Il libro Favole al telefono, dello scrittore per l’infanzia italiano Gianni Rodari (1920-1980), comprende il racconto La guerra delle campane, che comincia così: “C’era una volta una guerra, una grande e terribile guerra, che faceva morire molti soldati da una parte e dall’altra. Noi stavamo di qua e i nostri nemici stavano di là, e ci sparavamo addosso giorno e notte, ma la guerra era tanto lunga che a un certo punto ci venne a mancare il bronzo per i cannoni”. Questo non fermò “il nostro comandante”, che “ordinò di tirar giù tutte le campane dai campanili e di fonderle tutte insieme per fabbricare un grossissimo cannone: uno solo, ma grosso abbastanza da vincere tutta la guerra con un sol colpo. A sollevare quel cannone ci vollero centomila gru; per trasportarlo al fronte ci vollero novantasette treni. Lo Stragenerale si fregava le mani per la contentezza e diceva: ‘Quando il mio cannone sparerà i nemici scapperanno fin sulla luna’. Ecco il gran momento. Il cannonissimo era puntato sui nemici. Noi ci eravamo riempiti le orecchie di ovatta […]. Un artigliere premette un pulsante. E d’improvviso, da un capo all’altro del fronte, si udì un gigantesco scampanio: Din! Don! Dan! Noi ci levammo l’ovatta dalle orecchie per sentir meglio”.

Proprio così. Nessuna cannonata, solo un concerto di campane. Il generale nemico, che aveva avuto la stessa idea, ottenne lo stesso risultato. A quel punto i due comandanti “salirono sulle loro automobili e corsero lontano”. I soldati, senza più mezzi per uccidersi a vicenda, uscirono dalle trincee e si abbracciarono. “È scoppiata la pace!”, gridavano.

Una piccola casa editrice di Brooklyn ha pubblicato la prima edizione completa in inglese di Favole al telefono. I lettori anglofoni potranno scoprire perché Rodari è tanto amato in Italia

In Italia tutti conoscono Gianni Rodari, uno dei più amati autori di testi per l’infanzia. Negli Stati Uniti, invece, è praticamente uno sconosciuto. In questo paese nemmeno uno dei suoi trenta libri è mai stato pubblicato mentre Rodari era in vita. Nel Regno Unito ne uscì qualcuno e, se siete disposti a ipotecare la casa per rimediare i soldi, potete ancora metterci le mani sopra. L’altro giorno ho provato a comprare un’edizione britannica del 1976 di Novelle fatte a macchina. Amazon mi proponeva una copia con copertina rigida a 967 dollari più le spese di spedizione.

Ora le cose stanno cambiando. In occasione del centenario della nascita di Rodari, una piccola e intraprendente casa editrice di Brooklyn, Enchanted Lion, ha pubblicato la prima edizione completa in inglese di Favole al telefono, in una spumeggiante traduzione di Anthony Shugaar e con le illustrazioni di Valerio Vidali. Finalmente, anche se con decenni di ritardo, i lettori anglofoni potranno scoprire perché questo scrittore è tanto amato in Italia.

Gianni (Giovanni) Rodari nacque nel 1920 a Omegna, una tranquilla cittadina sulle rive del lago d’Orta, nell’Italia del nord. Suo padre era un fornaio. Gianni adorava suo padre. “Per me e per mio fratello, che ne eravamo ghiotti, egli curava ogni giorno in special modo una dozzina di panini di semola doppio zero, che dovevano essere molto abbrustoliti”, scriveva. Un altro ricordo è quello della sera in cui, durante un temporale, la famiglia vide dalla finestra un gattino “isolato tra le pozzanghere”. Il padre uscì per portarlo in salvo. Quando tornò, era “fradicio”. Rodari lo ricorda tremante, “che tenta invano di scaldarsi la schiena contro il suo forno. Morirà dopo sette giorni, di broncopolmonite”. Gianni aveva nove anni.

La madre si trasferì con i figli nella sua città di origine, Gavirate, vicino a Milano. Come racconta Vanessa Roghi nella sua biografia di Rodari, Lezioni di fantastica (Laterza 2020), Gianni adolescente sognava di partire per dedicarsi altrove a qualcosa d’interessante (forse la musica? Aveva studiato il violino, che suonava a matrimoni e altri eventi). Ma la famiglia aveva bisogno di soldi, così Rodari cominciò a insegnare nelle scuole elementari della zona. Scoprì di essere bravo a inventare storie per bambini e bambine, non tanto perché gli piacesse, avrebbe detto in seguito, ma perché era un modo per far stare seduti e attenti i suoi alunni. Nel tempo libero leggeva con voracità, soprattutto libri di filosofia e di politica. Nel 1940 l’Italia entrò in guerra. Rodari, che era di salute fragile, fu esonerato dal servizio militare. Durante la guerra, dopo che due suoi amici morirono in battaglia e suo fratello Cesare (quello con cui condivideva i panini) finì in un campo di prigionia tedesco, Rodari si unì alla resistenza e s’iscrisse al Partito comunista italiano.

Dopo la guerra cominciò a scrivere per l’Unità, il quotidiano del Partito comunista italiano. Pubblicò articoli su vari argomenti (sport, cronaca nera, arte) finché a un certo punto il giornale gli commissionò dei testi per bambini. Nel 1950 il partito lo trasferì a Roma affidandogli la direzione di un settimanale per ragazzi, il Pioniere, e Rodari cominciò a pubblicare libri.

Il contesto comunista in cui si sviluppò la sua attività letteraria traspare dal libro che poco dopo lo rese famoso, Le avventure di Cipollino, storia di un bambino-cipolla che guida una rivolta di ortaggi esasperati (Patatina, Pirro Porro, Ravanella e altri ancora) contro il tirannico principe Limone e il suo brutale braccio destro cavalier Pomodoro. Non stupisce che, in piena guerra fredda, il libro non sia uscito in inglese (Enchanted Lion spera di pubblicarne la traduzione nel 2022), come non stupisce che Rodari fosse invece molto apprezzato in Unione Sovietica, dove dalle Avventure di Cipollino furono tratti un cartone animato, un film e perfino un balletto. Il viso dolce e mite del protagonista era raffigurato su un francobollo russo, e quando nel 1979 l’astronomo sovietico Nikolaj Černych scoprì un nuovo asteroide, tra Marte e Giove, lo chiamò 2703 Rodari.

Con il tempo la fama di Rodari si estese oltre gli ambienti di sinistra e lo scrittore strinse amicizia con altri autori. Italo Calvino, che coltivava gli stessi interessi (favole tradizionali, favole nuove) lo ammirava e ne tesseva le lodi. Come molti autodidatti, Rodari diffidava però delle cerchie ristrette e frequentava soprattutto giornalisti. Nel 1960, dopo essere entrato nel catalogo di Giulio Einaudi, un editore molto rispettato e privo di affiliazioni politiche (aveva pubblicato Primo Levi, Cesare Pavese, Natalia Ginzburg, Calvino), Rodari cominciò ad attirare un pubblico più vasto. Nel 1970 gli fu assegnato il premio Hans Christian Andersen, una sorta di premio Nobel della letteratura per l’infanzia.

Favole al telefono, che risale al 1962, ha una cornice narrativa precisa. “C’era una volta il ragionier Bianchi, di Varese. Era un rappresentante di commercio e sei giorni su sette girava l’Italia intera, a est, a ovest, a sud, a nord e in mezzo, vendendo medicinali”. Il ragionier Bianchi aveva una figlia (come Rodari, che si era sposato nel 1953), e la bambina soffriva molto dell’assenza del padre. Così avevano stretto un patto. Ogni sera, prima che lei andasse a dormire, il padre la chiamava al telefono per raccontarle una storia. Le telefonate interurbane costavano parecchio e per questo le storie erano corte, ma meravigliose. Quando il signor Bianchi chiamava la figlia, scrive Rodari, “le signorine del centralino sospendevano tutte le telefonate per ascoltare le sue storie”.

Le settanta favole della raccolta illustrano il percorso artistico di Rodari. Alcune sono chiari esempi di propaganda dei suoi ideali. Rodari aveva vissuto ventitré anni sotto il fascismo e, come sottolinea Anthony Shugaar, il tema di molte delle favole è sostanzialmente “come non essere un fascista”. Il messaggio è proprio questo: non uccidetevi, e non date retta ai prepotenti che vi dicono di uccidere. Ma in altre favole si trasforma in qualcosa di più bizzarro. Nel Cacciatore sfortunato un bambino, Giuseppe, viene spedito dalla madre a cacciare una lepre da cucinare con la polenta per il matrimonio della sorella, che sarà il giorno dopo. Giuseppe scorge rapidamente una lepre. “Puntò il fucile, prese la mira e premette il grilletto. Ma il fucile disse: ‘Pum!’, proprio con voce umana, e invece di sparar fuori la pallottola la fece cadere per terra”. Subito dopo, “la lepre di prima ripassò davanti a Giuseppe, ma stavolta aveva un velo bianco in testa, e dei fiori d’arancio sul velo, e teneva gli occhi bassi, e camminava a passettini passettini. ‘Toh’, disse Giuseppe, ‘anche la lepre va a sposarsi’”. Sembra un quadro surrealista, divertente e inquietante al tempo stesso. Una lepre che si sposa, un fucile che parla: che sta succedendo?

A differenza dello scampanio nella Guerra delle campane, che usa lo stesso espediente comico, qui il suono inatteso è umano, ed è ciò che rende la favola così bizzarra. Questo tipo di trasposizione – da una modalità espressiva a un’altra – sarebbe diventato sempre più presente nei testi di Rodari. Nella Passeggiata di un distratto, un bambino di nome Giovanni perde pezzi del proprio corpo andando a fare una passeggiata. “S’incanta a guardare le vetrine, le macchine, le nuvole” e perde una mano. Poi vede un cane zoppo e, mentre gli si avvicina, perde il braccio. Quando torna a casa Giovanni ha perso entrambe le braccia, entrambe le orecchie e una gamba. “La sua mamma scuote la testa, lo rimette a posto” (i vicini le hanno riportato i pezzi mancanti) “e gli dà un bacio. ‘Manca niente, mamma? Sono stato bravo, mamma?’. ‘Sì, Giovanni, sei stato proprio bravo’”. È una favola dolce, ma anche terrificante. I giovani lettori potrebbero chiedersi: quando usciamo di casa, dobbiamo stare attenti a non perdere i piedi?

franco matticchio

Fin dai primi anni d’insegnamento, Rodari non smise mai di pensare all’educazione dei bambini, dedicando all’argomento testi, conferenze e interviste. Nel 1972, per sua grande gioia, fu invitato a discutere per quattro giorni con cinquanta insegnanti a Reggio Emilia. La città era un centro importante del movimento per l’educazione della prima infanzia nell’Italia del dopoguerra, allora molto vivace. L’anno seguente Rodari pubblicò Grammatica della fantasia, frutto delle conferenze di Reggio Emilia. Ecco l’inizio del primo capitolo: “Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati alla vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra di loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia”.

Amo molto questa immagine, con le sue interazioni oscure, umide e segrete, la sua fanghiglia e le sue molecole. Per Rodari è una metafora della conoscenza. I bambini, secondo lui, imparano non facendosi infarcire il cervello di cose (la tabella delle moltiplicazioni, i sonetti del Petrarca), ma rispondendo, quasi involontariamente, a una cosa vista, a un’idea, spesso semplicemente a una parola, assorbendola, spostando altri contenuti mentali per farle spazio e creando così qualcosa di nuovo.

L’interesse di Rodari per l’educazione era senz’altro legato alla povertà che aveva conosciuto durante l’infanzia. Persona modesta, Rodari evocava non tanto le sue difficoltà quanto quelle di altre persone, per esempio sua madre, che aveva cominciato a lavorare a sette anni, prima in una cartiera, poi in una filanda, infine come domestica. Quando Rodari cominciò a insegnare, anche i suoi alunni erano poveri. D’inverno alcuni non potevano venire a scuola perché non avevano le scarpe. Molti parlavano in dialetto e lui temeva che questo potesse farli sentire a disagio.

Per Rodari era importante non solo che i suoi alunni frequentassero la scuola, ma anche che sviluppassero l’immaginazione. Raccontava di essere stato colpito da una frase di Novalis, letta quand’era ragazzo: “Se avessimo anche una Fantastica, come una Logica, sarebbe scoperta l’arte d’inventare”. Un concetto che Rodari collegava all’arte visionaria della sua epoca, in particolar modo al surrealismo. Delle tante idee che componevano il surrealismo, la più importante, per Rodari, era anche la più semplice: l’unione degli opposti, l’avvicinare un mondo onirico a un minuzioso realismo. Il surrealismo durò a lungo, dagli anni venti del novecento fino al secondo dopoguerra inoltrato, perché era un movimento in sintonia con quell’epoca folle e disastrosa. Un esempio classico è il film Miracolo a Milano (1951) di Vittorio De Sica, in particolare il finale, in cui decine di senzatetto, dopo la distruzione della loro baraccopoli, spiccano il volo nel cielo della città cavalcando delle scope. L’Italia del dopoguerra era molto, molto povera, come si capisce dagli altri film di De Sica dell’epoca (Sciuscià, Ladri di biciclette, Umberto D) e da Paisà e Roma città aperta di Roberto Rossellini. Era anche un paese umiliato. Molti artisti erano felici di esplorare territori nuovi. Il surrealismo gli offriva un quadro della realtà che li circondava (la bruttezza, la violenza, la rovina), intrecciata ai ricordi di un passato più felice: gli alberi, gli orologi da taschino, le piazze, le belle donne.

Tra i surrealisti della prima ora c’erano molti marxi­sti. Nella Grammatica della fantasia Rodari scrive di una giornata passata a bere vino con amici in un villaggio nei pressi di Kazan, vicino al Volga. Il gruppo aveva visitato un’attrazione del luogo: una casa di legno i cui mobili erano disposti in modo particolare. Sotto ogni davanzale c’era una grossa panca per consentire ai bambini dei proprietari di un tempo, che preferivano entrare e uscire dalle finestre anziché dalla porta, di farlo senza rompersi l’osso del collo. Quella, per Rodari, era una lezione di comunismo. Rodari e i suoi amici vennero poi a sapere che in quella casa aveva abitato il nonno di Lenin. Non sappiamo se per la sua filosofia politica fosse ispirato dai mobili della casa dei nonni, ma di certo Rodari attinse il suo pensiero critico dalla dottrina marxi­sta, interrogando e scrutando ogni cosa su cui scriveva, irradiandola di leggera ironia o di umorismo. Spiegava di aver ereditato in parte questo approccio dai critici formalisti russi del primo novecento, in particolare Viktor Šklovskij, che parlava di ostranenie, straniamento. In occidente si tende ad associarlo al controllo del pensiero, eppure, per quanto possa sembrare incredibile, alla fine dell’ottocento il marxismo era considerato dai suoi esponenti il massimo esempio di liberazione del pensiero.

franco matticchio

Rispecchiando l’interesse di Rodari per l’immaginazione dei bambini, alcune delle Favole al telefono (come anche il sasso nello stagno della Grammatica della fantasia) esplorano angoli remoti dell’insolito. Due hanno come protagonista una bambina che si chiama Alice Cascherina e cade spesso in posti dove nessuno penserebbe di cercare una bambina scomparsa. Nella prima favola che la vede protagonista, un giorno Alice cade “nel cassetto delle tovaglie e dei tovaglioli”. Un’altra volta il nonno la trova dentro una sveglia. Poi la deve ripescare in una bottiglia. “Avevo sete, ci sono cascata dentro”, spiega la bambina. Nella seconda, Alice si tuffa in mare. Voleva diventare una stella marina, “invece cadde in una conchiglia che stava sbadigliando, ma subito richiuse le valve, imprigionando Alice e tutti i suoi sogni. ‘Eccomi di nuovo nei guai’, pensò la bimba. Ma che silenzio, che fresca pace, laggiù e là dentro. Sarebbe stato bello restarci per sempre, vivere sul fondo del mare come le sirene di una volta”. Chi mai avrebbe voglia di vivere dentro una conchiglia, accanto a un mollusco rosa e molliccio, nel freddo pungente del mare? Alice. Poi però pensa ai genitori, a quanto la amano e a quanto sentirebbero la sua mancanza. A malincuore apre la conchiglia, sguscia fuori e torna a casa. Che io sappia nessun altro scrittore prima di Rodari ha mai descritto un’esperienza simile.

Troviamo di peggio, o di meglio. Nella favola La fuga di Pulcinella, una marionetta riesce a tagliare tutti i fili che le “legavano la testa, le mani e i piedi”. Scappa dal teatro di marionette e si nasconde in un giardino poco distante, dove sopravvive mangiando fiori. Quando arriva l’inverno i fiori non ci sono più, ma Pulcinella non ha paura. “Pazienza”, dice, “morirò qui”. In primavera un garofano cresce proprio nel punto in cui riposa. Sotto terra Pulcinella pensa: “C’è qualcuno più felice di me?”. Qui, come in Alice casca in mare, due realtà si trovano fianco a fianco, sorprese ma non infastidite da questa vicinanza. Sotto terra o in una conchiglia è sicuramente buio e ci si sente soli, ma che pace!

Il linea con il suo orientamento politico, l’opera di Rodari è attraversata da una ricca vena utopistica. “Bisogna che il bambino faccia provvista di ottimismo e di fiducia, per sfidare la vita”, sosteneva Rodari. In una favola piovono confetti da una nuvola. In un’altra un cosmonauta racconta che, sul pianeta x213 “la prima colazione si fa così: suona la sveglia, tu ti svegli, acchiappi la sveglia e la mangi in due bocconi”. Su un altro pianeta, Mun, c’è una “macchina per dire le bugie”: “Per ogni gettone si potevano ascoltare quattordicimila bugie. La macchina conteneva tutte le bugie del mondo: quelle che erano già state dette, quelle che la gente stava pensando in quel momento, e tutte le altre che si sarebbero potute inventare in seguito. Quando la macchina ebbe recitato tutte le bugie possibili, la gente fu costretta a dire sempre la verità. Per questo il pianeta Mun è detto anche il pianeta della verità”.

Ma c’è sempre qualcosa che non quadra. Anche un bambino potrà dirvi che Mun non è un buon nome per un pianeta e che nessuno dovrebbe provare a mangiare una sveglia. E a proposito della nuvola che faceva piovere confetti, Rodari scrive che tutti aspettarono il suo ritorno, invano. L’umorismo non è strampalato come in Edward Lear né elaborato come in Lewis Carroll (Rodari amava entrambi). Favole al telefono racchiude anche una bella dose di sarcasmo. In una favola, il naso di un signore scappa (Rodari cita esplicitamente Gogol). Alla fine viene rintracciato, riportato indietro e riattaccato al viso del suo proprietario “Ma perché sei scappato? Cosa ti avevo fatto?”, gli chiede l’uomo. “Il naso lo guardò di traverso, arricciandosi tutto per il disgusto, e disse: ‘Senti, non metterti mai più le dita nel naso. O almeno tagliati le unghie’”. Rodari apprezzava anche l’umorismo scatologico. Il re Mida, una volta annullato l’incantesimo che gli fa trasformare tutto in oro, non ridiventa subito normale. Per un breve lasso di tempo, tutto quello che tocca si trasforma in “cacca di mucca”. Queste storie riscuotevano senz’altro molto successo tra i bambini e le bambine che ancora ricordavano la loro educazione al vasino, ma è probabile che divertissero anche gli adulti.

C’è chi si è chiesto se la scrittura di Rodari, così arguta e particolare, non sia più adatta agli adulti che ai bambini, ma i piccoli a quanto pare la adorano. Prima di pubblicare un libro, Rodari spesso lo collaudava con delle classi elementari, segnandosi i passaggi che scatenavano le risate dei bambini. Credo che, come Alice nel paese delle meraviglie, i testi di Rodari facciano sentire i bambini intelligenti. Rodari una volta disse che non bisognava cercare di capire se i suoi libri erano per bambini o per adulti, bastava considerarli “libri, tout court”.

La politica accompagnò Rodari per tutta la vita. Visitò l’Unione Sovietica per la prima volta nel 1951, tornandoci poi altre quattro volte per ricevere premi, partecipare a giurie e, sicuramente, perché sentiva di dover fare la sua parte. Il comunismo gli aveva dato i suoi princìpi morali, senza però gravare sulla spensieratezza del suo spirito. Ma secondo Vanessa Roghi, Rodari alla fine fu deluso dal comunismo. E non fu l’unico. Fatti come le purghe negli anni trenta o il famoso discorso di Chruščëv (che, tre anni dopo la morte di Stalin, ne elencò i crimini) spinsero molti in occidente a ritirare il loro appoggio all’Unione Sovietica. Chi non si scoraggiò allora lo fece in seguito, dopo la violenta repressione della rivoluzione ungherese del 1956 o il soffocamento della primavera di Praga nel 1968.

Molti marxisti occidentali sconfessarono apertamente il sistema sovietico, ma non Rodari. Era stato comunista fin dall’adolescenza e non era pronto ad abbandonare il partito, almeno non pubblicamente. Rimase fedele anche nei cosiddetti anni di piombo, cominciati alla fine degli anni sessanta, quando l’Italia fu travolta dagli attentati politici (uno degli episodi più terribili fu la morte di Aldo Moro, un politico di centro che aveva guidato il paese per cinque volte come presidente del consiglio, e che nel 1978 fu rapito e ucciso dall’organizzazione neomarxista Brigate rosse). Gli italiani che hanno conosciuto quel periodo ne parlano ancora con emozione. Nel 1979, quando Rodari fece il suo ultimo viaggio in Unione Sovietica, trovò poco da elogiare nel paese in cui un tempo aveva riposto tante speranze. Roghi cita il suo diario di viaggio, in cui deplora la venalità dell’Unione Sovietica e l’ipocrisia dei suoi giovani intellettuali. “Un fatto è sicuro”, scriveva. “Non sono comunisti”.

Eppure gli ammiratori di Rodari dovrebbero ringraziare l’Unione Sovietica. Ispirandolo e poi deludendolo, lo rese libero di creare in un ambito (le cosiddette favole per bambini) dove non era costretto a fare i conti con la sua amarezza. E così si spinse oltre, meravigliosamente sbrigliato. Nel 1978 Einaudi pubblicò l’ultimo romanzo di Rodari, C’era due volte il barone Lamberto, una satira brillante che prendeva di mira capitalisti e rivoluzionari (è stato tradotto in inglese nel 2011 con il titolo Lamberto, Lamberto, Lamberto). Nel libro un certo barone Lamberto, che ha novantaquattro anni e teme di essere prossimo alla morte, scopre che, secondo i faraoni dell’antico Egitto, “colui il cui nome è sempre pronunciato resta in vita”. Decide di provare. Ordina ai suoi domestici di ripetere senza sosta il suo nome in alcuni microfoni piazzati nella soffitta del suo castello. Alla fine, malgrado l’intervento di una banda di criminali, che lo prende in ostaggio, il barone sopravvive.

Rodari no. Nel 1980 gli trovarono un aneurisma nella gamba. Fu necessario un intervento chirurgico di sette ore, che in un primo momento sembrò riuscito. Tre giorni dopo, Rodari morì all’improvviso per un arresto cardiaco. Aveva solo cinquantanove anni. Spero che la sua anima riposi in pace sul pianeta della verità. ◆ fs

Joan Acocella è una giornalista statunitense. Ha scritto libri che parlano di danza, letteratura e psicologia. Questo articolo è uscito sul New Yorker il 14 dicembre 2020 con il titolo A theory of fantasy, discovering Gianni Rodari. Copyright Joan Acocella, 2020

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Questo articolo è uscito sul numero 1401 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati