Ho avuto la fortuna di viaggiare sulle strade secondarie degli Stati Uniti nell’età dell’oro delle attrazioni stradali. L’anno in cui me ne innamorai fu il 1971, quando insieme a mio marito Michael (ci eravamo appena sposati ed entrambi ci eravamo laureati da poco) percorremmo in lungo e in largo il paese a caccia di caffetterie, ristorantini e griglierie di provincia, raccogliendo materiale per un libro che si sarebbe intitolato Roadfood, cibo di strada.

All’epoca recensire quei locali a conduzione familiare, sconosciuti ai più, era strano. Gli appassionati di cucina – quelli che oggi vengono chiamati foodies, termine che in quegli anni non era ancora usato – erano interessati solo a mangiare nei templi gastronomici delle grandi città statunitensi o all’estero. Ristoranti costosi, che servivano piatti francesi o del Norditalia, con camerieri che brandivano giganteschi macinapepe.

Non ci volle molto perché ci rendessimo conto che mangiare e viaggiare ci piaceva più di quello che avevamo studiato. E così, da veri bastian contrari con una macchina e pochi dollari in tasca, decidemmo che la cucina americana semplice aveva bisogno di paladini. Per tre anni viaggiammo alla ricerca di quei posti. Percorrevamo trecento chilometri al giorno e consumavamo (in media) dieci pasti al giorno. Quando non stavamo guidando o mangiando, la nostra attenzione era attirata dalle stranezze ai bordi della strada.

Per chi è troppo giovane per sapere cos’è un’attrazione lungo la strada, permettetemi di spiegarlo. A differenza dei parchi divertimento realizzati dalle aziende d’intrattenimento come Disney World, una vera attrazione stradale era il frutto dell’immaginazione di persone visionarie, di solito tipi stravaganti che vivevano nelle zone rurali. Animate da una vera passione o da un’ossessione, invitavano il pubblico a entrare per vedere l’opera a cui avevano dedicato la propria vita.

Il museo di Roy Rogers, Victorville (Lennox McLendon, Ap/Lapresse)

Anche Michael e io eravamo due tipi stravaganti impegnati in una ricerca bizzarra, perciò eravamo il pubblico ideale e restavamo ipnotizzati da quelle opere. Per di più ci offrivano una magnifica possibilità di sgranchirci le gambe e far riposare lo stomaco. Erano come segni di punteggiatura durante il viaggio. Un momento per tirare il fiato, per fermarci, per entrare nel sogno bizzarro di qualcun altro.

Un’attrazione avvincente riusciva ad accendere l’entusiasmo dei viaggiatori a parecchi chilometri di distanza. All’epoca i cartelloni pubblicitari erano tanti e costavano poco, e chi era in auto cominciava a leggere inviti seducenti – “Ammira le sirene viventi!”, “Faccia a faccia con un autentico Bigfoot”, “Guarda la vera automobile in cui è morta Jayne Mansfield” – molto prima di arrivare a destinazione. A differenza dei cartelloni sgargianti, le attrazioni di solito erano umili strutture fatte a mano che sorgevano in mezzo al nulla.

Il gomitolo di spago più grande del mondo a Cawker City, in Kansas (Franck Fotos/Alamy)

Alcune erano a un tiro di schioppo da un’uscita dell’autostrada, altre richiedevano lunghe deviazioni per raggiungere luoghi che neanche comparivano sulle mappe. Questo succedeva prima di internet e dei navigatori gps, perciò non avevamo un assistente vocale a dirci dove andare. Ci lanciavamo e, mentre la civiltà svaniva, pregavamo di non andare incontro alla sorte, ormai diventata un cliché, di tanti personaggi dei film horror. Eravamo felicissimi quando il proprietario/appassionato dell’attrazione ci dava il benvenuto invitandoci a entrare. Pagavamo pochi spiccioli e potevamo accomodarci.

I gioielli della corona

Essendo cresciuta a Manhattan, a pochi passi dal Guggenheim, dal Met e dal Frick, sapevo bene com’è fatto un museo. Ma probabilmente è proprio per questo che ero così affascinata da quelle collezioni fatte in casa. Erano esattamente il contrario dei grandi templi della cultura.

Un’installazione dedicata agli ufo a Bowman, in South Carolina (Franck Fotos/Alamy)

Il gomitolo di spago più grande del mondo (Cawker City, Kansas), la rara trota con la pelliccia (South Otselic, New York) e il cimitero dei cani per la caccia al procione (Cherokee, Alabama) sono ricordi ancora freschi e intatti nella mia mente. L’entusiasmo è contagioso. Forse mi innamorai così profondamente di quelle curiosità anche per il calore trasmesso dai loro creatori. Le attrazioni più personali erano gestite da individui con profili psicologici “peculiari”. Una terminologia clinica ricorrerebbe a termini come ossessivi, accumulatori compulsivi, o semplicemente svitati. Ma in quale manuale sui disturbi mentali si poteva trovare la diagnosi per una collezione di ottocento stracci unti usati (Davenport, Iowa) o per l’albero che possiede se stesso (Athens, Georgia)?

Tra tutti i tipi di attrazione stradale, i parchi di dinosauri sono i miei preferiti. Se avete visto gli scheletri dei veri giganti preistorici al museo di storia naturale di New York o al Field museum di Chicago, dovrete ricalibrare il cervello per le versioni stradali.

La statua del Cristo sui monti Ozark a Eureka Springs, in Arkansas (Beau Brewski, Alamy)

Con Michael ci imbattemmo nel Nash-ional dinoland a South Hadley, in Massachusetts, nel 1981. Ormai eravamo viaggiatori esperti, ma non abbastanza da restare indifferenti alla vista di Dinoland. A tutt’oggi resta la mia attrazione stradale preferita. Come ci arrivammo non riesco a ricostruirlo con precisione. Forse c’era un cartello o un qualche tipo di insegna, però ricordo che era solo una casa fatiscente alla periferia di una cittadina del New England. Davanti al portone era parcheggiato un pick-up arrugginito con la scritta “Dino delivery wagon” dipinta maldestramente a mano sullo sportello.

Era inevitabile che la casa e il veicolo avessero un’aria cadente, perché Carlton S. Nash aveva aperto il posto nel 1930. La sua figura resta avvolta nel mistero. Nessuno sa per quale motivo divenne ossessionato dai dinosauri. Non era un paleontologo, solo un uomo con un piccolo appezzamento di terra che secondo lui conservava le impronte confuse di quello che poteva essere un T. rex o un brontosauro.

Non essendo uno scienziato non approfondì la sua scoperta, e del resto forse non gli importava neppure: l’impronta fangosa bastò ad alimentare la sua vocazione a vita come “dinologo stradale”.

Nessuno sa perché il signor Nash era ossessionato dalle creature preistoriche

Il Nash-ional dinoland aveva tutti i requisiti di un’attrazione stradale perfetta: trasandato, segnato dalle intemperie, con un’accozzaglia di oggetti sconclusionati in vendita. L’edificio pendeva da un lato e avrebbe avuto bisogno di una mano di vernice, le persiane rotte penzolavano dalle finestre. All’interno c’era un negozio caotico pieno zeppo di cose da ammirare e comprare. C’era un “tavolino delle occasioni” con trilobiti vecchi di 500 milioni di anni (“tre per un dollaro”), un “ventriglio di dinosauro pietrificato” e un vecchio cartello della benzina Dino. Sulle pareti c’erano foto sbiadite del generale Patton, di Dale Carnegie e del regista Fritz Lang (tutti appassionati di dinosauri).

Ma i gioielli di questa corona paleolitica sul bordo della strada erano le decine di dinosauri fatti a mano da Nash. Più di venti, erano disposti tutt’intorno all’edificio. A differenza degli esemplari dei musei, non avevano un solo osso né uno scheletro. I mostri di Nash erano fatti di cartapesta, blocchi di creta, cemento e qualunque cosa avesse sotto mano. Per Nash non erano creature fantastiche ma veri dinosauri, etichettati come brontosauri, triceratopi e T. rex, anche se erano così tozzi e strani che perfino i più feroci sembravano spaventosi quanto una confezione di latte. Il più grande mi arrivava alla vita.

Dinosaur gardens, Ossineke (Alpha stock/Alamy)

Nelle mani del signor Nash quelle creature erano più che realistiche, erano fantasmagoriche. Esageratamente orribili, alcune sembravano delfini intrappolati in una lavatrice, altri montanari impazziti che avevano gettato via gli abiti da lavoro e si erano fatti crescere artigli e zanne. Uno più assurdo dell’altro, erano l’opera di un artista ossessivo che non aveva nessuna intenzione di rispettare le regole. Avrei potuto guardarli in eterno senza stancarmi. Dinoland ha chiuso nel 2019, dopo la morte del signor Nash.

Tutto già visto

Se i dinosauri erano un tema dominante delle attrazioni stradali, Gesù non era da meno. Dal Maine alla California, si trovavano crocifissi torreggianti, statue di Cristo da solo, con i discepoli, con Maria o a volte con compagni inspiegabili come un chihuahua o stivali da cowboy. A differenza dei dinosauri in miniatura, quando si tratta di Gesù stradali più grandi sono, meglio è. Come la figura enorme che incombe su Rio de Janeiro, lungo le strade statunitensi si trovano ancora molte apparizioni cristiane in grande formato. Il secondo crocefisso più grande del mondo (alto quasi diciassette metri) è a Indian River, nel Michigan, ma è superato dal Cristo dei monti Ozark, a Eureka Springs, in Arkansas, una sfavillante statua bianca alta sette piani, realizzata in un bizzarro stile brutalista particolarmente spigoloso.

L’albero che possiede se stesso, Athens (Jeffrey Greenberg, Uig/Getty)

C’è un collegamento tra dinosauri e Gesù? Quando si tratta di attrazioni stradali, la risposta è sempre sì. I Dinosaur gardens di Ossineke, nel Michigan, sono la più riuscita fusione di questi due tipi di attrazioni. Lì si può ammirare un brontosauro a grandezza naturale di trenta tonnellate, con una scalinata che porta nella sua gabbia toracica. Alla fine delle scale, si arriva in un santuario a strisce bianche e rosa dedicato a Gesù. Il luogo di culto è chiassosamente decorato con quadri del Signore in caschetto biondo accanto a crocefissi barocchi e versetti della Bibbia dipinti.

Oggi le attrazioni stradali sono quasi completamente scomparse. Forse le famiglie viaggiano ancora in auto, ma è difficile pensare che la promessa di vedere il formaggio più grande del mondo (Neills­ville, Wisconsin) o la hall of fame del pollame (Beltsville, Maryland) possa distogliere gli sguardi da uno schermo dell’iPad. Molte attrazioni hanno chiuso per mancanza di visitatori, altre hanno accettato le offerte degli operatori immobiliari. Poca gente ormai viaggia sulle strade secondarie, e le autostrade sono costellate di fast food e catene di motel. Le cartoline e i souvenir appartengono al passato: nessuno vuole più un cucchiaio decorativo per ogni stato. Ci sembra di aver già visto i monumenti nazionali in fotografia. La gente si interessa alle cascate del Niagara o al Grand Canyon solo quando qualcuno ci casca dentro.

Mi mancano le attrazioni stradali. Gli enormi gomitoli di spago, Gesù nello stomaco di un dinosauro, le lepri con le corna (tipici animali del folclore statunitense) e le trote con la pelliccia sono svaniti nella nebbia del tempo. Mi mancano soprattutto gli scorci inattesi nella vita di personaggi famosi. Visitando il museo dedicato al cantante Roy Rogers e alla moglie Dale Evans nella polverosa Victorville, California, lo confrontai con l’impeccabile e curato museo dedicato a Gene Autry, un altro musicista country, a Los Angeles. Quello di Autry era immacolato, pieno di selle con rivestimenti d’argento e rari reperti dei pionieri. Anche quello di Rogers aveva qualche sella elegante, ma esponeva con orgoglio anche un tubetto di crema solare che il cantante aveva comprato nel 1955, un opossum male impagliato che Rogers aveva investito per sbaglio e un rasoio elettrico rotto usato in tournée da un musicista della band. Solo uno di questi due musei continua a tornare nei miei sogni a occhi aperti. Un ultimo ricordo: il malconcio opossum divideva la teca in plexiglas con Trigger, il cavallo palomino di Roy. Perché? Perché no? Questi sono i ricordi più autentici d’America. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 106. Compra questo numero | Abbonati