Il 23 marzo 2021, quando la portacontainer Ever Given si è incagliata su una sponda del canale di Suez, moltissime persone si sono infastidite e arrabbiate. Innanzi tutto il capitano della nave e tutta la sua ciurma indiana: sarà interessante vedere cosa stabilirà l’inchiesta non solo sull’incaglio, ma anche sul pene gigante disegnato dalla Ever Given sul sistema di localizzazione satellitare prima di entrare nel canale. È stata sicuramente una brutta giornata anche per i piloti egiziani che avevano la responsabilità di manovrare la nave durante la traversata, per non parlare di tutte le persone rimaste a bordo delle centinaia di navi bloccate in coda. C’era grande preoccupazione soprattutto per i diversi carichi a bordo di tutte quelle navi: il petrolio, ovviamente, ma anche tonnellate della risorsa più estratta al mondo (indovinate cos’è? È la sabbia). E poi, naturalmente, il resto: scarpe da ginnastica, computer, caffè, console, varie stronzate di plastica, medicine. Insomma, tutto. Poiché il 12 per cento del commercio globale passa per il canale, i danni economici provocati dalla sua chiusura sono stati notevoli: la bellezza di 9,6 miliardi di dollari al giorno.

C’è stata però una comunità più ristretta di persone che, anche se non esattamente felice della disavventura della Ever Given, ha visto nell’incidente un’opportunità per sensibilizzare l’opinione pubblica. Per queste persone, il trasporto marittimo è la grande questione nascosta al centro dell’economia globale. Come dice Rose George nel sottotitolo di Deep sea and foreign going, il suo fondamentale saggio del 2013 sull’argomento, il trasporto marittimo è responsabile del “90 per cento di tutto”. È l’equivalente fisico di internet, l’altra industria che rende possibile la globalizzazione. Internet abolisce i confini nazionali dell’informazione, delle notizie e dei dati; il trasporto marittimo abolisce i confini dei beni materiali. E ci riesce grazie a un’efficienza e un’economicità quasi incomprensibili. Come osserva George, se ti fai portare un maglione dall’altra parte del pianeta, il costo di spedizione è pari ad appena un centesimo del prezzo finale; in altre parole, è praticamente gratis. Le posizioni fisiche e geografiche, ormai, non sono più un fattore economico: spostare un oggetto da A a B costa talmente poco che, per molti beni, non c’è alcun vantaggio a localizzare la produzione vicino ai propri clienti. È molto più conveniente produrre dove costa meno e poi spedire. Come ha scritto Marc Levinson in The box (Egea 2007), un libro insospettabilmente avvincente sull’industria dei container, il trasporto marittimo è talmente a buon mercato che “ha cambiato l’aspetto dell’economia mondiale”.

Il mio antico e mai sopito interesse per il trasporto marittimo deriva dal fatto che sono cresciuto in quello che oggi è uno dei cinque maggiori terminal container marittimi del mondo, Hong Kong, e anche da una decisione presa da mia madre: nel 1967, quando avevo cinque anni, alla vigilia di un viaggio per Londra decise che invece di prendere l’aereo avremmo “preso la barca” (per gli amici appassionati di navigazione: lo so che non si dice barca). Pensava giustamente che la nave fosse agli sgoccioli come modalità standard di viaggio e voleva che provassimo questa esperienza prima che fosse troppo tardi. Prenotò una traversata sulla Benvalla, nave gestita dalla Ben Line, una ex gloriosa compagnia, irrevocabilmente scozzese, che aveva sede a Leith e aveva scambi soprattutto con l’Asia. La Ben Line gestiva una flotta di navi da carico che ospitavano anche un certo numero di passeggeri. A bordo della Benvalla eravamo in quattordici, e il viaggio sarebbe dovuto durare quattro settimane, comprese le soste. Ma il 5 giugno, il giorno prima del nostro passaggio nel canale di Suez, scoppiò la guerra dei sei giorni.

Il canale fu chiuso e il capitano chiese ordini via radio. In attesa del verdetto di Leith, la Benvalla passò due giorni bloccata davanti all’ingresso meridionale del canale, lo stesso punto in cui qualche settimana fa centinaia di navi hanno aspettato che la Ever Given si disincagliasse. Stando fermi sul mar Rosso, ricordava mia madre, c’era un caldo insopportabile. Quando l’ordine da Leith arrivò, ci dissero che dovevamo fare il giro lungo, dal capo di Buona Speranza, e che il nostro punto di approdo in Europa non sarebbe stato più Londra ma Amburgo. La tempesta di tre giorni che affrontammo per doppiare il capo è il ricordo più vivido che ho del viaggio. Mi è rimasta impressa un’immagine in particolare: la cuccetta di mia madre, nella cabina di fronte alla mia, che s’inclina a un angolo di 45 gradi, torna su, e poi di nuovo giù. Ero troppo piccolo e troppo ignorante per avere paura, ma mi ricordo che qualche tempo dopo mia madre mi disse che anche l’equipaggio era in allarme per la tempesta e che a un certo punto un’onda gigantesca si era infranta sul ponte. Attraversammo l’equatore (il nostromo si mise la barba finta per travestirsi da Nettuno e affondò le teste dei non iniziati nella piscina per i bambini), vedemmo le balene e guardammo talmente tante volte Il principe di Donegal (l’unico film della nave adatto ai piccoli) che diventò il mio film preferito. Recentemente ho provato a cercarlo, ma non è disponibile né nel Regno Unito né in Irlanda, anche se la Disney lo fa vedere in streaming in tutto il resto del mondo anglofono. Probabilmente il motivo è legato a una combinazione di sfondoni linguistici e pagliacciate storiche (immagino quanto dev’essere terribile per i padroni di Topolino rinunciare agli incassi).

Il canale restò chiuso otto anni. Per pochissimo la Benvalla non fu una delle quattordici navi che rimasero bloccate al suo interno per tutto quel tempo (gli equipaggi erano autorizzati a ruotare; la Great bitter lake association nacque per gestire le risorse in comune e la vita sociale. Stampavano addirittura francobolli e avevano una loro versione delle Olimpiadi). Quando il canale riaprì, il mondo e l’industria del trasporto navale erano cambiati per sempre.

La guerra dei sei giorni è stata una delle tante occasioni in cui il canale ha avuto un ruolo centrale nelle congiunture e disgiunture storiche del mondo. In Sinews of war and trade (I gangli della guerra e del commercio), Laleh Khalili racconta la storia del canale e delle correnti storiche ed economiche che l’hanno attraversato e che sono state rese possibili dalla sua presenza. Il libro si focalizza sulla penisola arabica, la cui centralità nelle relazioni commerciali tra oriente e occidente è evidente a chiunque dia uno sguardo a una cartina. Se alla posizione geografica del canale aggiungiamo la scoperta dei giacimenti petroliferi in Arabia Saudita nel 1938, capiamo perché in questa parte del mondo si concentrano tanti dei gangli di cui parla Khalili.

christian dellavedova

Il canale fu costruito da manodopera egiziana sotto la direzione dell’ingegnere francese Ferdinand de Lesseps. Fu impiegata una combinazione di tecnologie all’avanguardia e manovalanza forzata, e i lavori durarono dieci anni: il canale fu inaugurato il 17 novembre 1869. La prima nave ad attraversarlo fu la cannoniera britannica Hms Newport, senza fanfare, un giorno prima dell’apertura ufficiale. Khalili non sente il bisogno di sottolineare questo aspetto: fin dall’inizio il canale fu uno strumento di potere e giocò un ruolo cruciale non solo nell’incremento degli scambi commerciali tra Europa e Asia, ma anche nell’estensione dell’influenza e dell’impatto dell’impero britannico. Il giorno dell’apertura ufficiale il panfilo imperiale francese L’Aigle completò la traversata accompagnato da una flottiglia di dignitari. Il canale era un’opera tecnologica in sé, e per il suo funzionamento dipendeva dalle nuove tecnologie: poiché era disposto da nord a sud e i venti prevalenti soffiavano da ovest a est, le navi a vela non potevano navigarlo, quindi la sua esistenza era legata alle navi a vapore. Queste ultime, a loro volta, avevano bisogno di carbone e di porti dove fare rifornimento.

La domanda ridisegnò la mappa dell’impero. La Compagnia britannica delle Indie orientali aveva cominciato a riconvertire la sua flotta al vapore già negli anni trenta dell’ottocento. Nel 1839 i britannici conquistarono Aden e fecero del porto yemenita uno snodo vitale dell’impero, un centro logistico e delle comunicazioni. Khalili cita la tesi di Douglas Farnie secondo cui “le comunicazioni via cavo furono ancora più centrali per il mantenimento del potere economico e politico britannico delle ferrovie e delle navi a vapore, perché collegarono il sistema interno indiano di raccolta d’informazioni alle loro reti all’estero, centralizzando così la capacità dello stato di raccogliere informazioni strategiche e di allargare la sua capacità di proiezione del potere”.

Il successivo sviluppo tecnologico che influenzò il canale fu l’invenzione di Marcus Samuel, un ebreo iracheno nato a Londra e proveniente da una famiglia che commerciava conchiglie marine. Samuel, che in futuro sarebbe diventato sindaco di Londra, si era accorto di quanto fosse faticoso caricare i barili di petrolio sulle navi (risale ad allora la convenzione di fissare il prezzo del petrolio al barile) e capì che sarebbe stato molto più efficiente trasformare la nave stessa in un’unica grande tanica. Questa invenzione, la petroliera, portò alla nascita dell’industria moderna del trasporto del petrolio e alla fondazione della nuova azienda di Samuel, il cui nome richiamava l’antico mestiere familiare: Shell, conchiglia. Nel 1898, la prima delle sue petroliere ad attraversare il canale (dopo lunghe pressioni del governo britannico, preoccupato che la statunitense Standard Oil fosse in vantaggio nella vendita del petrolio in Asia) fu la SS Murex. Visti i suoi trascorsi, Samuel sapeva bene che il murex, o murice, era una grande lumaca predatrice dei mari. Il nome era quanto mai appropriato: tre anni dopo, nel 1901, il trasporto del petrolio rappresentava l’1 per cento del traffico del canale; nel 1960 la percentuale era salita all’82 per cento. La Shell è ancora oggi l’azienda che vale di più nel Regno Unito.

Prima ho scritto che quando il canale riaprì dopo la guerra dei sei giorni il mondo era cambiato. Le trasformazioni nel trasporto marittimo riguardavano soprattutto le dimensioni. Nelle navi tutto era diventato più grande, poi ancora più grande, sempre più grande. La necessità di passare per il capo di Buona Speranza e affrontare le sue terribili e leggendarie tempeste costituiva di per sé una giustificazione sufficiente per costruire navi sempre più capienti. La combinazione tra l’importanza crescente del petrolio arabo per le economie occidentali e la chiusura del canale fece aumentare ulteriormente le dimensioni delle imbarcazioni: prima nacquero le superpetroliere Vlcc (very large crude carriers) poi le megapetroliere Ulcc (ultra large crude carriers). Come spiega Khalili, lo sviluppo di queste navi fu favorito da una serie d’innovazioni finanziarie. L’armatore Aristotele Onassis, uno dei motori trainanti di questa gigantizzazione delle navi, cominciò offrendo servizi di noleggio alle compagnie petrolifere che avevano bisogno di capacità di trasporto ma preferivano non essere proprietarie delle navi perché si consideravano parte del business del petrolio e non del trasporto marittimo. Dopo aver venduto il servizio di noleggio, usava i guadagni promessi per assicurare la nave; quindi usava l’assicurazione a garanzia del finanziamento necessario a farla costruire. Quella di Onassis è una bellissima parabola sulla capacità del capitale di generare altro capitale: potremmo dire che la nave, che all’inizio del processo non esiste, crea se stessa dal nulla attraverso la magia della finanza.

La chiusura del canale tra il 1967 e il 1975 ebbe anche diverse conseguenze politiche. In primo luogo, contribuì al passaggio dal processo di decolonizzazione degli anni sessanta alla politica petrolifera reazionaria degli anni seguenti, poi ridimensionò l’importanza del porto di Aden. In passato, aveva prosperato perché era strategico per i britannici, che l’avevano favorito attraverso una serie di manovre senza scrupoli: nel 1955, per esempio, impedirono alla città di Sharja di sviluppare il suo porto per salvaguardare la preminenza del loro scalo di riferimento. Con la scoperta del petrolio negli stati del Golfo e soprattutto con la partenza dei britannici, dal punto di vista economico il destino di Aden era segnato. Come scrive Khalili, “il suo declino dimostra che nonostante i vantaggi naturali, un porto profondo e una posizione strategicamente favorevole, una città portuale può essere lasciata appassire finché scompare”. Il porto più grande del Medio Oriente oggi è quello di Jebel Ali a Dubai, l’unico tra i primi dieci terminal container marittimi del mondo che non sia in Asia orientale o sudorientale. La Dubai Ports World, che nel 2006 ha comprato la storica azienda britannica P&O, è oggi uno dei principali operatori portuali del mondo, proprietario, tra gli altri, del porto di Rotterdam, il più grande d’Europa. Quello di Felixstowe, il più grande del Regno Unito, è di proprietà della CK Hutchison, un conglomerato con sede a Hong Kong. Il trasporto marittimo globale oggi è dominato dall’Asia e dalle società asiatiche.

christian dellavedova

Oltre alle petroliere, l’altra categoria di navi che dagli anni sessanta è cresciuta sempre di più è la nave portacontainer. È impossibile sottolineare abbastanza quanto è importante nell’economia moderna. Grazie ai container, il costo del trasporto si è talmente abbassato che ormai non è più un fattore economico. La cosa più singolare è che è una trovata talmente semplice che sarebbe potuta venire in mente a chiunque. Se vi è mai capitato di mettere a posto i giocattoli dei bambini, capirete di cosa sto parlando: l’idea di fondo è che gli oggetti diventano più gestibili se li metti tutti dentro una scatola. Tutto qui.

Può sembrare una cosa da poco, ma nel mondo delle spedizioni è stata una rivoluzione: la creazione di un container che può viaggiare su gomma, su rotaia o via mare e arrivare fino a destinazione, che può avere sempre le stesse dimensioni ed è un’unità di carico completamente intercambiabile. Il merito del suo inventore, l’imprenditore statunitense Malcolm McLean, non fu tanto nell’idea, ma nell’infaticabile attività di persuasione con cui la impose a produttori, regolatori, politici, governi, sindacati, compagnie ferroviarie, compagnie di navigazione, autotrasportatori e autorità portuali. La prima portacontainer, la SS Ideal-X, salpò da Newark il 26 aprile 1956 con un carico di 58 container. Il resto del mondo si adeguò subito, perché i vantaggi erano ovvi: velocità, convenienza ed efficienza. Il container standard inventato da McLean, il teu (twenty-foot equivalent unit, unità equivalente a venti piedi, lunga cioè 6,1 metri) oggi domina il mondo delle spedizioni e dei trasporti.

Prima dei container, scrive Marc Levinson, l’autore di The box, gli scaricatori spesso si ritrovavano davanti a “centinaia di pacchi di zucchero da un chilo l’uno o a forme di formaggio da dieci chili stipate accanto a bobine d’acciaio da due tonnellate. Per scaricare le banane i portuali dovevano camminare su una passerella portando in spalla caschi da trenta chili. Per caricare il caffè bisognava portare sacchi da quindici chili su una pedana di legno sistemata nella stiva, spostare la pedana sul molo facendola sollevare da un argano e poi togliere i sacchi uno per uno dalla pedana e accatastarli in cima a una catasta gigantesca”. Una singola nave poteva trasportare una pila di sacchi di cemento, spranghe di rame troppo grandi per caricarle a mano, fusti di sego in acciaio, cesti di arance, barili di olive e balle di cotone da duecento chili. Levinson descrive nel dettaglio il carico di una nave, la SS Warrior. In una singola traversata da Brooklyn a Bremerhaven, in Germania, trasportò 5.015 tonnellate di merci per un totale di 194.582 unità di carico: 74.903 casse, 71.726 cartoni, 24.036 sacchi, 10.671 scatole, 2.880 pacchi, 2.877 confezioni, 2.634 pezzi, 1.538 fusti, 888 latte, 815 barili, 53 veicoli a ruote, 21 cassette, dieci trasportatori, cinque bobine e 1.525 unità imprecisate. Ci vollero sei giorni per caricare la Warrior (compresa una giornata di sciopero), dieci giorni per attraversare l’Atlantico e altri quattro giorni per scaricare la merce (mentre i portuali degli Stati Uniti facevano turni di otto ore, quelli tedeschi lavoravano giorno e notte). Metà del tempo di viaggio, dunque, fu impiegato per le attività di carico e scarico.

Il container elimina tutto questo lavoro manuale e lo sostituisce con un processo quasi completamente automatizzato. Le navi vengono scaricate nel giro di poche ore, e l’ordine è stabilito dagli algoritmi. Nessuno sa cosa c’è nelle scatole né gli interessa: il ruolo dell’equipaggio è limitato ai carichi refrigerati o pericolosi. A parte questo, per l’equipaggio e gli scaricatori i container sono scatole etichettate con dentro chissà cosa. Il processo è talmente rapido che un intero repertorio d’immagini, storie e folclore sui marinai a terra è diventato inappropriato: l’equipaggio rimane a terra solo per poche ore. L’aumento dell’efficienza del processo è legata in buona parte all’aumento delle dimensioni. Nel 1980, 17 navi con una capacità complessiva di 20mila teu salpavano ogni settimana dal Nordamerica per sbarcare in Giappone. Niente male, anche se oggi la Ever Given, per esempio, porta da sola 20.124 teu. Le navi più grandi del mondo, quelle della classe Algeciras costruite dalla coreana Dae­woo, hanno una capacità di 23.964 teu ciascuna. Se si mettono in fila i container di una di queste navi si copre una distanza di 145 chilometri.

Il container ha messo fine all’antica concezione del porto. I giganteschi terminal container di oggi non hanno più collegamenti organici a luoghi specifici ma solo a centri di smistamento, reti stradali e ferroviarie. Scrive Levinson:

L’industria del trasporto marittimo è diventata più grande e importante che mai, nascosta dentro porti sicuri e impenetrabili

Città che per anni erano state centri del commercio marittimo come New York e Liverpool hanno assistito al rapido declino dei loro porti, inadatti al traffico dei container o semplicemente superflui; le industrie manifatturiere, che in passato si erano sobbarcate costi elevati lavorando in impianti urbani antiquati per stare vicini a fornitori e clienti, si sono trasferite altrove. Città un tempo letargiche come Busan e Seattle hanno scalato le classifiche dei porti mondiali.

Niente più traversate da Brooklyn a Bremerhaven. I terminal container di oggi sono siti di massima sicurezza, quasi fortificati. Le fabbriche non hanno più bisogno di stare vicino ai porti; ci sono aree in cui sia i terreni sia la manodopera costano di meno e sono in grado di mettere fuori mercato i centri più popolati. Il teu ha cambiato la geografia economica del mondo.

Gli effetti sulla forza lavoro sono stati altrettanto profondi. La più grande portaerei del mondo, una classe Nimitz della marina degli Stati Uniti, è lunga 333 metri, ha una capacità di 106.300 tonnellate e porta 6.012 persone. Le navi container più grandi del mondo sono lunghe 400 metri, hanno una capacità di 228.283 tonnellate e hanno equipaggi di una ventina di persone (quello della Ever Given, che è lunga 400 metri, è di 25 persone). Con l’aumento dell’efficienza, il lavoro manuale si è ridotto ed è diventato più sostituibile, meno sindacalizzato e più internazionale, un processo reso possibile dalle moderne strutture proprietarie e giuridiche. La Ever Given è un caso emblematico: è stata costruita dalla compagnia giapponese Imabari ed è di proprietà di una sua controllata, la Shoei Kisen Kaisha; entrambe le società sono al 100 per cento della famiglia Higaki. Il settore del trasporto marittimo è ancora dominato in misura sorprendente da aziende di famiglia. Ma il cliché della famiglia compatta e unita non si addice granché agli Higaki. Sui loro biglietti da visita ci sono due cifre: la prima indica che posto ha nella successione il padre dell’intestatario del biglietto (il fondatore dell’azienda è il numero 1); la seconda indica se è il primo figlio, il secondo, il terzo e via così. Così il Nikkei Asia descrive il gruppo dirigente dell’azienda: “Il direttore generale Mutsuya Higaki, secondo figlio del quarto figlio di Shoichi, ha il codice 4-2, mentre 5-1 è il codice del direttore generale Kiyoshi Higaki, primo figlio del quinto figlio del fondatore. Un dirigente della divisione affari generali della Imabari dice che i codici servono a ‘evitare la confusione’”. Se lo dicono loro… Il presidente dell’azienda Yukito Higaki ha il codice 3-1.

Quindi gli Higaki gestiscono la Ever Given? Non proprio. Ricordatevi del modello Onassis: la Ever Given è stata costruita per essere noleggiata al colosso taiwanese dal trasporto marittimo Evergreen Marine, controllato a maggioranza dalla famiglia Chang. Ma neanche loro se ne occupano direttamente: la nave è gestita dalla Bernhard Schulte Shipmanagement, un’azienda con sede ad Amburgo che fa parte del gruppo Schulte, di proprietà della stessa famiglia da cinque generazioni (Bernhard Schulte fece fortuna quando il canale di Suez rimase chiuso durante la guerra dei sei giorni). Allora è una nave tedesca? No, la Ever Given batte bandiera panamense e opera secondo le leggi panamensi. Quanto all’equipaggio, i giornali c’informano che è di nazionalità indiana.

Tutto questo è tipico dell’industria contemporanea del trasporto marittimo, soprattutto la combinazione tra proprietà familiare dietro le quinte e internazionalizzazione totale. Pur essendo radicato in specifici luoghi e tradizioni, il trasporto marittimo oggi fa di tutto per rendersi il più apolide possibile. L’elemento giuridico fondamentale è l’uso di bandiere di convenienza, attraverso la registrazione in ordinamenti che non hanno alcun legame con la proprietà, gli operatori o l’equipaggio della nave. Il fenomeno delle “bandiere di comodo” ha una lunga storia legata alle guerre, allo schiavismo e alla pirateria, ma è cominciato nella sua forma moderna con il registro aperto panamense del 1916. Qualsiasi proprietario può registrare la sua nave a Panamá, trasformando così la nave stessa e il suo equipaggio “in un pezzo di sovranità di quel paese”, secondo la definizione di Khalili. Nelle regioni costiere di tutto il mondo, la legge dello stato pertinente si applica fino a dodici miglia dalla costa; oltre quel limite, la nave risponde alla legge della sua bandiera. In pratica, significa che non risponde a nessuna legge: i registri più comuni sono quelli di Panamá, delle isole Marshall e della Liberia, tre paesi non esattamente noti per la loro affidabilità in campo legale. I componenti dell’equipaggio non sono mai cittadini del paese di bandiera, e spesso neanche di quello del proprietario o dell’operatore della nave; il più delle volte sono assunti a contratto dalle agenzie di gestione del personale. Moltissimi vengono dalle Filippine, un paese ampiamente sovrarappresentato tra la popolazione dei marittimi di oggi.

Le strutture giuridiche sono scatole cinesi d’impunità, e gli abusi sono talmente diffusi che ormai non sono quasi più abusi, ma la triste norma. Come scrive Rose George, “con chi te la puoi prendere quando lavori per un’agenzia di gestione del personale di Manila su una nave di proprietà di uno statunitense che batte bandiera panamense ed è gestita da un cipriota in acque internazionali?”. Quella descritta è una situazione abbastanza ordinaria per gli standard del trasporto marittimo contemporaneo. Un caso più complesso, citato da George, è quello della Erika, una petroliera naufragata nel 1999 al largo della Bretagna con gravissime conseguenze per l’ambiente. La nave era stata noleggiata dalla compagnia petrolifera francese Total, ma nessuno sapeva di chi fosse. Inizialmente la proprietà sembrava appartenere alla Tevere Shipping di Malta, che aveva esternalizzato la gestione della nave alla Panship Management di Ravenna, che a sua volta l’aveva data a noleggio alla Selmont International di Nassau, che era rappresentata dalla Amarship di Lugano. C’erano dodici società di comodo tra la nave e la proprietà, e le autorità francesi non riuscivano a venirne a capo: “Molte erano poco più che targhe d’ottone su una via di Malta o di Monrovia, ma una targa d’ottone può essere un gigantesco ponte levatoio alzato quando gli stati garantiscono l’anonimato”. Quindi? “Quando dopo settimane finalmente il proprietario della Erika uscì allo scoperto (disse che era in vacanza a sciare e che non si era reso conto di essere diventato il responsabile di una catastrofe ambientale) si scoprì che era un napoletano che viveva a Londra, Giuseppe Savarese”.

Insomma: l’industria del trasporto marittimo è diventata più grande e importante che mai ed è la principale forza trainante della globalizzazione. Allo stesso tempo, però, è anche più opaca che mai, nascosta dentro porti sicuri e impenetrabili, recintati con il filo spinato, che hanno sempre meno contatti con ciò che li circonda e che si sono trasformati in puri nodi di trasporto. Le navi e i loro equipaggi sono sempre di più solo entità intercambiabili: non c’importa come ci arrivano i prodotti che ordiniamo, e l’unico motivo per cui ce ne stiamo interessando è che la Ever Given è rimasta incagliata nel canale di Suez. Il risultato di tutta questa cortina fumogena legale è che il trasporto marittimo è diventato misterioso e invisibile. Ci sono 85mila grandi navi in attività nel mondo, e secondo la International transport workers federation diecimila lavoratori marittimi perdono la vita ogni anno. Ma noi preferiamo non saperlo. Se pensiamo a quanto è stato centrale il mare nella storia dell’uomo, nelle canzoni, nelle storie, nei libri, non possiamo fare a meno di chiederci: che fine ha fatto tutto questo?

L’industria del trasporto marittimo si è impegnata a fondo per nascondersi, e noi siamo stati suoi complici. Non vogliamo pensare a come quel famoso 90 per cento di tutto arriva fino a noi. Il lavoro manuale di un intero settore industriale è stato oscurato. Di tanto in tanto succede qualcosa che ci rinfresca la memoria: il rallentamento del commercio provocato dalla Brexit o l’incidente della Ever Given. Subito dopo, però, torniamo al nostro ostinato non voler vedere. Eppure, le petroliere e le portacontainer non si fermano mai: quei 67 miliardi di dollari di merci rimaste ferme a causa della Ever Given stanno lentamente marciando verso di noi mentre ce ne stiamo comodamente seduti in poltrona. Il più grande motore dell’economia globale resta a tutti gli effetti invisibile, anche se spinge al ribasso i salari e le condizioni di vita dei lavoratori, anche se influisce sui cambiamenti climatici, anche se sta modificando la geografia economica del mondo. Oltre, naturalmente, a tenere bassi i prezzi.

Il trasporto marittimo è un moderno miracolo di efficienza, interconnessione e tecnologia. È forse l’esempio supremo del capitalismo moderno, al culmine del suo primato sul lavoro. Nel suo libro, Rose George cita la preghiera di uno scolaro scritta sul muro della biblioteca del centro dei lavoratori marittimi di Felixstowe: “Metti al sicuro tutte le persone sulla nave in modo che possiamo avere tutto il cibo dalla nave che i marinai ci portano. Se gli altri paesi non fossero così buoni, non avremmo così tanto da mangiare. Grazie. Amen”. ◆ fas

John Lanchester è uno scrittore e giornalista britannico. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è Il muro (Sellerio 2020). Questo articolo è uscito sulla London Review of Books con il titolo Gargantuanisation.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1408 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati