Spesso abbiamo una visione cupa del futuro. Secondo un recente sondaggio del centro di ricerca Pew, gli statunitensi si dichiarano più sfiduciati che ottimisti su molte questioni cruciali: dai valori morali ed etici del paese al sistema scolastico, dal matrimonio alla capacità di garantire l’uguaglianza razziale. Di solito questa negatività è percepita come un motivo di preoccupazione. Ma se invece fossimo troppo severi nel giudicare il pessimismo? Se insistendo nel guardare sempre il lato positivo, stessimo sottovalutando i vantaggi di aspettarci il peggio?
Nella cultura occidentale l’ottimismo è molto apprezzato. Portato agli estremi, il suo potere dell’ottimismo è considerato quasi magico. Secondo concetti new age come la legge dell’attrazione, credendo abbastanza in qualcosa alla fine si realizza. Più spesso all’ottimismo si attribuisce la capacità di motivare. “Quando ci aspettiamo una ricompensa, siamo più propensi ad agire”, ci ha spiegato la neuroscienziata cognitiva Tali Sharot. “E quando ci aspettiamo qualcosa di brutto, è più probabile che restiamo fermi. Il cervello funziona così”.
Gli esseri umani tendono a interpretare ottimisticamente la realtà in diversi modi. Uno è la ben nota “illusione di superiorità”: quando si chiede alle persone di valutare le proprie competenze in varie attività, la maggior parte si colloca sopra la media, anche se è statisticamente impossibile. Ma secondo Tali Sharot non è un problema che l’ottimismo, per sua natura, non sia realistico. “La nostra capacità di non vedere sempre le cose come sono è una benedizione”, afferma. “Se accettassimo fino in fondo la realtà della nostra condizione e del mondo, credo che sarebbe molto difficile, per noi e per la società, andare avanti”.
Il filosofo Karl Popper arrivò a sostenere che “è nostro dovere restare ottimisti”. Proprio perché il futuro non è scritto, credere in uno migliore è il primo passo per costruirlo. Diversi studi hanno dimostrato che l’ottimismo si associa a benefici concreti: salute più solida, maggiori successi, stipendi più alti e una maggiore longevità.
Tali Sharot, nel suo libro Ottimisti di natura (Apogeo 2012), scrive che “siamo inclini a percepire il positivo più chiaramente del negativo”. In una cultura che promuove la positività, questo pregiudizio tende ad accentuarsi, favorendo la diffusione dell’ottimismo. E la negatività può essere un problema. Concentrarsi sugli aspetti negativi è una caratteristica di uno dei nostri bias cognitivi più insidiosi: l’avversione per la sconfitta, ovvero la tendenza a dare più peso alle perdite che ai guadagni, il che può portarci a prendere decisioni sbagliate, soprattutto in ambito finanziario. La nostra tendenza a privilegiare la sicurezza ha altri effetti negativi. Pensiamo ai genitori che non lasciano i figli giocare da soli all’aperto, come facevano loro da bambini: un’occasione persa per sviluppare indipendenza e fiducia in sé.
Il pessimismo sembra avere poco da offrire. Non sorprende che i pessimisti siano più soggetti alla depressione degli ottimisti. Eppure, concentrarsi sugli aspetti negativi più che su quelli positivi può avere i suoi vantaggi. Così come l’ottimismo può essere dannoso quando è mal indirizzato – basti pensare a certe ondate di euforia irrazionale nei mercati finanziari, che hanno portato anche a crolli disastrosi – il pessimismo, se ben incanalato, può farci bene.
“Fallire fa soffrire, ma permette di cogliere più informazioni rispetto a quando si ha successo” dice lo psicologo sociale Roy Baumeister nel suo libro Il potere del male (Giunti 2022), scritto insieme a John Tierney. Colpiti da quanto questa affermazione sembri contraddire la convinzione diffusa sulla superiorità dell’ottimismo, lo abbiamo chiamato per saperne di più. “Le persone riflettono più a fondo sulle cose negative che su quelle positive, ed è una reazione ragionevole e adattiva”, ci ha detto Baumeister. “Se qualcosa è andata bene, non c’è bisogno di analizzare ogni dettaglio. Ma se è andata male ti chiedi cos’è andato storto, cosa avresti potuto fare di diverso, quale lezione puoi imparare per la prossima volta”.
Ottimismo e pessimismo non sono semplici opposti. Prima di stabilire quale dei due atteggiamenti sia preferibile, è necessario distinguerne le diverse forme e applicazioni. Per esempio, quello che Baumeister definisce “effetto della negatività” non va confuso con il pessimismo. “L’effetto della negatività è la tendenza a reagire in modo più intenso agli eventi negativi rispetto a quelli positivi”, ci ha spiegato. “Il pessimismo, invece, ha a che fare con le aspettative sul futuro”. Se concentrarsi sugli aspetti negativi ti fa sentire di aver imparato qualcosa, potresti diventare più ottimista riguardo al futuro. Ci sono anche modi di essere pessimisti che possono fare bene. La psicologa Julie Norem è stata tra le prime a studiare, negli anni ottanta, il concetto di “pessimismo difensivo”, una strategia elaborata per affrontare l’ansia. Le persone ansiose tendono a pensare subito che le cose andranno malissimo. I pessimisti difensivi non si limitano a questo pensiero: analizzano tutte le possibili conseguenze negative e pianificano come affrontarle. L’ansia non scompare, ma nel processo diventa gestibile. Norem fa l’esempio degli studenti di giurisprudenza in attesa dei risultati dell’esame di abilitazione, una situazione che mette in ansia praticamente tutti. La strategia del pessimismo difensivo consiste nel “fare piani alternativi. Rifaranno l’esame? Cosa faranno nel frattempo? Che tipo di lavoro possono trovare se non lo superano? Non è che questo li faccia sentire meglio, ma almeno attutisce un po’ il colpo se le cose vanno male”.
Immaginare il peggio in questo modo si distingue dall’idea stoica della premeditatio malorum. Nello stoicismo, anticipare ciò che potrebbe andare storto serve a ricordare che nessuna paura ha un vero peso, nemmeno quella per la morte del coniuge o di un figlio. I pessimisti difensivi, invece, non smettono di pensare che potrebbe accadere qualcosa di negativo, ma cercano di evitarlo o si preparano ad affrontarlo.
Anche se è definito una strategia, il pessimismo difensivo di solito non è una scelta consapevole. Per esempio, un padrone di casa ansioso può non riflettere deliberatamente su tutti i modi in cui la sua cena potrebbe andare male, ma farlo istintivamente lo aiuta a prepararsi meglio e aumenta le probabilità che la serata riesca bene. La ricerca di Norem, condotta in molti decenni, suggerisce che il pessimismo difensivo è più efficace di altri modi comuni di affrontare l’ansia, come l’evitamento e l’autosabotaggio. Inoltre, a differenza dei pessimisti di carattere, i pessimisti difensivi non risultano più vulnerabili alla depressione. Il pessimismo difensivo è un esempio di come ottimismo e pessimismo possano manifestarsi in forme diverse. Ci insegna anche che ciò che conta davvero non è quanto il bicchiere sembri pieno, ma cosa ne facciamo. È il comportamento, non l’atteggiamento, a fare la differenza.
Il pessimismo sembra avere poco da offrire. Non sorprende che i pessimisti siano più soggetti alla depressione. Eppure concentrarsi sugli aspetti negativi può avere i suoi vantaggi
“Il pessimismo può instradare verso il fatalismo, l’idea che non si possa fare nulla”, spiega Norem. “Il pessimismo difensivo è molto diverso, perché spinge all’azione”. Anche l’ottimismo può scivolare in un fatalismo positivo, quando si pensa che tutto andrà bene e quindi non si agisce. Perché prendersi cura della propria salute se si è convinti di essere predestinati a una vecchiaia lunga e serena? Aspettarsi il peggio non equivale a credere che le cose non possano mai migliorare. La filosofa olandese Mara van der Lugt respinge a sua volta l’ineluttabilità del fatalismo. Nel suo libro Hopeful pessimism (Pessimismo speranzoso) sostiene che “avere aspettative pessimistiche sul futuro non significa pensare che sia immutabile o che non si possa fare nulla per cambiarlo. Al contrario: vedere il futuro a tinte fosche può diventare uno stimolo all’azione, un richiamo a non restare con le mani in mano”.
Forse è arrivato il momento di mettere in discussione l’idea che l’ottimismo sia imprescindibile per una buona vita. Anzi, potrebbe perfino essere dannoso. Van der Lugt sottolinea un problema insidioso degli ottimisti: tendono a sopravvalutare il loro controllo su ciò che accade.
L’ottimismo da solo non garantisce necessariamente risultati migliori nella vita. Anzi, Baumeister osserva che “ovviamente la vita degli ottimisti tende a essere migliore di quella dei pessimisti”, ma questo potrebbe dipendere da quello che definisce una “distorsione della realtà”. “Prendiamo il caso di una persona con il cancro. Chi pensa di morire entro sei mesi ha più probabilità di morire entro sei mesi rispetto a chi pensa ‘posso sconfiggerlo’, ma probabilmente ha buoni motivi per crederlo”.
In altre parole, le persone tendono a essere più ottimiste quando hanno più motivi per esserlo. Non è il pensiero positivo ad avvantaggiarle, bensì le circostanze favorevoli. “Quando i ricercatori analizzano l’ottimismo ingiustificato, che non si basa su nulla di reale, osservano che apporta pochissimi benefici”, spiega Baumeister.
La “distorsione della realtà” evidenzia ciò che dovrebbe essere ovvio: il nostro livello di ottimismo non dipende solo da noi, ma anche dalle condizioni in cui viviamo. Pensiamo a come etnia, classe e disuguaglianza sociale influenzano concretamente le possibilità di vita. Suggerire a chi soffre in un sistema ingiusto di adottare un atteggiamento più positivo significa trasformare problemi sociali ed economici in problemi psicologici. Quando le prospettive sono cupe, un atteggiamento negativo indica realismo, non pessimismo. Anche l’età conta, perché con essa cambiano la vita e il suo potenziale futuro. Sharot osserva che il bias ottimistico è al minimo nella mezza età, perché in questo periodo si affrontano più fonti di stress, come crescere i figli, prendersi cura dei genitori anziani, le responsabilità lavorative e l’inizio del declino fisico. Baumeister fa notare che l’effetto della negatività è meno marcato negli anziani, citando una ricerca di Laura Carstensen, dell’università di Stanford, che ha dimostrato come le persone anziane elaborino meno gli stimoli negativi rispetto a quelle più giovani. Questo può giovare alla loro salute mentale, ma non altrettanto al corpo. Norem osserva che “tra gli anziani un atteggiamento più pessimista è associato a livelli più elevati di salute”. Non dovrebbe stupire: con l’età il pessimismo sulla salute diventa più realistico, spingendo a prestare maggiore attenzione nel prendersi cura di sé.
Una ragione per cui l’ottimismo è spesso più apprezzato del pessimismo è che il primo è associato alla fiducia, e la fiducia al successo. Pur essendo vero che apparire sicuri di sé può ispirare fiducia negli altri, per esempio sul posto di lavoro, le ricerche indicano che in realtà non c’è una correlazione diretta tra il mostrarsi sicuri e la competenza. A partire dal 1999, diversi studi hanno confermato l’effetto Dunning-Kruger, dal nome degli psicologi David Dunning e Justin Kruger, che hanno scoperto come le persone tendano a sovrastimare le proprie capacità. Questo è particolarmente evidente nelle persone meno competenti, perché meno si sa su un argomento, meno si è consapevoli di ciò che non si sa. I ricercatori hanno anche osservato che maggiore è la competenza di una persona in un ambito specifico, minore è la probabilità che si senta sicura di sé, anche perché è consapevole di tutto quello che non sa. Come dice Norem, “quando trasmetti sicurezza, l’ottimismo ti favorisce perché fai una buona impressione. Invece non ti avvantaggia se vuoi ottenere buoni risultati”. Un ottimistico eccesso di sicurezza in se stessi può aumentare le probabilità di commettere errori. “Una persona meno sicura di sé potrebbe essere più incline a fare domande e a cercare consigli”, spiega Norem. Inoltre, chi dubita di se stesso e della certezza del successo ha una valutazione più realistica dei propri limiti.
Spesso pensiamo agli ottimisti e ai pessimisti come a tipi di persone radicalmente diversi. Ma la realtà è più complessa. Forse l’intuizione più rivelatrice viene da Norem secondo cui sbagliamo a vedere ottimismo e pessimismo come opposti sulla stessa scala. Piuttosto, ciascuno è su una scala indipendente dall’altra. Come spiega nel suo libro The positive power of negative thinking (Il potere positivo del pensiero negativo), “le persone possono essere molto ottimiste (o nella media o poco), ma questo non significa necessariamente che siano poco pessimiste (o nella media o molto)”. Si può essere ottimisti e pessimisti allo stesso tempo, aspettandosi di fare una grande presentazione al lavoro e di schiantarsi con l’auto tornando a casa. Anzi, c’è un ambito in cui ottimismo e pessimismo convivono spesso. Le persone tendono a essere piuttosto positive riguardo alle proprie prospettive personali, mentre sono convinte che il proprio paese o il mondo in generale stiano andando a rotoli. Questa combinazione di ottimismo privato e disperazione pubblica è uno dei risultati più frequenti negli studi di psicologia e nei sondaggi.
Norem dà rigore scientifico all’idea che molte generalizzazioni su ottimismo e pessimismo sono semplicistiche. Questo è particolarmente importante quando si tratta di capire come vivere e quali atteggiamenti adottare, indipendentemente dalle nostre inclinazioni. Ed è proprio questo, a quanto pare, il punto fondamentale: quando si tratta di ottenere risultati positivi o negativi nella vita, sono le azioni a parlare più delle predisposizioni.
Da queste intuizioni fondamentali e dalla ricca mole di ricerche nel campo si possono trarre molte lezioni. Una di queste è che non dovremmo preoccuparci troppo di avere bias sia positivi sia negativi. Non sono difetti cognitivi, ma adattamenti psicologici per aiutarci a gestire ciò che la vita ci riserva. La maggior parte delle nostre reazioni avviene in modo troppo rapido e inconscio perché possiamo contrastarle davvero. Possiamo modulare il comportamento, ma non trasformare le nostre reazioni profonde, e provare a farlo può addirittura risultare dannoso.
Le ricerche di Norem suggeriscono che, se si cerca di far cambiare strategia a un pessimista difensivo o di far adottare il pessimismo difensivo a un ottimista, entrambi tendono a peggiorare nei risultati e nel benessere. Per esempio, costringere un ottimista a immaginare tutti i modi in cui un incontro potrebbe andare storto di solito lo rende ansioso e peggiora la sua prestazione. Allo stesso modo, convincere un pessimista a non pensare ai problemi di un incontro lo fa sentire impreparato quando questi si verificano.
Sia Norem sia Sharot sostengono che le soluzioni ai rischi del pensiero distorto dovrebbero essere soprattutto di tipo sociale e organizzativo, non personale. “Non stai cambiando ciò che credi accadrà, stai mettendo freni che ti aiutano a non sbagliare”, spiega Sharot. Norem suggerisce anche che, per evitare un eccesso di ottimismo, le organizzazioni dovrebbero “rendere meno penalizzante il dissenso, il sollevare problemi o analizzare le idee nei loro aspetti critici”.
In effetti, la tecnica del “disfattista a priori”, o “avvocato del diavolo” , è diventata piuttosto comune nelle aziende come metodo per incoraggiare il dissenso costruttivo. In genere, a ogni riunione qualcuno assume il ruolo di Cassandra cercando attivamente criticità e punti deboli. Norem consiglia di far ruotare questo ruolo, per evitare che una sola persona si ritrovi etichettata come “negativa”. Come riportato dalla Harvard Business Review, i colleghi tendono a percepire i bastian contrari abituali come “fastidiosi”, “frustranti” o perfino “ostili”.
Forse non possiamo cambiare del tutto il nostro modo di vedere ma, come ricorda Baumeister, uno dei compiti principali della mente conscia è proprio quello di superare gli automatismi o le reazioni apprese quando non ci sono utili. Per questo dovremmo sforzarci di evitare gli eccessi dell’ottimismo come del pessimismo, perché è proprio negli estremi che si concentra la maggior parte degli effetti negativi.
Per esempio, Sharot osserva che i fumatori tendono a essere o molto ottimisti o molto pessimisti, entrambi convinti che nulla cambierà, che fumino o no. Il problema, in questo caso, è il fatalismo. Perché ciò che conta davvero non è cosa pensiamo di qualcosa, ma cosa facciamo al riguardo.
Non è un caso se quasi tutte le tradizioni sapienziali ci invitano a riflettere sulla morte e sulla nostra mortalità: la vita ha un termine e proprio per questo dovremmo concentrarci su ciò che ha valore. Le illusioni positive possono farci sentire meglio, ma rischiano di allontanarci da questo compito essenziale. È utile chiederci se la nostra lettura di una situazione sia eccessivamente negativa o positiva, ma ancora più importante è domandarsi se quella visione ci sta impedendo di perseguire ciò che per noi conta davvero.
Non è necessario sentirsi ottimisti per lavorare verso un obiettivo, né il pessimismo ci impedisce di farlo. Ciò che conta è avere abbastanza speranza da spingerci all’azione. Come ha detto Václav Havel: “La speranza non è la convinzione che ciò che stiamo facendo avrà successo. La speranza è la certezza che ciò che stiamo facendo ha un senso. Che abbia successo o no”. ◆ svb
Julian Baggini è un filosofo e giornalista britannico. È uno dei fondatori della rivista The Philosophers’ Magazine. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Pensa come mangi (Touring 2024).
Antonia Macaro è una psicoterapeuta e consulente filosofica. È autrice con Julian Baggini di Vita. Istruzioni per l’uso (Il Saggiatore 2020).
Questo articolo è uscito sul Financial Times con il titolo “In defence of pessimism”. © The Financial Times Limited 2025. All Rights Reserved. Il Financial Times non è responsabile dell’accuratezza e della qualità di questa traduzione.
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Questo articolo è uscito sul numero 1624 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati