ansia e rabbia, e creano dipendenza. Gli esperti con cui ho parlato negli anni sostengono tutti la stessa cosa: nel nuovo paradigma coinvolgimento e indignazione sono sinonimi. A peggiorare la situazione ci si mettono le persone che guidano queste aziende, con la loro incapacità di prevedere le conseguenze delle scelte fatte e la loro irrefrenabile tendenza a consentire tutto, senza pensare ai potenziali danni e pericoli. Qual è il contrario dello stato-mamma? Il caos senza il controllo dei genitori.

Quando è scoppiata la pandemia di covid-19, mi sono trasferita di nuovo a est, per far stare i miei tre figli (più quello che sarebbe arrivato nel 2021) tutti insieme. È stato un bene, perché ormai, più che una cronista dell’era di internet, ero diventata una Cassandra irascibile. Il distanziamento fisico forzato stava accelerando tendenze già esistenti nella comunicazione, nel commercio, nella scuola, nel lavoro e in tanti altri campi. La situazione, già disastrosa negli Stati Uniti, è stata ulteriormente aggravata dal parlamento, che a un quarto di secolo dall’inizio dell’era di internet è riuscito a non approvare nessuna legge che mettesse delle barriere alla tecnologia e proteggesse i cittadini dai suoi pericoli, affidandosi invece a norme vecchie e inadeguate. Così le tanto amate istituzioni democratiche crollano di fronte alle nuove regole dell’interazione digitale: nessuna tutela della privacy, nessun adeguamento delle regole sulla concorrenza, nessun requisito sulla trasparenza degli algoritmi, nessuna attenzione alla dipendenza creata dai mezzi di comunicazione digitali.

Eppure, a sentire i permalosissimi addetti ai lavori del settore tecnologico, che hanno resistito a tutte le critiche e sono diventati sempre più ossessionati dai giornali, non è così. Queste persone continuano a ripetere che secondo loro la stampa è irrilevante, e da quando i giornalisti hanno smesso di coccolarli hanno provato a ignorarli.

Quasi tutti gli esperti di tecnologia sono dei presuntuosi dilettanti, convinti, visto che eccellono in un settore, di essere dei geni in tutti i campi. In realtà sono incapaci di qualsiasi intuizione o illuminazione che vada oltre i loro ristretti interessi egoistici e stanno completamente banalizzando il dibattito pubblico. Elon Musk è il santo patrono di questo sistema e tiene banco su qualsiasi argomento, dal covid alla Russia fino agli immigrati. Nemmeno le dimensioni della testa dei bambini nati con il parto cesareo sfuggono alle sue infinite esternazioni. Il mio ultimo figlio è nato con il cesareo e sono sicura che questo non avrà un impatto sulla sua intelligenza, quindi il mio consiglio a Elon e ai suoi compari, quasi tutti maschi, è il seguente: state al vostro posto.

Purtroppo, però, non hanno nessuna intenzione di farlo, anzi, sono pronti a rilanciare con l’aiuto dell’ultimo grido della tecnologia: l’intelligenza artificiale generale (iag). A breve termine è già chiaro che l’iag può avere effetti devastanti sul settore dell’informazione: Google non usa gli algoritmi solo per le ricerche ma anche per rastrellare contenuti già realizzati e riformularli per le masse. Questo per descrivere il fenomeno in termini semplici. Ma il vero rischio è che si ripeta quello che è già successo in passato: un sequestro totale dei contenuti. A che vi serve il New York magazine se gli avvoltoi dell’era informatica possono inghiottirlo, digerirlo e rigurgitarlo in modo tanto superficiale quanto pericoloso?

Il problema non è solo che sono avvoltoi. Chi lavora nei mezzi d’informazione – almeno chi fa attenzione a queste cose – ormai l’ha imparato. Per questo oggi abbiamo la responsabilità di evitare che la storia si ripeta. Possiamo usare tutte le metafore che vogliamo, ma i media si sono piegati ripetutamente ai signori della tecnologia nella speranza che questi non volessero quello che chiaramente vogliono: dominare ovunque. Era chiaro come il sole già dalla prima dichiarazione d’intenti di Google: “Organizzare l’informazione del mondo e renderla universalmente accessibile e utile”.

Ma l’informazione fatta da chi? E utile a chi? E chi gli ha dato il permesso? Quando ho letto questa frase per la prima volta, la mia mente è tornata a “Servire l’uomo”, l’episodio della serie tv Ai confini della realtà in cui gli alieni arrivano sulla Terra promettendo di far progredire la società. Quando ormai è troppo tardi, gli umani si accorgono che il loro piano è cucinarli e mangiarli. Servire l’uomo è in realtà il titolo di un libro di ricette. E in effetti per troppo tempo il nostro mondo è stato fritto, bollito, cotto al vapore e stufato. È facile dire che dovremmo smettere di essere prede. Forse dovremmo semplicemente smettere di pensare che la marcia della tecnologia è inarrestabile.

Non sono un’ingenua: so bene che nel settore sono tutti più o meno convinti che la tecnologia non può essere fermata. Questo non vuol dire che nel mondo dell’informazione manchino talenti come la creatività, l’ambizione e, sì, anche la capacità d’innovare. Negli ultimi anni molte testate hanno creato modelli di giornalismo inediti basati su nuovi modi di creare contenuti. Non tutti funzionano e molti sono ancora su scala ridotta, ma è comunque un fenomeno incoraggiante. Il punto è che la tecnologia e i suoi leader semplicemente non sono capaci di raccontare storie con la stessa accuratezza e capacità di coinvolgimento di chi si guadagna da vivere in giornali e tv.

Basta guardare i Grammy awards di quest’anno per capirlo. La tecnologia sarebbe stata capace di costruire a tavolino una Taylor Swift, o di sfornare una performance incredibile come quella di Tracy Chapman e Luke Combs con Fast car o di concepire una canzone perfetta ed elegante come Both sides now di Joni Mitchell? Non molto tempo fa si pensava che la tecnologia avrebbe ucciso l’industria musicale, che invece se la passa ancora benissimo, anche grazie alla sua presunta assassina.

Ma non dobbiamo affidarci solo al potere della creatività umana. Abbiamo a disposizione la legge e altri strumenti. Dopo essere rimasti fregati all’ultimo giro, i colossi dell’informazione, come il New York Times, sono passati al contrattacco, sfruttando le norme sul diritto d’autore per far causa ai giganti della tecnologia e magari spuntare condizioni migliori per l’uso della preziosa proprietà intellettuale che creano. Invece di piegarsi ancora una volta all’inevitabilità e al potere della tecnologia, usare il bastone e la carota sembra un buon metodo.

Ma non siamo sciocchi: il potere della aziende tecnologiche è sconvolgente. Oltre ad avere le più alte capitalizzazioni di mercato della storia ed essere guidate dalle persone più ricche di tutti i tempi, continuano a crescere senza essere sfiorate da controlli e sanzioni. Pensate solo che nel 2023 i ricavi del New York Times, considerato il caso più riuscito di trasformazione digitale di un giornale, sono stati di 2,4 miliardi di dollari, contro i 135 miliardi di Face­book.

Invece di dare carta bianca alle voci più rumorose e irragionevoli sui social media (non parlo solo di Musk, ma forse sì, soprattutto di lui), possiamo trovare strade diverse per tutelare la nostra democrazia e ritrovare il senso della verità e della coesione sociale. È per questo che dobbiamo continuare a fare pressioni sui nostri leader affinché mettano dei paletti alla tecnologia, limitino il suo potere sterminato e prevedano tutele ragionevoli contro una serie d’invenzioni che rischiano di fare altri danni.

Il mio viaggio digitale nei mezzi d’informazione è stato lungo. E forse, per poter diventare qualcos’altro, era normale essere prima annientati. Quello di cui sono certa è che non dobbiamo essere l’ennesimo pasto per i giganti della tecnologia. Vogliono papparsi di nuovo l’informazione. Ma non succederà. ◆ fas

Kara Swisher è una giornalista statunitense. Questo articolo è tratto dal suo ultimo libro, Burn book. La Silicon valley raccontata da chi la conosce come nessun altro (in uscita per Apogeo). È stato pubblicato dal New York magazine con il titolo “Over three decades, tech obliterated media”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1584 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati