Per capire i capricci del potere a Washington, bisogna concentrarsi sui posti dove s’incontrano i potenti. Quando Theodore Roosevelt era in ascesa, passava spesso al Metropolitan Club, il ritrovo dell’élite aristocratica. Lì, insieme ad altri soci, preparò la guerra ispano-americana del 1898. Le menti più intellettuali preferivano il Cosmos Club, che ancora oggi espone i ritratti dei soci che hanno vinto il premio Nobel (36, finora). La giudice della corte suprema Ruth Bader Ginsburg frequentava il City Tavern Club, un posto modesto e un po’ consunto, che prevedeva una quota mensile di circa duecento dollari. Il club ha chiuso nel 2024 per mancanza di fondi.

Lo scorso inverno, quando Donald Trump è tornato alla Casa Bianca, la sua squadra ha creato un circolo pensato su misura per lui. Il figlio maggiore, Donald jr., ha dato vita a una società esclusiva chiamata Executive branch, in cui si entra solo su invito con una quota d’ingresso che può arrivare fino a mezzo milione di dollari. Tra i fondatori c’è David Sacks – imprenditore della Silicon valley e consigliere speciale dell’amministrazione per l’intelligenza artificiale e le criptovalute –, che ha spiegato: “Volevamo creare qualcosa di nuovo, più alla moda e in linea con Trump”. La sede non è ancora stata annunciata, ma Sacks ha promesso che il circolo sarà un rifugio per spiriti affini, che non dovranno incontrare “i giornalisti delle fake news” o chiunque altro “non conosciamo e di cui non ci fidiamo”.

L’Executive branch, che per stemma ha un’aquila e le iniziali EB, è un punto di riferimento per tutte le persone del mondo Make America great again (Maga) che finanziano e traggono profitto dalle iniziative del presidente. Molti soci sono noti per la loro vicinanza a lui più che per meriti imprenditoriali. È il caso di Zach e Alex Witkoff, investitori del settore delle criptovalute e figli di Steve Witkoff, inviato di Trump in Medio Oriente; e di Omeed Malik, che ha fatto entrare Donald jr. nella sua società d’investimento, la 1789 Capital, e ad aprile è entrato nel consiglio di amministrazione della Fannie Mae, una società che eroga mutui ed è controllata dal governo.

Ad aprile Sacks ha organizzato una festa d’inaugurazione all’Occidental, uno storico ristorante vicino alla Casa Bianca dove un tempo si discuteva della crisi dei missili a Cuba davanti a tortini di granchio e braciole di maiale. Il locale era agghindato in stile Trump e ricordava un matrimonio sfarzoso del New Jersey: caviale all’ingresso, aree riservate per ospiti d’eccezione e frutti di mare disposti su una scultura di ghiaccio con le iniziali del club.

La lista degli invitati comprendeva un numero impressionante di funzionari della nuova amministrazione. Lobbisti del settore farmaceutico e finanziario si sono ritrovati fianco a fianco con il segretario di stato, il ministro della giustizia, il direttore dell’intelligence e i presidenti della Federal trade commission, della Federal communication commission e della Securities exchange commission (le autorità che vigilano rispettivamente sulla concorrenza nei mercati, sulle comunicazioni e sulla borsa).

Fuori da Washington la nascita dell’Executive branch è stata accolta con meno entusiasmo. Chris Sununu, ex governatore del New Hampshire che ha votato due volte per Trump ma che ogni tanto lo critica, ha definito il club “una truffa per fare soldi”. Su X un utente ha scritto: “Chi ha sostenuto il Maga si sente preso in giro”. Marcy Kaptur, deputata democratica dell’Ohio, ha evocato gli eccessi di Nerone, definendo il club “un ritratto grottesco di miliardari al potere”.

Cena costosa

Storicamente i miliardari al potere hanno sempre cercato di non apparire in questo modo. Ma la seconda amministrazione Trump ha sdoganato in modo insolitamente sfacciato la promiscuità tra politica e profitti. I documenti ufficiali rivelano che il fondo per la cerimonia d’inaugurazione del presidente ha raccolto la cifra record di 250 milioni di dollari da amministratori delegati e grandi donatori. Il contributo più grande, di cinque milioni, è arrivato da Pilgrim’s Pride, una grande azienda che lavora la carne di pollo. Pochi mesi dopo l’insediamento il segretario all’agricoltura ha accontentato il settore, promettendo meno controlli sulla salmonella e tagli alla “burocrazia superflua”. Nel frattempo Trump aveva già licenziato il direttore dell’Office of government
ethics, che vigila sulla trasparenza nel governo, e il capo dell’Office of special counsel, un’agenzia federale indipendente che si occupa di proteggere i dipendenti pubblici da pratiche scorrette.

Anche i lobbisti più navigati sono rimasti sorpresi dalle nuove regole per comprare influenza. A dicembre si poteva riservare un posto a tavola per una cena a Mar-a-Lago, la tenuta di Trump in Florida, facendo una donazione da un milione di dollari alla Maga inc., un comitato elettorale che raccoglie fondi per le elezioni di metà mandato del 2026. Più di recente un incontro privato con il presidente è stato messo in vendita per cinque milioni. Il ritorno sull’investimento è incerto, mi ha detto un funzionario addetto alle relazioni del governo: “E se Trump è di cattivo umore? Non hai idea di dove finiranno quei soldi”. Un altro lobbista ha definito lo scambio “roba da mafia del Queens”.

Trump ha cominciato a ricavare profitto dal suo potere così velocemente che la macchina politica non riesce a stargli dietro. Dopo che il Qatar gli ha offerto in regalo un jet da 400 milioni di dollari, Dan Pfeiffer, ex direttore della comunicazione alla Casa Bianca, l’ha definita “la cosa più sfacciatamente corrotta nella storia dei presidenti degli Stati Uniti”. Neanche ventiquattr’ore dopo una società di criptovalute della famiglia Trump ha messo all’asta una cena con lui in uno dei suoi circoli di golf. La famiglia ha guadagnato due volte: dalle commissioni (320 milioni di dollari per lei e i suoi soci) e dall’aumento di valore delle monete digitali del marchio Trump, salite a 4,1 miliardi di dollari prima ancora che l’asta fosse completata.

Il presidente ha ricevuto omaggi e favori da molti miliardari. Jeff Bezos, fondatore di Amazon e proprietario del Washing­ton Post, un tempo diceva che “sarebbe stato imbarazzante interferire” nelle decisioni editoriali del giornale. A febbraio ha ordinato ai responsabili della sezione delle opinioni – che avevano criticato Trump – di concentrarsi sulla promozione delle “libertà personali e dei liberi mercati”. Amazon ha investito quaranta milioni di dollari in un documentario su Melania Trump, la moglie del presidente, che dovrebbe incassare 28 milioni di dollari dall’affare.

Washington, 19 gennaio 2025 (Andres Kudacki)

Mark Zuckerberg, amministratore delegato della Meta (la società che controlla Instagram, Facebook e WhatsApp), è stato a cena a Mar-a-Lago e poco dopo ha smantellato il sistema di fact-checking sui suoi social network e ha chiuso una causa con Trump accettando di pagare 25 milioni di dollari. Ma nessun imprenditore si è legato a Trump quanto Elon Musk. Dopo aver speso quasi trecento milioni per sostenere il candidato repubblicano in campagna elettorale, è stato per qualche mese una figura chiave nella nuova amministrazione, con il compito di riformare il governo e la burocrazia.

In poche settimane il flusso di denaro intorno alla Casa Bianca ha travolto ogni argine alla corruzione rimasto nella legge e nella cultura americane. I grandi finanziatori naturalmente sono sempre esistiti in politica. Ma dieci anni fa nessuno al mondo aveva più di cento miliardi di dollari. Oggi secondo Forbes almeno quindici persone hanno superato quella somma. Gli ultraricchi hanno messo le mani su una fetta di ricchezza perfino superiore a quella accumulata dai grandi imprenditori di fine ottocento e gli studiosi che si occupano di storia della disuguaglianza faticano a trovare precedenti simili. Vent’anni fa Jeffrey Winters, professore di scienze politiche alla Northwestern university, ha cominciato a tenere un corso intitolato “Oligarchi ed élite”. All’epoca i suoi studenti lo consideravano un argomento esotico. Uno aveva protestato: “Gli oligarchi sono in Russia, in America ci sono i ricchi”.

Ma con il passare degli anni Winters ha notato un cambiamento nel loro modo di pensare, soprattutto a partire dal 2010, dopo che la corte suprema ha eliminato i limiti alle donazioni per le campagne elettorali. “La vera sfida è diventata convincere gli studenti che gli Stati Uniti sono ancora una democrazia”, ha raccontato Winters. “Sostengono che gli oligarchi controllano tutto ciò che conta davvero”.

Il governo di pochi

Oggi molti statunitensi esprimono due sentimenti apparentemente opposti nei confronti dei ricchi: risentimento e aspirazione. In un sondaggio condotto dalla società Harris, il 59 per cento degli intervistati ha dichiarato che i miliardari stanno rendendo la società più ingiusta, e quasi altrettanti hanno confessato di sperare un giorno di diventare miliardari. C’è la sensazione diffusa che solo chi fa parte del “club” può diventare ricco.

Guardando alla storia, Winters è arrivato alla conclusione che gli Stati Uniti hanno raggiunto il “picco del potere oligarchico”, un momento in cui “le regole del processo politico permettono alla ricchezza di determinare le decisioni e i programmi di governo”. E aggiunge: “Ormai è una cosa talmente palese e innegabile che non possiamo più dire che non esistono oligarchi negli Stati Uniti”.

Secondo la definizione di Aristotele, si può parlare di oligarchia “quando il governo è nelle mani di uomini possidenti”. È un modello antico quanto la civiltà. Nell’antica Mesopotamia chi sapeva irrigare produceva più raccolti e, di conseguenza, accumulava più potere. In seguito la moneta di scambio è diventata l’allevamento: in inglese antico la parola feoh significava sia “bestiame” sia “ricchezza”. I primi oligarchi non conducevano una vita tranquilla: come ha scritto l’antropologo Timothy Earle, “raramente morivano nel loro letto: di solito venivano uccisi in battaglia oppure erano assassinati dai loro sottoposti”.

Nel libro Oligarchy, Winters fa l’esempio dell’Europa medievale, lacerata da violente competizioni tra oligarchie “sul piede di guerra”, in cui ogni potente aveva il suo castello, i suoi soldati e il suo territorio. Questa situazione (replicata tanti anni dopo dalla mafia del New Jersey) era costosa e faticosa da gestire, quindi tendeva a evolversi in oligarchie “dominanti”, in cui i partecipanti accettavano di deporre le armi e governare collettivamente. Era una condizione generalmente più redditizia, almeno finché gli alleati non cedevano di nuovo alla tentazione di combattere tra loro.

Dopo la loro fondazione, alla fine del settecento, anche gli Stati Uniti avevano la loro dose di oligarchi, visto che il diritto di voto era riservato ai proprietari terrieri maschi e bianchi. Ma si trattava di un’oligarchia “civile”, in cui i cittadini più ricchi sostenevano lo stato perché sapevano che avrebbe tutelato i loro interessi, e sapevano che la protezione della legge gli avrebbe permesso di fare più soldi. Ma se lo stato di diritto crolla, un’oligarchia civile può trasformarsi in un’oligarchia “sultanistica”, in cui gli ultraricchi accettano di essere governati da uno della loro cerchia, un “oligarca supremo”, per usare l’espressione di Winters. Un esempio classico è Ferdinand Marcos, presidente delle Filippine dal 1965 al 1986. Secondo le stime, durante il suo mandato Marcos rubò quasi dieci miliardi di dollari e riuscì a sottomettere il mondo degli affari distribuendo strategicamente permessi e licenze radiotelevisive. Alfred McCoy, storico dell’università del Wisconsin-Madison, spiega che “la corruzione di Marcos e dei suoi familiari ha portato alla nascita del termine crony capitalism, ‘capitalismo clientelare’. È un’espressione utile per descrivere l’era Trump”.

Dopo aver vinto le elezioni il presidente non ha perso occasione per ricordare agli statunitensi il suo potere di dare ricompense e punizioni. Brendan Carr, il nuovo presidente della Federal communications commission, ha avviato una serie di indagini contro tutte le principali emittenti televisive esclusa la Fox, molto vicina a Trump. A chi lo accusava di faziosità ha risposto: “Se siete un’emittente e non volete servire l’interesse pubblico, siete liberi di restituire la vostra licenza e occuparvi di podcast”.

Trump ha anche concesso la grazia a Trevor Milton, fondatore di un’azienda di camion elettrici condannato per aver truffato gli investitori (in un video promozionale Milton aveva mostrato un prototipo apparentemente funzionante che in realtà stava semplicemente andando in folle in discesa). Milton e la moglie hanno donato 1,8 milioni di dollari alla campagna elettorale di Trump e hanno assunto come avvocato il fratello della ministra della giustizia. La grazia gli ha evitato di pagare un risarcimento di 680 milioni di dollari. Secondo Trump, Milton era stato preso di mira per le sue idee politiche.

Ma non tutti sono disposti ad allinearsi. Il 7 aprile, mentre fuori cadeva una pioggia fredda, duecento persone si sono riunite nella sala da ballo di un hotel vicino a Washington, animate da un aristocratico spirito di resistenza. I Patriotic millionaires, un’associazione formata da statunitensi benestanti preoccupati per l’aumento delle disuguaglianze, si erano dati appuntamento per discutere su “come sconfiggere i broligarchi”, come recitava lo slogan della conferenza. Nemmeno lì poteva mancare un’aquila in volo. Ma, a differenza di quella sullo stemma dell’Executive branch, la loro stringeva tra gli artigli le foto di Musk, Bezos e Zuckerberg, tutti in smoking.

Da quindici anni i Patriotic millionaires portano avanti una battaglia per convincere i ricchi ad accettare tasse più alte. È un’impresa spesso solitaria, ma l’offensiva di Trump contro la democrazia, finanziata da alcuni degli uomini più facoltosi del paese, ha rafforzato le posizioni dell’associazione. Scott Ellis, uno dei soci, ex responsabile di un gruppo di consulenza alla Hewlett-Packard, racconta che anche imprenditori della Silicon valley, un tempo scettici, stanno diventando più ricettivi. “Alcuni amici prima mi davano retta per cortesia, ora mi ascoltano”.

Gli iscritti e i potenziali nuovi soci sono arrivati da ogni parte del paese. Hanno ascoltato le testimonianze di alcuni avvocati che hanno presentato una denuncia contro Musk e i suoi collaboratori per costringerli a rivelare documenti interni, e una serie di attivisti politici che stanno organizzando proteste contro i tagli ai servizi pubblici.

Sul palco Erica Payne, fondatrice dell’associazione, ha proiettato una slide con i risultati di un sondaggio secondo cui il movimento può trovare sostenitori sia tra i democratici sia tra i repubblicani. “Nessuno è contento”, ha detto. “Gli unici contenti sono quelli in cima alla piramide”. Ha elencato alcune misure fiscali che favoriscono chiaramente i miliardari. “Negli Stati Uniti se hai uno yacht, due quadri di Picasso e una stanza piena di monete d’oro paghi tasse sulla proprietà più basse di una persona che ha una casa da 250mila dollari in una cittadina dell’Ohio”, ha continuato. Alcuni dati sono ancora più sconcertanti. Secondo il sito ProPublica, nel 2020 almeno diciotto miliardari hanno presentato dichiarazioni dei redditi compilate così abilmente che, se avessero voluto, avrebbero potuto ricevere i sussidi stanziati dal governo per la pandemia. Quando aveva un patrimonio di diciotto miliardi di dollari, nel 2011, Bezos riuscì a usufruire di una detrazione fiscale concessa alle famiglie con figli.

Anche gli oligarchi che traggono vantaggio dall’attuale sistema corrono dei rischi

Proprio quando l’incontro stava assumendo i toni di un comizio progressista, Payne ha voluto tracciare una linea di demarcazione: “Non parleremo di tutte quelle cose che fanno tanto arrabbiare la gente: transgender, comunità lgbt, armi”. E ha precisato: “Qui si parla sempre e solo di soldi”. Secondo i dati di Americans for tax fairness, un’organizzazione che fa pressione per un sistema fiscale più equo, alle elezioni del 2004 i miliardari versarono complessivamente tredici milioni di dollari in contributi ai candidati; vent’anni dopo le famiglie più ricche del paese hanno speso duecento volte di più. Rivolta al pubblico, Payne ha detto: “Arriva un punto in cui il denaro smette di essere denaro. Diventa potere, e stanno usando quel potere per rovinare la vita a tutti gli altri”.

Soglia di ricchezza

Quand’è che si supera il limite? Nel 1965, durante la “guerra alla povertà” lanciata dal presidente Lyndon Johnson, il governo statunitense introdusse il concetto di soglia di povertà per provare a studiare misure che promuovessero il benessere (oggi quella soglia si aggira intorno ai 32mila dollari all’anno per una famiglia di quattro persone). Alan Davis, socio dei Patriotic millionaires, sostiene che andrebbe stabilita anche una “soglia di ricchezza estrema”, un livello di benessere oltre il quale diventa impossibile evitare effetti negativi sulla società. Qualche giorno dopo l’incontro del gruppo, ho parlato con Davis nella sua casa a Jordan Park, un quartiere di San Francisco immerso nel verde. Alto e distinto, con i capelli bianchi pettinati all’indietro, Davis mi ha accompagnato in un salotto arredato con oggetti in vetro soffiato. Mi ha raccontato che i suoi genitori hanno costruito una fortuna nel settore delle assicurazioni ma che fin da ragazzo si è sempre sentito a disagio di fronte a tutti quei soldi. Durante una crociera che faceva scalo a Caracas, in Venezuela, mentre la famiglia cenava in un club esclusivo, non riusciva a distogliere lo sguardo dalla povertà circostante. “Ho visto una collina piena di baracche di cartone, e quella scena mi ha colpito profondamente”, dice. “È diventato un tema di discussione con i miei genitori: ‘Ma noi da che parte stiamo?’”.

Durante la pandemia Davis ha lanciato un’iniziativa chiamata Crisis charitable commitment, con l’obiettivo di spingere i filantropi ad aumentare le loro donazioni benefiche, ma ha faticato a raccogliere adesioni. Dopo ha fondato l’Excessive wealth disorder institute (Ewdi, istituto per il disturbo da ricchezza eccessiva), un’organizzazione impegnata a combattere l’“avidità compulsiva”. Una delle pubblicazioni più recenti dell’Ewdi fornisce consigli, basati su dati raccolti da focus group, su come parlare con gli elettori “persuadibili” dell’aumento delle tasse ai ricchi (meglio usare espressioni come “semplificare il sistema fiscale ed eliminare le scappatoie”, ed evitare di “demonizzare in modo categorico i ricchi”).

Davis sostiene che la disuguaglianza economica danneggia non solo i poveri ma anche i ricchi, alimentando divisioni sociali, stress e ansia da status. Sente amici parlarne continuamente: un padre che non può più permettersi i biglietti per vedere una partita di baseball; oppure una moglie che non sopporta che il marito faccia parte della Young presidents’ organization, perché “ha fatto una barca di soldi, ma si ritrova seduto accanto a uno che ne ha fatti molti di più”.

Invitati alla festa in onore di Trump. Washington, 19 gennaio 2025 (Andres Kudacki)

I Patriotic millionaires fanno pressione sul congresso perché approvi il cosiddetto Anti-oligarch act, una proposta di legge per contrastare concentrazioni “dinastiche” della ricchezza. Davis conosce bene le obiezioni più comuni contro le tasse patrimoniali: la gente troverà il modo di evaderle, si trasferirà all’estero, gli innovatori smetteranno di rischiare. Ma è convinto che si possa trovare un equilibrio tra benefici e costi, tassando in modo aggressivo i patrimoni superiori ai cinquanta milioni di dollari. Perché cinquanta milioni? A quelle cifre, sostiene, “non puoi comprarti un Picasso ma hai abbastanza soldi per far aprire qualsiasi museo solo per te e fare una visita privata con il direttore”. E aggiunge: “Stiamo cercando di far passare un’idea diversa del sogno americano: si può fare qualsiasi cosa, ma non si può comprare tutto”.

Ambizioni spaziali

A maggio Trump ha accennato alla possibilità di aumentare le tasse sui ricchi, presentandola come una proposta di “buona politica”. Tuttavia, la sua “grande e bellissima” legge di bilancio, il fulcro della politica economica della sua amministrazione, prevede sgravi fiscali per i più ricchi, finanziati in parte dai tagli al Medicaid (il piano di assicurazione sanitaria gratuito per le fasce più povere della popolazione) e a un programma federale di assistenza alimentare.

Trump e Musk avevano già preso in considerazione di privatizzare parti del governo, vendendo edifici pubblici, esternalizzando le previsioni meteorologiche a operatori privati e cedendo terreni federali a immobiliaristi e produttori di combustibili fossili. A volte sembra quasi che l’amministrazione voglia mettere alla prova gli statunitensi per capire quanta distruzione – spacciata per sano pragmatismo imprenditoriale – siano disposti a tollerare. Ad aprile, dopo che l’annuncio di dazi doganali ha fatto crollare la borsa, il segretario del tesoro Scott Bessent, ex gestore di fondi con un patrimonio stimato di mezzo miliardo di dollari, ha detto che gli americani “non guardano alle fluttuazioni quotidiane” dei loro fondi pensione. Mentre era impegnato a licenziare decine di migliaia di dipendenti pubblici, Musk ha definito la previdenza sociale “il più grande schema Ponzi di tutti i tempi” (cioè una sorta di frode a cascata) e ha dichiarato che “la debolezza fondamentale della civiltà occidentale è l’empatia”.

Alla fine però Musk ha scoperto che la tolleranza dell’opinione pubblica ha un limite: i suoi sforzi per far eleggere un giudice della corte suprema in Wisconsin non sono stati ripagati, mentre la Tesla, la sua azienda di auto elettriche, ha registrato un crollo degli utili del 71 per cento nel primo trimestre dell’anno, un dato dovuto all’avversione dei consumatori nei suoi confronti. Musk ha criticato la politica dei dazi di Trump, definendo uno dei suoi principali architetti, Peter Navarro, “un idiota”. Ora è uscito dall’amministrazione, ma ha fatto danni che probabilmente si sentiranno per decenni, in particolare per i tagli alla cooperazione internazionale e alla sanità pubblica.

Il 14 aprile la Blue Origin, l’azienda aerospaziale di Bezos, ha mandato in orbita un equipaggio di donne per un viaggio nello spazio di dieci minuti. Sembrava che il fondatore di Amazon considerasse la missione (guidata dalla sua fidanzata, Lauren Sánchez) un servizio pubblico. Alcuni anni fa, quando gli avevano chiesto in che modo volesse “fare del bene” con la sua fortuna, aveva risposto: “L’unico modo che riesco a immaginare per impiegare una quantità così grande di risorse finanziarie è convertire i miei guadagni da Amazon in viaggi spaziali”.

Durante la festa organizzata prima dell’insediamento di Trump. Washington, 19 gennaio 2025 (Andres Kudacki)

Durante la diretta in streaming del lancio gli spettatori venivano informati che potevano prenotare un posto sui voli futuri, versando una caparra rimborsabile di 150mila dollari e un saldo successivo non specificato. Viene spontaneo chiedersi chi siano, esattamente, i potenziali acquirenti. Gli Stati Uniti nel loro complesso non sono mai stati così ricchi: all’inizio del 2025 il patrimonio complessivo delle famiglie ha raggiunto il massimo storico. Tuttavia, questi numeri sono distorti dall’enorme concentrazione di ricchezza al vertice della piramide. Circa la metà degli statunitensi non è in grado di affrontare una spesa imprevista di mille dollari, e i due terzi più poveri della popolazione sono pessimisti sul futuro come lo erano durante la crisi finanziaria del 2008. Barbara F. Walter, docente della università della California di San Diego ed esperta in instabilità politica, spiega: “Gli americani non pensano che dobbiamo essere tutti uguali in termini di ricchezza, ma ci è stato insegnato che siamo uguali dal punto di vista politico, e gli oligarchi vengono percepiti come quelli che ci stanno togliendo tale diritto. Questo genera un senso di esclusione politica e, come dimostrano gli studi, spinge le persone a organizzarsi”.

Il giorno dopo il volo nello spazio della Blue Origin, il senatore Bernie Sanders era in California per una tappa del tour Figh­ting oligarchy (“combattere l’oligarchia”), lanciato poche settimane dopo il ritorno di Trump a Washington. Sanders si stava concentrando sui distretti che avevano sostenuto i repubblicani alle elezioni. Quel pomeriggio era all’università di Folsom, in una delle rare sacche conservatrici nel nord della California. Situata dove la Central valley incontra le colline della Sierra Nevada, Folsom ospita ancora il carcere reso celebre dalla canzone di Johnny Cash, Folsom prison blues. Oggi però il principale datore di lavoro della città è la Intel, e i quartieri residenziali, ombreggiati da palme, trasmettono un senso di calma e opulenza.

Quando sono arrivato, un aereo pubblicitario sorvolava la zona con uno striscione su cui era scritto “Folsom is Trump country” (Folsom è territorio di Trump). Ma ore prima dell’inizio dell’evento c’era già una fila lunghissima di persone che volevano ascoltare Sanders. Gli organizzatori avevano dovuto spostare il comizio da un locale a un grande campo di atletica. Si prevedeva una folla di circa trentamila persone, più di un terzo dell’intera popolazione di Folsom. Le bancarelle vendevano spille create appositamente per l’occasione. Su una c’era la parola “oligarchy” scritta con i caratteri del gioco del Monopoli, accompagnata da un disegno di un potente con il cappello a cilindro.

Ho raggiunto Sanders dietro il palco, in un ufficio senza finestre vicino agli spogliatoi. Era sprofondato su una sedia da ufficio – ciuffi di capelli bianchi, la solita camicia azzurra stropicciata – e sembrava esausto dopo una giornata d’incontri in tutto lo stato. Appena si è messo a parlare della partecipazione al comizio, gli occhi gli si sono illuminati e ha cominciato a puntare il dito in aria per sottolineare alcune frasi. Il primo segnale che il tour poteva attirare grandi masse era arrivato il primo giorno, a Omaha, in Nebraska, dove gli organizzatori avevano dovuto cambiare sede per accogliere le tante persone arrivate, senza comunque riuscire a farle entrare tutte. In Iowa, ha raccontato Sanders, “ho dovuto fare il discorso due volte, perché la sala era stracolma”. A Salt Lake City, nello Utah, si sono presentate ventimila persone. “A Nampa, in Idaho, ce n’erano dodicimila, nello stato più conservatore d’America”, ha precisato. “Una cosa impressionante”.

Affrontare la realtà

Poco di ciò che Sanders ha detto sul palco suonava nuovo. Già 35 anni fa, dopo aver lasciato la carica di sindaco di Burlington, aveva messo in guardia un giornalista contro i pericoli dell’oligarchia, sottolineando: “I ricchi e i potenti non possono continuare ad avere tutto!”. All’epoca però Sanders non attirava grandi folle. “Una cosa è parlare di oligarchia in astratto”, mi ha detto. “Trump l’ha ammesso apertamente. L’ha detto forte e chiaro: siamo un governo di miliardari”.

Fortuna nazionale
Distribuzione della ricchezza negli Stati Uniti, in migliaia di miliardi di dollari, in base ai percentili di ricchezza (federal reserve)

Durante il nostro incontro Sanders non ha nascosto la soddisfazione per il fatto che i comizi più partecipati negli Stati Uniti di oggi sono quelli di un socialista di 83 anni che ha perso due volte la corsa alle primarie presidenziali. “Quello che mi disturba di più del fallimento del Partito democratico”, ha detto, è la resistenza “ad affrontare la realtà”. I democratici, secondo il senatore, si sono complimentati con Biden per aver abbassato il prezzo dell’insulina e poi si chiedono perché la gente vota per Trump. “Vuoi sapere perché la gente è arrabbiata? Perché sta male! Non riesce a comprare da mangiare per i propri figli, non riesce a pagare l’affitto, non può permettersi l’assistenza sanitaria”.

Al centro del tour di Sanders c’è la speranza di costruire un “movimento di classe” capace di superare le divisioni partitiche. Nel settecento il filosofo Jean-Jacques Rousseau scriveva che, in tempi di disuguaglianza estrema, i ricchi distolgono l’attenzione di chi potrebbe provare risentimento nei loro confronti fomentando “odio e diffidenza reciproci, contrapponendo i diritti e gli interessi degli uni a quelli degli altri”. È l’essenza della politica di Trump: la consapevolezza che le persone disperate si sentono forti quando possono “guardare più in basso che in alto”, così che “il dominio per loro diventa più prezioso dell’indipendenza”.

Sanders è salito sul palco sulle note di Power to the people, ha ringraziato con il suo tono burbero e si è messo subito all’opera. Dopo decenni di critiche al sistema, ora poteva attaccare un bersaglio con un volto e un nome. “Musk possiede più ricchezza del 50 per cento più povero delle famiglie americane”, ha gridato Sanders. “Questa, fratelli e sorelle, è una follia!”. Mentre parlava, la fila si snodava ancora fuori dallo stadio. Altri sbirciavano attraverso le recinzioni o seguivano il discorso dalle colline vicine.

Parlando con le persone tra il pubblico, mi ha colpito il fatto che molte partecipavano per la prima volta a un comizio di Sanders. Uno di loro, Stephen Jackson, un imprenditore edile in pensione, mi ha detto: “Conosco molti repubblicani pentiti di come hanno votato. Speravano che sarebbe stato meglio per le imprese, con meno stato. E invece si stanno accorgendo che è l’esatto contrario”. Ha continuato: “Musk non vuole ridurre la spesa pubblica. E lo vedono tutti”. In un paese in cui i due partiti dominanti non sono d’accordo praticamente su nulla, l’esasperazione collettiva nei confronti di Musk ha creato un consenso sorprendente. “Repubblicani e democratici sono sulle stesse montagne russe”, ha osservato Jackson, “e tutti si chiedono: dove sono le cinture di sicurezza? Be’, le abbiamo tolte, perché così si risparmia”.

Il popolo e i ricchi
Cosa pensano gli statunitensi dei miliardari, %. Sondaggio condotto nel febbraio 2025 (Reuters e ipsos)

Come nasce un movimento

Dopo aver venduto per cinquant’anni l’illusione dell’esclusività – tra casinò, bistecche per corrispondenza e una finta università – la famiglia Trump ha capito per cosa le persone sono veramente disposte a pagare: l’accesso ai vertici del governo degli Stati Uniti. Il capitalismo clientelare sta spingendo il paese verso un bivio: in una direzione l’oligarchia è vista come normale, nell’altra no. Nel primo scenario “le persone con incarichi pubblici non saranno più tenute a rispettare determinate regole e convenzioni”, spiega McCoy. “Si ridurranno le aspettative dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti”. Se l’attuale tendenza economica dovesse continuare, le conseguenze saranno gravi. Secondo Bob Lord, esperto di questioni fiscali, nei prossimi quarant’anni lo 0,00001 per cento più ricco degli statunitensi (circa diciannove persone, allo stato attuale) aumenterà la propria quota di ricchezza nazionale da 1,8 al 18 per cento. In altre parole, se Washington continuerà a far finta che la corruzione di Trump non sia legata a uno squilibrio di potere più profondo, gli oligarchi avranno vinto.

Anche quelli che traggono vantaggio dall’attuale sistema corrono dei rischi. Nel breve periodo usare i soldi per comprare potere e accumulare potere per fare soldi può metterli al riparo dalle ire di Trump. Il problema è che stanno consegnando al sultano un potere immenso. “Cosa succede alle élite economiche che si alleano con gli autocrati?”, chiede Barbara Walter. “Di solito non finisce bene”. Dopo che gli oligarchi russi lo hanno aiutato a consolidare il potere, Vladimir Putin ha cominciato a temere di aver dato troppo spazio ai potenziali rivali, così ne ha fatti arrestare alcuni, altri li ha mandati in esilio, ha confiscato le loro attività e l’ha assegnate a nuovi fedelissimi. “La festa è bella finché dura, ma a un certo punto bisogna fare i conti con i postumi della sbronza, e loro non vogliono pensarci. Intanto gli oligarchi russi cadono uno a uno”, continua Walter. “Voglio dire una cosa sola agli imprenditori della Silicon valley: i dati dimostrano che le autocrazie non funzionano bene sul piano economico, quindi il dittatore ha bisogno di risorse per restare al potere. E prima o poi cerca di mettere le mani sulle fortune degli oligarchi”.

Le oligarchie sultanistiche hanno delle fragilità intrinseche. Le élite devono accettare una qualche forma di “patto autoritario”, come lo chiamano gli studiosi: il leader si impegna a proteggere la loro ricchezza da minacce legali e richieste di redistribuzione, in cambio di soldi e fedeltà politica. Le élite che non si sottomettono vengono spesso distrutte, ma anche i leader che non riescono a garantire protezione alle élite rischiano di essere rovesciati.

La rabbia della società civile può prendere di mira anche gli oligarchi. I movimenti popolari in Sudafrica, in Ucraina e nelle Filippine mostrano una dinamica ricorrente: una pressione costante – proteste trasversali, scioperi, inchieste giornalistiche – può lentamente erodere regimi inetti e corrotti. Quando si apre una crepa – magari a causa di una recessione, una prova di forza che fa crescere il dissenso o una spaccatura tra le élite – l’ordine dominante è costretto a riformarsi, a negoziare o a crollare. Ma in paesi come l’Egitto o la Russia, dove le forze civili sono indebolite o divise, gli oligarchi riescono a resistere con una tenacia che toglie ogni speranza.

Se la politica potrà mai contribuire a risolvere le disuguaglianze negli Stati Uniti, non sarà un processo rapido. Passarono diciassette anni tra quando Mark Twain coniò l’espressione gilded age (età dell’oro) a quando gli Stati Uniti approvarono la prima legge contro i monopoli, nel 1890. E anche quello fu un successo parziale. Pochi anni dopo il governo cercò d’introdurre una tassa sul reddito, che fu descritta come parte di una “marcia comunista” e dichiarata incostituzionale dalla corte suprema. Alla fine furono i ricchi a provocare la loro stessa rovina, ignorando la crescente rabbia popolare (in una famosa festa dell’epoca, tenutasi in una sala da ballo di Manhattan, l’organizzatore fece entrare decine di cavalli con le bisacce piene di champagne per permettere agli invitati di cenare stando in sella). La tassa sul reddito fu introdotta nel 1913, dopo quasi vent’anni di attivismo. Benjamin Page, un politologo della Northwestern university che ha studiato a lungo le disuguaglianze, osserva: “È sbagliato pensare che non si possa fare niente”. Il movimento sociale degli anni novanta dell’ottocento ha dimostrato che “il potere dei cittadini può bilanciare il potere degli oligarchi”. E aggiunge: “Se ci sono abbastanza persone arrabbiate, diventa realistico pensare a quali istituzioni, regole e assetti si potrebbero riformare per cambiare le cose”.

I politici e gli imprenditori possono isolarsi così tanto dalla realtà sociale da finire per scatenare, senza rendersene conto, l’indignazione popolare: un fenomeno noto come autocratic backfire (boomerang autocratico). Quando gli oligarchi cominciano a vedere i loro successi come la prova della loro abilità e intelligenza – invece che il frutto di competenze specifiche, tempismo, contratti pubblici e fortuna – tendono a diventare megalomani. Richard White, storico di Stanford specializzato nell’età dell’oro, osserva: “Penso che la caduta di Musk sia un esempio di come le cose possano sfuggire di mano molto rapidamente”.

Le proteste di aprile contro l’amministrazione Trump sono state così partecipate da sorprendere perfino gli organizzatori: a Washington c’erano centomila persone, cinque volte più del previsto. Trump, che quel giorno era a giocare a golf in Florida, non ha commentato, e
Musk ha sminuito i manifestanti definendoli “marionette”. Eppure quella folla, come le tante persone in fila per ascoltare Sanders, lascia intravedere la possibilità che un’opinione pubblica arrabbiata possa trovare un terreno comune, anche se alcuni sono più interessati a imitare i ricchi che a combatterli. Durante l’età dell’oro, osserva White, “gli oligarchi offrivano alla gente dei bersagli comuni. All’epoca non c’era una soluzione condivisa, e non credo che ci sarà nemmeno oggi. Ma quando si riesce a essere d’accordo sul fatto che il sistema non funziona, che va cambiato, allora può nascere un movimento”. ◆ fas

Evan Osnos è un giornalista statunitense. Al New Yorker dal 2008, è stato corrispondente dalla Cina e oggi segue la politica americana.

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Questo articolo è uscito sul numero 1623 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati