Fin dal primo incontro, il conduttore televisivo Andrej Malachov l’aveva avvertita: non sarebbe mai tornata alla vita di prima. “Diventerai ambasciatrice dei diritti delle donne, contro la violenza”, le aveva detto nello studio dove si girano le puntate del programma russo Prjamoj efir (In diretta). Margarita Gračëva non l’avrebbe mai immaginato prima della mattina dell’11 dicembre 2017, quando suo marito l’ha portata nel bosco e le ha amputato le mani. Ma dalla prima volta che è comparsa in tv non è più tornata indietro.
Ha ripetuto centinaia di volte i dettagli della sua storia, che ha preso forme diverse nel racconto dei mezzi d’informazione: semplificata e sintetizzata nei notiziari; sviscerata nei dibattiti sulla necessità di una legge contro la violenza domestica in Russia; trasformata in due documentari realizzati per il programma Dok-Tok della conduttrice Ksenija Sobčak, e nel libro autobiografico intitolato Felice senza le mani, scritto da Gračëva insieme alla madre Inna Šejkina.
Negli studi televisivi, nel programma online del giornale Novaja Gazeta e nelle innumerevoli interviste, Gračëva ha sempre raccontato con grande precisione quello che è successo. La mattina dell’11 dicembre 2017 il marito Dmitrij Gračëv l’ha portata in un bosco, l’ha fatta inginocchiare, le ha legato i polsi con un laccio emostatico per non farla morire dissanguata, ha preso un’accetta, le ha amputato le mani, l’ha caricata in macchina, l’ha portata all’ospedale di Serpuchov ripetendo “Che adrenalina!”, e l’ha lasciata al pronto soccorso.
Passo dopo passo
Gračëva ha i capelli castani, la voce bassa, le guance rotonde e gli occhi vivaci. Non fa trapelare le emozioni. Racconta di come la polizia è riuscita a trovare nel bosco tre pezzi della sua mano sinistra e della fortuna che ha avuto con le condizioni atmosferiche: grazie alla temperatura intorno allo zero, la mano non si era congelata e non era andata in necrosi, e sono riusciti a rimetterla insieme e a riattaccargliela. Il suo palmo sinistro, piccolo, sfregiato, un po’ gonfio e con la pelle di un rosa visibilmente più scuro rispetto al polso, non si piega completamente e ha perso la sensibilità. Al posto della mano destra, che non sono riusciti a salvare, ha una protesi bianca e nera, che non deve essere bagnata, il che complica anche le azioni più semplici.
Ha dovuto battersi per la sua autonomia, passo dopo passo, nelle piccole cose: non può abbottonarsi i vestiti, ma ha imparato di nuovo a guidare la macchina; non può lavare i piatti, ma riesce a cambiare la lettiera del gatto. Ci mette quaranta minuti a tagliare l’insalata, ma pulisce la casa regolarmente, d’altronde con due figli non si può fare altrimenti.
Gračëva ormai considera tutto questo parte della sua vita, come il matrimonio, il diploma, la nascita dei due figli quasi coetanei e il lavoro nella sezione pubblicitaria del giornale Serpuchovskie Vesti. Sorride spesso, ma quando si parla di violenza domestica si rabbuia. È diventata un punto di riferimento per le vittime e riceve regolarmente richieste di aiuto da donne di tutta la Russia. A tutte invia i contatti di avvocati e centri di sostegno psicologico. Non si lascia coinvolgere. Molte persone le fanno gli auguri, la lodano per il coraggio, la tenacia e la fiducia nel futuro, ma altre l’accusano di farsi solo pubblicità. È stata criticata e insultata quando ha pubblicato delle foto scattate in uno studio televisivo, con indosso un lungo gilè di pelle, truccata e pettinata con cura e con un cerchietto con le orecchie da gatta sulla testa.
La sua attività di portavoce delle donne vittime di violenza domestica la impegna molto, soprattutto quando si trova a discutere con politici, personaggi pubblici e funzionari. Ricorda con irritazione una di queste conversazioni, con il deputato Vitalij Milonovyj: “È uno che non va per il sottile. Ha detto tutto come da copione. Che una legge per prevenire la violenza domestica distruggerebbe le famiglie. Che la moglie deve sopportare tutto. È una specie di retaggio del passato: se ti prendono a botte vuol dire che ti amano, tu sopporta, non c’è niente di male”.
Il caso Gračëva ha dimostrato a tutta la Russia che gli abusi, le aggressioni e gli omicidi non avvengono solo nelle famiglie degli alcolizzati e che le donne non si arrendono a certe violenze maschili. Ma come è riuscita a superare il trauma, a ottenere l’attenzione dei mezzi d’informazione e a diventare il volto della lotta contro la violenza domestica in Russia?
Inna Šejkina si trasferì da Omsk a Serpuchov, un centinaio di chilometri a sud di Mosca, nel 1986, quando le fu assegnato un posto nella fabbrica locale come esaminatrice di macchinari elettrici. Si sposò. Nacquero una figlia, Margarita, e un figlio. Poi divorziò in modo sereno.
Negli anni novanta la fabbrica chiuse, il lavoro in città scarseggiava. Un giorno Šejkina sentì che cercavano voci femminili per lavorare alla radio e si candidò. Le dissero che la sua voce non era abbastanza bassa, ma le proposero un lavoro come corrispondente. Dalla radio passò alle riviste e poi al canale televisivo locale Otv-Serpuchov, la cui redazione si trova in via John Reed. In tutta la Russia ci sono tre vie che portano il nome del giornalista statunitense autore delle cronache della rivoluzione d’ottobre, morto a Mosca di tifo nel 1932: ad Astrachan, a Serpuchov, dove Inna Šejkina ha passato la giovinezza e ha cresciuto sua figlia Margarita, e a San Pietroburgo, dove Margarita Gračëva si è trasferita l’autunno scorso.
Inna Šejkina si trovava proprio in via John Reed a Serpuchov quando sua figlia è scomparsa. Le ricerche sono cominciate quasi subito: sapevano tutti del suo divorzio complicato, una volta il marito le aveva anche fatto una scenata in ufficio. Gračëva aveva detto a un collega che se avesse ritardato al lavoro di un’ora, molto probabilmente le era successo qualcosa. E gli aveva dato il numero di targa della macchina di famiglia.
Niente da nascondere
I primi anni di matrimonio erano stati tranquilli. Gračëva si era sposata quando frequentava ancora l’università. Nelle foto del matrimonio sorride con un abito bianco ricamato che le lascia le spalle scoperte, i capelli ondulati e le mani perfettamente curate. All’inizio la coppia viveva nell’appartamento della nonna del marito, poi si erano trasferiti in una casa lasciata a Gračëva da sua nonna. Quando litigavano, lei cercava sempre di riportare la pace: scendeva a compromessi, tranquillizzava il marito. Era convinta che ci si sposa una volta e per sempre. In un paio di occasioni il marito aveva minacciato di ucciderla se avesse scoperto che lo tradiva, ma sembrava uno scherzo. E comunque Gračëva riteneva il tradimento inammissibile.
Dopo quasi cinque anni Dmitrij Gračëv aveva cominciato a trattare la moglie freddamente e nell’estate del 2017 Gračëva si era resa conto che tra loro non c’era più dialogo, ognuno mangiava per conto proprio, i conti erano separati (l’asilo e i regali di compleanno per i figli li pagava da sola). Il marito non s’interessava più a lei e si era chiuso nel suo guscio. Alle sue domande rispondeva con irritazione, tornava tardi dal lavoro e quando era a casa passava ore al computer.
Quando lei aveva avviato le pratiche per il divorzio, lui aveva cominciato ad avere pensieri ossessivi su presunti tradimenti. La seguiva ovunque, l’aveva perfino obbligata a sottoporsi alla macchina della verità. E lei aveva accettato: non aveva niente da nascondere e voleva mantenere “rapporti normali” per via dei bambini. Una volta, quando già si stavano separando, il marito l’aveva picchiata. Un mese prima della tragedia l’aveva portata in un bosco e l’aveva minacciata. Gračëva aveva sporto denuncia, ma la polizia aveva archiviato la pratica.
L’11 dicembre 2017 Gračëva non si è presentata al lavoro. Qualche ora dopo Inna Šejkina era davanti al primario dell’ospedale di Serpuchov e gli chiedeva se si poteva salvare almeno una mano della figlia. Un paio di giorni dopo era nello studio televisivo di Andrej Malachov. Šejkina, che nelle foto di famiglia appare sempre ben vestita e curata, in trasmissione era visibilmente stanca e aveva la voce tremante per l’indignazione. La madre di Dmitrij Gračëv, anche lei ospite in studio, ripeteva con un tono monotono che i due giovani avevano un matrimonio felice e che Gračëva non era mai stata minacciata.
Al nostro appuntamento in un piccolo ristorante al primo piano del centro commerciale di Serpuchov, Šejkina parla sottovoce, dolcemente. Saluta la cameriera e parla di Serpuchov: la città ha quasi settecento anni, sullo stemma ha un pavone, il lavoro c’è, ma pagano molto meno che a Mosca. Šejkina da diversi anni si occupa delle notizie locali e ha realizzato servizi anche dall’ospedale dove Dmitrij Gračëv quella mattina ha lasciato sua figlia. Per lei non è stato facile denunciare quello che era successo. Si è decisa a farlo perché voleva che Dmitrij Gračëv ricevesse una condanna esemplare. Pensa che non sia giusto tirarsi indietro quando è il proprio turno. È normale avere paura, ma bisogna avere il coraggio di parlare. Quando una storia diventa pubblica, spiega Šejkina, non appartiene più a chi l’ha vissuta. L’unico modo per riprenderne il controllo è uscire allo scoperto: “Parlare con i giornalisti è considerato di cattivo gusto. Invece è giusto farlo, altrimenti lo farà qualcun altro, e a modo suo”.
I giornali hanno dato informazioni scorrette sulla storia di Gračëva, hanno accumulato giudizi, ipotesi e ognuno ha detto la sua su come si sarebbe potuta evitare la violenza, sulla possibilità che ci fosse stato un tradimento.
Oggi anche Šejkina si batte per i diritti delle donne vittime di violenza domestica. Ed è stata lei a convincere la figlia a scrivere un’autobiografia. Continuerà ad andare in tv fino a quando le cose non cambieranno: “Ancora non è stata approvata una legge contro la violenza domestica, non sono stati aperti centri di aiuto per le vittime, le forze dell’ordine si disinteressano del fenomeno. È come sbattere la testa contro un muro. Continuano a mutilare, a uccidere. E intanto le autorità sostengono che il problema è ingigantito dai giudici e dalle femministe”.
“Il caso di Gračëva ha mostrato che la violenza familiare stava prendendo forme mostruose e che bisognava fare qualcosa”
Šejkina versa il tè con attenzione e continua: “Io e mia figlia siamo completamente cambiate. Quando vivi un’esperienza simile poi non sei più la stessa. Ma tutti tutelano solo i propri interessi e le vittime restano indifese”.
La pena più dura
A difendere gli interessi di Gračëva in tribunale è stata l’avvocata Mari Davtjan. Ha poco più di trent’anni, tratti gentili, lavora a Mosca e ha dedicato la carriera ai diritti delle donne. È tra le autrici del progetto di legge contro la violenza domestica e fa parte dei gruppi di lavoro del parlamento per la stesura della legge. Inoltre dirige il Centro per la difesa delle vittime della violenza domestica presso il consorzio delle associazioni non governative femminili.
Gračëva e Davtjan hanno scelto la strategia della massima visibilità per ottenere la pena più dura per Dmitrij e il risarcimento più alto per Margarita. In molti pensavano che Gračëv non sarebbe stato condannato a più di cinque anni. Invece gli hanno dato quattordici anni e mezzo. “Sono certa che è stato merito della risonanza pubblica del caso e dell’attenzione dei mezzi d’informazione”, dice Davtjan.
All’inizio la commissione d’inchiesta ha chiuso gli occhi su molti dettagli. “Per esempio ha ignorato il fatto che Gračev aveva sequestrato la moglie due volte”, spiega l’avvocata. Sequestrare e minacciare la moglie non è un fatto raro in Russia, ma quasi sempre le autorità si rifiutano di avviare processi. “Ci capita spesso di dover convincere le autorità che un marito non ha il diritto di portare la moglie dove vuole lui senza il suo consenso”, prosegue Davtjan.
Durante il processo, la procura ha insistito perché Dmitrij Gračëv non perdesse la potestà genitoriale: anche se ha amputato le mani alla moglie, era pur sempre un bravo padre. Anche questo succede spesso, spiega Davtjan: “Il tribunale e i servizi sociali seguono la logica che siccome il reato è stato compiuto contro la madre, i figli non devono essere coinvolti”. Alla fine a Gračëv è stata tolta la patria potestà e le cose hanno cominciato a cambiare.
Contro la famiglia
In Russia molte donne, bambini, ma anche anziani e alcuni uomini, subiscono regolarmente violenze da parte di genitori o parenti. Nelle famiglie russe si tortura, si alzano le mani, si sfregia, si fanno pressioni psicologiche, si rompono arti e ci si fa a pezzi. Quasi un terzo dei russi, il 31 per cento della popolazione, ha avuto a che fare con la violenza domestica, come denuncia il sondaggio del Centro Levada, un istituto statistico non governativo. Secondo Radio Svoboda, 16 milioni di donne hanno subìto violenza da un familiare nel 2016. Negli ultimi anni se ne è cominciato a parlare sui mezzi d’informazione russi e questo ha spinto un numero crescente di persone a protestare pubblicamente.
Tra le storie più note ci sono quelle delle sorelle Chačaturjan, che nel luglio 2018 hanno ucciso il padre per legittima difesa; di Jana Savčuk, picchiata a morte nel centro di Orel; e di Anna Ovčinnikova, strangolata dal marito e poi abbandonata in un bosco dentro una valigia.
Il disegno di legge contro la violenza domestica non è ancora stato approvato. La deputata Oksana Puškina, tra le autrici del progetto, ha più volte ricevuto minacce. Gli ortodossi e i conservatori sostengono che una legge simile rovinerebbe la famiglia russa. Nel 2019 il movimento ortodosso Sorok sorokov ha organizzato proteste in tutto il paese. Il capo del movimento, Andrej Kormuchin, barba folta e sorriso furbo, ha parlato di una legge “contro la famiglia” e “contro lo stato” e ha detto che “serve a distruggere la società tradizionale”. Durante il programma Skaži Gordeevoj (Dillo a Gordeeva), del portale Meduza, Olga Letkova, a capo del gruppo di lavoro per la difesa del bambino, ha affermato che le donne sono tutelate a sufficienza dallo stato.
Puškina sottolinea che in Russia è sempre più difficile contrastare la violenza domestica:“Con l’adozione degli emendamenti costituzionali dello scorso luglio il nostro paese diventerà ancora più conservatore. E in una società di stampo conservatore-paternalistico non ci si pone il problema della violenza domestica, il fenomeno in pratica non esiste. Vince la logica del più forte”.
Però Puškina è convinta che le persone si sono rese conto del problema. A opporsi a una legislazione in difesa delle donne è ormai una minoranza. Nonostante le resistenze non ci si deve arrendere, ribadisce. “Nessuno ha detto che sarebbe stato facile. Bisogna andare oltre, lavorare e unire le forze e prima o poi la politica andrà nella direzione giusta. Il paese comincia a non accettare più la violenza domestica, presto o tardi l’opinione della maggioranza della popolazione dovrà essere considerata”. Secondo lei la società russa ha già capito: “Dalle ricerche dei due principali istituti di sondaggi – quello statale Vtsiom e l’ong Centro Levada – emerge che tra il 70 e il 79 per cento dei russi è a favore della nostra legge. Però c’è una minoranza arrogante che rema contro”.
Puškina è convinta che il caso Gračëva abbia costretto molte persone a considerare seriamente il problema: “Sono rimasta sconvolta da questa storia, come tanti altri. Anche ora, a due anni e mezzo di distanza, non riesco a farmene una ragione. Le vicenda ha mostrato che la violenza familiare stava prendendo forme mostruose e che bisognava fare qualcosa”.
Nel suoi panni
Ksenija Sobčak, che ha girato due documentari su Gračëva, sostiene che l’enorme risonanza è dovuta proprio alla brutalità senza precedenti: “Le storie di violenza più comune sono molto diffuse e non impressionano particolarmente il pubblico. Molte persone hanno avuto a che fare con denti rotti o commozioni cerebrali causate dalle percosse e pensano che sia una cosa normale. Ma il caso di Gračëva è diverso”.
◆ Secondo una ricerca commissionata dalla camera bassa del parlamento russo, circa una famiglia russa su dieci ha vissuto episodi di violenza domestica. Il 70 per cento delle persone intervistate ha subìto o subisce violenze: nell’80 per cento dei casi si tratta di donne e il 35 per cento di loro non si rivolge alla polizia per vergogna o sfiducia. La risposta delle autorità è debole e la polizia spesso si rifiuta di avviare indagini in seguito alle denunce. La legge non riconosce la violenza domestica come un reato.**
◆Nell’autunno del 2019 un gruppo di attiviste, tra cui l’avvocata **Mari Davtjan, ha proposto un disegno di legge contro la violenza domestica, sostenuto dalla deputata Oksana Puškina. Il 29 novembre la camera alta del parlamento ha pubblicato una bozza della legge, ma le promotrici hanno affermato che era molto diversa dalla versione originale. Nonostante questo, è stata avviata una campagna contro la proposta di legge, che ha raccolto 33.500 firme. Una petizione in suo sostegno, invece, ha raggiunto 900mila firme. Open democracy, Human rights watch
Andrej Malachov la pensa allo stesso modo: “È una cosa sorprendente. Lavoro nel settore dell’informazione e so che la violenza domestica è molto diffusa. Ma a un certo punto la sofferenza della società, fino a quel momento latente, si riversa su una persona. Avviene in senso sia negativo sia positivo, come nel caso Gračëva. Lo spettatore e la società si rispecchiano in lei. Una bella ragazza, giovane, sorridente anche nel letto d’ospedale. Abbiamo visto le immagini della famiglia felice su Instagram, una facciata per mostrare che tutto era perfetto. Tutti hanno capito e si sono messi nei suoi panni”. E ancora più importante è stata la reazione di Gračëva. “Ha trovato dentro di sé la forza per continuare a vivere, amare ed essere felice. Non bisogna essere forti per tagliare le mani a una donna, bisogna esserlo per superare un trauma del genere”, commenta Puškina.
È un giorno di luglio a San Pietroburgo, ci si può sedere solo all’aperto a causa delle restrizioni dovute alla pandemia. Piove e non ci sono tavolini disponibili. In fila ci sono coppie, madri con i figli e una signora con l’ombrello.
Margarita Gračëva è venuta sola all’appuntamento. Ma non può scendere dall’auto perché la sua protesi, che costa qualche milione di rubli, potrebbe rovinarsi bagnandosi. Gračëva è vestita come migliaia di altre ragazze di una qualunque città della Russia: una maglietta nera con l’immagine stampata di una volpe, jeans chiari strappati e uno zainetto sdrucito. Sulla mano sinistra si vedono i resti di gommalacca verde.
Gračëva vive in affitto in un piccolo appartamento a San Pietroburgo con i due figli, Dima e Danil, e il gatto Tigran, che le è stato regalato l’anno scorso quando ha lasciato la casa della madre. Ha deciso di trasferirsi per liberarsi dai pettegolezzi e ritrovare se stessa. A Serpuchov era troppo conosciuta. Inoltre desiderava essere autonoma: a quattordici anni ha cominciato a lavorare, a diciassette viveva nello studentato universitario, poi si è sposata e quasi subito ha dato alla luce il primo figlio. Tornare a casa dei genitori non è stato facile. Soprattutto da invalida.
Gračëva non riesce a trovare un lavoro stabile, collabora come freelance e fa affidamento sui risparmi messi da parte. La protesi è pesante e non riesce a portarla a lungo: “All’inizio andava riparata ogni due mesi e anche ora si rompe se la uso ogni giorno”. Le protesi bioniche sono molto fragili, durano nel migliore dei casi tre anni. Ma negli ultimi due anni la protesi di Gračëva si è rotta sei volte. Ogni volta bisogna mandarla a riparare in Germania e aspettare da due a sei mesi. La riparazione, inoltre, non è sempre gratuita. Anche la sanificazione è un problema: “Se la protesi si bagna è una catastrofe. A casa la tratto con uno spray. Fuori mi aiutano i bambini”.
Niente di male
I due figli compaiono spesso nelle foto su Instagram mentre giocano o cucinano: “Sono completamente autonomi. Questo non vuol dire che li costringo a svolgere i lavori di casa, ma sono di grande aiuto”. Per ogni figlio lo stato versa un contributo di 1.200 rubli (circa 13 euro) al mese. Lei riceve una pensione d’invalidità di ventimila rubli (poco più di 200 euro), il massimo previsto. “Il mio ex marito mi dovrebbe dare 200 rubli (2,23 euro) di alimenti, una cifra ridicola, ma li ho ricevuti solo per due mesi, evidentemente in carcere non c’è lavoro”.
Dima e Danil hanno creduto a lungo che la madre fosse stata vittima di un incidente stradale, una versione della storia suggerita dallo psicologo. Poi con il tempo alcuni fatti sono venuti alla luce. “I bambini sanno una parte della verità”, dice Gračëva. “Sanno che il loro papà è in prigione e hanno visto il libro”.
Gračeva si lascia andare sul sedile dell’auto. Guarda davanti a sé: “Mi offende il fatto che niente cambi. È difficile. Stiamo qui a discutere e non andiamo da nessuna parte”. Una volta Dmitrij Gračëv le ha scritto una lettera chiedendole di “aspettare”. Ogni tanto pensa a cosa succederà quando lui uscirà di prigione. Qualcuno le ha consigliato di emigrare, ma lei si rifiuta: non ha fatto niente di male, perché dovrebbe andarsene? Però si sente indifesa: il progetto di legge contro la violenza domestica è fermo, gli ordini restrittivi non esistono e nessuno può impedire a chi ha commesso violenze di cercare vendetta una volta uscito di prigione.
Rabbuiandosi, Gračëva dice che probabilmente il problema della violenza domestica in Russia sarà affrontato davvero solo quando il marito uscirà di galera e la ucciderà. ◆ ab
L’editor dell’articolo in lingua originale è Egor Mostovščikov. articolo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1396 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati