Diversi anni fa, a una festa, ho incontrato un uomo che diceva di orientarsi a Londra con una bussola. Stufo di seguire le indicazioni sul telefono, si era comprato lo strumento, elegante e impermeabile, e lo aveva fissato al manubrio della bici. Prima di uscire controllava l’indirizzo, poi partiva e s’infilava tra strade e viuzze. Diceva che quel metodo lo aveva riorientato in una città che, a forza di percorrerla, gli era diventata estranea. Aveva scoperto un nuovo senso: una consapevolezza spaziale che gli permetteva di leggere i flussi nascosti della metropoli, come un navigatore polinesiano che segue le rotte dell’oceano guidato solo dal vento. Era stato così convincente che, una volta a casa, avevo ordinato anch’io una bussola per la bici. Mi vedevo già come un navigatore urbano, libero da convenzioni e app. Invece mi sono perso. Più volte. Malamente. La bussola mi ha portato in vicoli ciechi, lungo canali, in parchi chiusi e perfino contromano. Ero frustrato. E quasi sempre in ritardo. Qualunque intuito mistico quell’uomo avesse risvegliato alla festa, in me era rimasto ben addormentato. Dopo qualche settimana sono tornato al telefono, un po’ mortificato e molto più obbediente.

Eppure la bussola conserva un fascino romantico. È approssimativa nel modo giusto, irrequieta e impulsiva. Sembra viva, cosa che non si può dire di Google maps, anche perché è uno strumento che segue le leggi della natura. Ogni ago di bussola sulla superficie terrestre si muove in risposta all’oceano di ferro e nichel liquido, spesso 2.200 chilometri, che giace sotto i nostri piedi e genera il magnetismo del pianeta. Questo strato è il nucleo esterno, che ribolle sotto un mantello solido. Messo in movimento dal calore e dalla rotazione terrestre, genera enormi correnti convettive a spirale ed elettriche, che a loro volta creano campi magnetici allineati più o meno con l’asse di rotazione della Terra. Così il pianeta si comporta come una gigantesca calamita, attraendo tutto ciò che è magnetizzato, compresa la bussola.

Ogni ago di bussola si muove in risposta all’oceano di ferro e nichel liquido, spesso 2.200 chilometri, che giace sotto i nostri piedi e genera il magnetismo del pianeta

Da tempo gli abitanti della Terra sfruttano questo fenomeno: organismi di ogni tipo, dai batteri alle piante, dai rettili agli insetti, percepiscono il geomagnetismo e gli rispondono. Alcuni animali allineano istintivamente il corpo al campo magnetico terrestre nei momenti di quiete: succede ai bovini e ai cervi quando pascolano o si riposano, e anche ai cani quando defecano. Altri adattamenti funzionali sono più evidenti. Nei becchi degli uccelli migratori è stato trovata della magnetite, un minerale che agisce come una bussola interna, permettendogli di percepire l’intensità e l’orientamento del campo magnetico terrestre, un po’ come gli esseri umani sentono la direzione del vento. Tracce di magnetite sono state individuate anche nel cervello umano. Uno studio del 2018 ha rilevato che si concentra soprattutto nel cervelletto e nel tronco encefalico, le aree più antiche dal punto di vista evolutivo. Ma l’idea che anche gli esseri umani percepiscano il magnetismo terrestre resta controversa.

Non serve necessariamente un nuovo senso per sfruttare il magnetismo: basta la semplice curiosità. Talete di Mileto pensava che la capacità della magnetite di attrarre certi metalli fosse la prova che la materia potesse avere un’anima. Plinio il Vecchio racconta una leggenda di un pastore con scarpe chiodate di ferro che rimane bloccato mentre cammina su una collina ricca di minerali magnetici. E intorno al secondo secolo avanti Cristo, in Cina, qualcuno pensò di scolpire con la magnetite un mestolo che, poggiato sulla ciotola, permetteva al manico di galleggiare in linea con l’asse nord-sud del pianeta. Gli strumenti di questo tipo in origine erano utilizzati per la divinazione, l’astrologia e la geomanzia, e per orientare le costruzioni in armonia con l’energia della Terra. Poi, con la miniaturizzazione della tecnologia e l’introduzione di aghi di ferro magnetizzati prima immersi in liquido e poi bilanciati su perni, il suo potenziale come strumento di navigazione diventò evidente. Le bussole si diffusero in Asia e in Europa per vie incerte. Intorno al 1190, il poeta e abate inglese Alexander Neckam fornì la prima testimonianza scritta della bussola in Europa nel suo De naturis rerum. Racconta che

quando i marinai erano in mare, e quando, in caso di tempo nuvoloso, non potevano più contare sulla luce del sole, o quando il mondo era avvolto dall’oscurità della notte e non sapevano in quale direzione procedesse il corso della nave, toccavano il magnete con un ago che girava in tondo fino a quando, finito il movimento, la sua punta non si orientava verso nord.

In realtà una bussola non punta davvero verso nord: si allinea con l’asse magnetico nord-sud del pianeta, che si discosta di qualche grado da quello geografico. Il polo nord magnetico, infatti, si sposta ogni anno di decine di chilometri intorno al circolo polare artico, trascinato dai movimenti caotici del nucleo esterno. Dire che la bussola “punta a nord” è solo una convenzione, come dimostra il nome delle prime bussole cinesi: zhinan, cioè “oggetto che punta a sud”. È qui che la nostra idea dei quattro punti cardinali come concetti fissi o naturali comincia a vacillare. Come scrive Jerry Brotton nella sua storia della bussola, ci troviamo di fronte al paradosso di direzioni che “sembrano reali e naturali”, ma in realtà sono “invenzioni culturali”, radicate più nell’identità, nell’ideologia e nella teologia che nella geografia.

Ma solo fino a un certo punto. Il campo magnetico terrestre non è l’unico aspetto della cardinalità che si possa considerare di origine naturale. L’idea delle quattro direzioni principali è molto diffusa e forse ha origine nell’egocentrica struttura del corpo umano: davanti, dietro, sinistra e destra. Brotton suggerisce che il quattro, come più piccolo numero composto (cioè divisibile per un numero che non è né uno né se stesso), trasmette un senso di completezza: una totalità riflessa nella geometria del quadrato e della croce, ognuna definita da quattro punti, che forse attirò i primi cartografi. Qualunque sia la spiegazione, l’idea delle quattro direzioni principali è antichissima. Naram-Sin, sovrano della dinastia accadica nel ventitreesimo secolo avanti Cristo, ci fornisce la prima testimonianza con il suo titolo di Re dei quattro angoli del mondo. I suoi contemporanei ci hanno lasciato anche la più antica mappa con quattro direzioni cardinali: la mappa di Gasur o di Nuzi. Le etichette però non indicavano punti, ma quadranti, ispirati ai quattro venti che soffiavano sulla Mesopotamia: il vento di nordest delle montagne, quello di sudovest del deserto, il vento di nordovest, fresco e regolare, e quello umido e imprevedibile di sudest, conosciuto come il “vento demone”. Come spesso accade con la cardinalità, le direzioni si caricano di significati che mescolano natura e cultura, meteorologia ed etnografia. Il vento desertico di sudovest, Im-mart-tu, prende nome dai nomadi amorrei dell’odierna Siria e Palestina, e portava con sé il maltempo. Il vento di nord-ovest, Im-mir, apprezzato dai contadini per il suo effetto rinfrescante, era invece associato a fertilità, rinnovamento, prosperità e temperanza. Gli accadi forse fornirono anche il primo esempio di stereotipo legato al sud come luogo d’instabilità. “Ogni cultura ha i suoi meridionali”, scriveva Susan Sontag, “gente che lavora il meno possibile, e preferisce ballare, bere, cantare, azzuffarsi, uccidere i coniugi infedeli”. In Mesopotamia non era un’identità, ma una descrizione dei venti imprevedibili che soffiavano da sudest, portando con sé le piogge dal golfo Persico.

Un altro schema direzionale che sembra avere radici naturali è l’asse est-ovest della Terra, tracciato dal passaggio quotidiano del Sole. In molte culture antiche ha simboleggiato il percorso della nascita, della morte e del rinnovamento. Il culto del Sole e la venerazione dell’orizzonte orientale sono stati diffusi per millenni, ma queste pratiche sono diventate problematiche con l’avvento dell’ebraismo e del cristianesimo. Come osserva Brotton, “la teologia monoteista fece sì che l’est finisse presto al centro di un ambiguo conflitto simbolico: da un lato si condannava il culto del sole, dall’altra se ne esaltava il ruolo nella creazione”. Il libro di Ezechiele, per esempio, condanna l’idolatria di coloro che adorano “con le spalle voltate al tempio e la faccia a oriente” eppure nella Genesi il giardino dell’Eden si trova a est, ed è da lì che Adamo ed Eva vengono allontanati dopo la cacciata. Il Vangelo di Matteo dice ai fedeli di guardare a oriente per la seconda venuta: “Poiché come il fulmine esce dall’est e brilla fino all’ovest, così sarà anche la venuta del figlio dell’uomo”. Questa simbologia intreccia geografia e tempo: il cammino quotidiano del Sole diventa metafora non solo della breve vita umana, ma della grande narrazione cristiana di giudizio e redenzione, l’orologio che compie un solo giro.

Questa predilezione per i punti cardinali si è radicata anche nell’architettura. Le prime chiese cristiane venivano costruite in modo che altare, fedeli e sacerdote guardassero ad orientem (letteralmente, verso l’alba), una scelta che sarebbe poi diventata oggetto di controversie teologiche. Durante la riforma, la chiesa d’Inghilterra collocò gli altari a nord o fece in modo che il sacerdote si posizionasse sul lato nord della mensa eucaristica, invece di rivolgersi a est. Nell’ottocento il movimento di Oxford tornò a celebrare ad orientem come parte di un più ampio tentativo di recuperare l’eredità cattolica dell’anglicanesimo. La questione arrivò perfino in parlamento, osserva Brotton, quando nel 1874 il Public worship regulation act, la legge che regolava l’esercizio del culto, bandì le celebrazioni ad orientem insieme ad altri elementi bollati come “ritualismo”. La legge fu poi abrogata nel 1965.

Anche l’islam cercò di distinguersi dal culto del Sole stabilendo la qibla, la direzione verso cui rivolgersi in preghiera, codificata nel 623 come la posizione della Kaaba alla Mecca. Ma per il cattolicesimo, l’idea di unire fede e cosmologia rimane troppo potente. Come scrisse papa Benedetto XVI nel 2000, “pregare rivolti a oriente è una tradizione che risale alle origini. È un’espressione fondamentale della sintesi cristiana tra cosmo e storia”.

Il potere devozionale del Sole che sorge rese l’est la direzione principale per i primi cartografi, che rimase tale fino al medioevo. Le mappe più significative di quest’epoca erano le mappæ mundi, come il mappamondo di Ebstorf (distrutto dai bombardamenti alleati durante la seconda guerra mondiale), la mappa di Sawley (l’esempio più antico sopravvissuto realizzato in Inghilterra) e la mappa mundi di Hereford (disegnata intorno al 1300). Queste mappe erano più religiose che topografiche, poiché non esploravano solo lo spazio, ma anche il tempo. Erano orientate con l’est in alto, indicato come il luogo del giardino dell’Eden, da cui la storia cristiana scendeva verso il basso come i granelli in una clessidra, concentrandosi nel centro della mappa, la città di Gerusalemme, per poi diffondersi ancora una volta verso i devoti eredi del Vangelo in Europa. Questo simbolismo temporale ha esercitato un fascino irresistibile per molti. “La storia del mondo viaggia da est a ovest”, scrisse Hegel, “perché l’Europa è assolutamente la fine della storia, l’Asia, invece, il principio”. Il mito hegeliano dell’est come l’infanzia della storia “infantilizzò ampie porzioni della Terra e dei suoi popoli”, scrive Brotton, “giustificando la colonizzazione e la schiavitù di gran parte dell’Africa, dell’Asia e delle Americhe”. Fu questa la visione contro cui Edward Said reagì con la sua rielaborazione dell’est in Orientalismo (1978) come “la fonte delle civiltà e delle lingue d’Europa, il suo concorrente culturale, e una delle sue immagini più profonde e ricorrenti dell’Altro”. Senza l’est, come si definirebbe l’ovest?

Ma il simbolismo della direzione è infinitamente flessibile: per ogni associazione apparentemente immutabile esiste un’interpretazione opposta. Come punto finale del viaggio quotidiano del Sole, l’ovest è altrettanto facilmente associato al declino e alla morte quanto alla realizzazione (gli antichi egizi talvolta definivano i defunti come “occidentali” per questa ragione). Dopo la futile carneficina della prima guerra mondiale, Oswald Spengler scrisse Il tramonto dell’occidente, dichiarando che il suo suolo era “metafisicamente esaurito” e che sarebbe caduto nel cesarismo per poi collassare. Il lavoro di Spengler è stato criticato per il suo feticismo del sangue e del destino, ma il suo successo dimostra la forza di semplici miti in grado di orientare il mondo e i suoi popoli.

Data la potenza dell’asse est-ovest, nessuno avrebbe mai pensato che l’orientamento verso est del mondo potesse essere modificato, eppure è accaduto, almeno nelle mappe. Brotton identifica diversi motivi per cui il nord è diventato primus inter pares tra i quattro punti cardinali. La questione nasce dalla cultura greco-romana, in particolare dalla cartografia del filosofo e cartografo alessandrino Tolomeo, che sapeva che il mondo era una sfera e pensava che il modo migliore per proiettarlo fosse in forma di griglia. Su una mappa del genere, le linee verticali della longitudine convergono naturalmente verso due poli (la scelta di mettere il nord in alto sembra essere stata una questione di consuetudine). Come gli accadiani prima di loro, i greci organizzarono la cardinalità in base alla meteorologia piuttosto che al magnetismo, di solito identificando otto o dodici direzioni cardinali in base ai venti prevalenti, primo tra tutti il vento del nord, il borea. Nell’emisfero settentrionale, la stella polare, Polaris, aiutava anche la navigazione prima delle bussole. Per i navigatori anglosassoni, Polaris era conosciuta come la scip-steorra, o “stella della nave”, ed era associata alla vergine Maria nel suo ruolo di guida dell’umanità nel cammino verso Cristo. Era la stella maris, “stella del mare”. “Ecco la stella polare!”, scrisse Neckam. “Il marinaio di notte dirige la rotta con essa, poiché resta immobile sull’asse fisso del cielo che gira, e Maria è come la stella polare”. Con l’importanza crescente della bussola per il commercio, la guerra e l’esplorazione, questi precedenti portarono piloti e cartografi a privilegiare il nord rispetto al sud, e questo orientamento fu consolidato a partire dal periodo medioevale grazie alla colonizzazione europea e al commercio globale.

Sul piano etimologico, i termini inglesi per nord, est, sud e ovest derivano dalla volontà del primo imperatore del sacro romano impero, Carlo Magno (748-814), che li standardizzò a partire da radici proto­indoeuropee. Abbiamo north (nord) dal protoindoeuropeo nórto-s, che significa basso o sinistro, in relazione alla direzione di chi si trova rivolto verso l’alba. East (est) proviene da austo-s, che significa “splendere”, con un riferimento particolare alla luce dell’alba. Sund (sud) proviene da sú-n-to-s, che si riferisce al Sole stesso, e nello specifico alla sua posizione a mezzogiorno nell’emisfero nord, cioè a sud. E oëst (ovest) potrebbe derivare dal protoindoeu­ropeo uestos, con vari significati legati alla sera, incluso il rosso (come il sole che tramonta), o dal greco hesperos che significa sera o stella della sera. Ancora una volta, la cosmologia guida la car­dinalità.

Le dense stratificazioni di significato associate a ogni direzione cardinale esistono ancora? Brotton conclude il suo studio indicando l’anno in cui il regno della bussola è arrivato al termine: il 2008, con il lancio dell’iPhone e la creazione del punto blu, il segnaposto fisso nelle app di mappe con cui ci orientiamo ora. “Nel nostro secolo digitalizzato”, scrive Brotton, “ora ci sono cinque direzioni: nord, sud, est, ovest e il punto blu online, che sei tu”. Le mappe di carta hanno ceduto il passo al punto, che ora “ha preso il sopravvento, soppiantando le direzioni della bussola che, per molti, sono diventate irrilevanti. Con gli occhi incollati a quella pallina blu tremolante, passiamo sempre meno tempo di viaggio osservando il terreno fisico attraverso cui ci muoviamo”. Si percepisce una perdita implicita: quella del ragionamento spaziale fondamentale per l’apprendimento, la consapevolezza e l’attenzione al mondo che ci circonda. Però Brotton è più ottimista riguardo alla perdita rispetto ad altri che hanno scritto sull’argomento: sostiene che mentre le direzioni cardinali erano derivate dalla cosmologia e dal geomagnetismo, la loro applicazione pratica è stata oscurata dal loro carico ideologico. L’associazione di nord, sud, est e ovest con valori politici e culturali, e la loro connessione con identità in evoluzione, hanno fatto da tempo superare alle nostre mappe la semplice geografia. ◆ svb

James Vincent è un giornalista e scrittore britannico. Questo articolo è una recensione di Four points of the compass. The unexpected history of direction di Jerry Brotton (Allen Lane 2024). È uscito sul giornale letterario britannico London Review of Books con il titolo “Behold the pole star”.

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Questo articolo è uscito sul numero 1613 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati