Si può entrare?”, chiede una ragazza all’amica, fermandosi davanti a un cancello di ferro in via Ibrahim Rugova, una delle strade più animate del centro di Tirana. Il cancello è aperto, il che è strano. Non è mai aperto. Il vialetto interno porta a una villa immersa nel verde, subito dopo una fontana vuota e un gruppetto di persone sdraiate sull’erba.
“Non lo so”, risponde l’amica. Esitano per un attimo. “Sai che c’è? Avviciniamoci con disinvoltura (me stil). Magari qualcuno ci fa passare”.
Non sono le sole a farsi quella domanda: la villa, che un tempo ospitava lo storico leader del partito comunista albanese Enver Hoxha con moglie, figli e nipoti, è stata interdetta agli abitanti di Tirana per oltre trent’anni. Fino a qualche mese fa.
Durante la visita del presidente francese Emmanuel Macron a Tirana, nel 2023, era stato annunciato che l’edificio sarebbe diventato una residenza per artisti gestita dalla fondazione francese Art Explora. L’inaugurazione è avvenuta alla metà di aprile 2025, esattamente quarant’anni dopo la morte di Hoxha, con un ricco programma: studi aperti da una prima tornata di artisti in residenza, spettacoli, dibattiti, laboratori e proiezioni di film.
Sono stato invitato all’inaugurazione per tenere una conferenza sul rapporto tra la casa di Hoxha e la sua brutale e spesso impenetrabile dittatura. Molto prima che si decidesse di trasformare l’edificio in una residenza per artisti avevo cominciato a cercarne le origini negli archivi del partito. Non era una storia facile da ricostruire. Spesso mi sembrava di fare un lavoro da detective, un riflesso della segretezza e della paranoia del regime. Per me l’importante era denunciare il contrasto stridente tra questo luogo di privilegi e le difficoltà che i cittadini albanesi dovevano sopportare.
Dopo la seconda guerra mondiale Hoxha guidò un regime spietato, schiacciando ogni forma di dissenso ed epurando i suoi più stretti collaboratori, accusati di reati immaginari. Nel 1967 ordinò la demolizione di chiese e moschee, sancendo l’ateismo del paese nella sua costituzione. Migliaia di persone furono sbattute in carcere e nei campi di lavoro per motivi assurdi. Per tutta la vita Hoxha rimase un ammiratore di Josef Stalin. A settant’anni gli dedicò un libro: Con Stalin.
Dopo la caduta del regime, nel 1991, Tirana ha conosciuto un boom edilizio frenetico e l’area intorno alla villa ha acquistato un altissimo valore immobiliare. Ma prima del 1991 era off limits, protetta da guardie armate e ammantata di mistero. Altri funzionari del partito si erano trasferiti nelle case vicine dopo averle arbitrariamente sottratte ai legittimi proprietari. Con il tempo la zona cominciò a essere chiamata blloku i udhëheqësve, il quartiere dei leader. Il nome Blloku le è rimasto.
**Le molte vite di Blloku **
La vita all’interno di questo angolo proibito della capitale aveva le sue comodità: un negozio riservato ai residente della zona, cuochi, autisti e guardie. L’alto rango assicurava l’accesso ai più ambiti beni d’importazione e a medici personali. I rampolli di alcune delle famiglie più importanti si sposavano tra loro, dando l’impressione di un clan di potere indissolubile.
Ma sotto una patina di ordine, Blloku era anche terreno fertile per sospetti e invidie. Hoxha vedeva nemici ovunque, anche tra i suoi più stretti collaboratori, uno stile paranoico che ha lasciato il segno nella politica albanese. Se un potente cadeva in disgrazia, la sua villa cambiava inquilini.
Quando i figli di Hoxha cominciarono a sposarsi, lo spazio non bastò più. La Villa 31 fu costruita nei primi anni settanta come enorme ampliamento di una struttura prebellica. Architetti, ingegneri e tecnici lavorarono in segreto, ordinando impianti speciali e moderne rifiniture italiane in un periodo in cui dal mondo capitalistico occidentale poteva entrare pochissimo, e quel pochissimo era prezioso.
Il risultato fu un edificio labirintico e disarmonico per i diversi stili architettonici, con appartamenti destinati alle varie generazioni della famiglia, un cinema, un ascensore e altri confort all’epoca inimmaginabili per gran parte degli albanesi. L’uso di materiali locali — legni pregiati, marmi, pietra — voleva essere un richiamo alla tradizione.
Negli albanesi quel luogo suscita sentimenti contrastanti: curiosità, indecisione, tristezza, rabbia. “Pensavo fosse più grande”, dice un giovane padre con un bambino vivace in braccio. L’ha ripetuto varie volte. La capitale si è estesa enormemente in altezza e in larghezza, e anche la percezione delle dimensioni è cambiata. Ma negli anni settanta, quando una famiglia albanese media era stipata in una scatola di cemento con una camera (due se andava bene), la Villa 31 era l’apice del lusso. La memoria gioca brutti scherzi: torniamo a quello che ci sembra di ricordare solo per scoprire che forme e dimensioni sono cambiate.
È un tema affrontato dall’artista in residenza Armando Duçellari, nato nel 1990, nel periodo in cui il regime stava per crollare. Resti sovrapposti, il suo progetto multimediale, rivisita i ricordi di un familiare che lavorò alla villa negli anni settanta, esplorando come il tempo trasforma la memoria degli spazi.
I visitatori che al pianterreno svoltano a sinistra si trovano davanti a un grande dipinto di Lumturi Blloshmi (1944-2020). È un cognome legato al terrore, perché il poeta Vilson Blloshmi — cugino di Lumturi — fu ucciso dal regime nel 1977 con l’accusa di aver scritto e lavorato contro lo stato. Di fronte al quadro è esposta una serie di fotografie in bianco e nero di Kostandin Poga, che nei primi anni novanta ebbe la lungimiranza di documentare la cupa rete di prigioni politiche e campi di lavoro albanesi.
Altri si dirigono verso il retro, dove si trova la piscina – oggi vuota – rivestita di piastrelle azzurre. Su una parete è appeso un vivace arazzo dell’artista kosovaro Jakup Ferri. “Aveva una piscina privata?!”, risuona una voce femminile dal corridoio. “Mentre gli albanesi morivano di fame!”.
Al piano superiore, dove Hoxha lavorava, i visitatori girano le maniglie delle porte e sbirciano negli armadi, dimenticando che alcune di queste stanze oggi sono occupate dagli artisti in residenza: ci sono le loro lenzuola, i vestiti, gli spazzolini, le tele bianche e le fotografie sparse in giro.
“Qui possiamo entrare?”, continuano a chiedere.
Gli architetti parigini della NeM, incaricati della ristrutturazione, sostengono di aver voluto intervenire poco. Hanno cercato di mantenere il più possibile gli arredi originali. Le aggiunte — tavoli, sedie raffinate, lampade minimaliste — sono state ordinate tutte in bianco, per distinguerle dagli oggetti d’epoca.
Tra questi ultimi ho notato un ingombrante mobile radio–giradischi Jubulant, cecoslovacco, della fine degli anni cinquanta, con i nomi delle città europee che trasmettevano i programmi stampati sul quadrante. L’ascesa e la caduta della dittatura di Hoxha furono cadenzate dai suoni: altoparlanti, discorsi, musica di contrabbando. Ascoltare una trasmissione radiofonica occidentale proibita era un’attività pericolosa, anche se difficile da controllare.
Alle pareti sono ancora appesi alcuni quadri dei maestri della pittura albanese. La scena di una danza guerriera rappresentata da Andon Lakuriqi mi ha ipnotizzato per giorni. Sullo sfondo di una splendida montagna, è un tripudio di gioia feroce. Poi c’è il severo montanaro di Guri Madhi, la fucina rosso fuoco di Sali Shijaku, lussureggianti paesaggi primaverili punteggiati da minuscole casette imbiancate a calce.
Una casa proibita non poteva che generare grande curiosità. Nelle lunghe giornate di sole i visitatori sono arrivati a migliaia. E anche se non è un museo, è un luogo della storia. È ancora una casa stregata — almeno per ora.
Un luogo ingannevole
Sono tornato a Villa 31 in quanto autore che aveva scritto sui paradossi della dittatura albanese. Ma ero tallonato da un’altra identità: lo sguardo di me bambino a nove anni, quando vivevo a Tirana alla vigilia del crollo del regime, intorno al 1990. Ero in un parco poco lontano da qui, in gita scolastica, con i miei compagni di classe. Ci permisero di gironzolare, ma non troppo. In lontananza si profilavano guardie in divisa.
Ricordo che a quei tempi l’edificio continuava a essere ammantato da un’aura di mistero. Dopo il caotico collasso del regime comunista, i governi successivi decisero di conservarlo come residenza statale. Quando lo scrittore argentino Ernesto Sabato venne a Tirana per ricevere un premio, nel 1996, gli proposero di passare la notte nella villa. Lui rifiutò, inorridito all’idea di dormirci.
Di fronte all’idea del potere come cospirazione, gli albanesi hanno sempre affrontato il dolore in modo creativo
All’epoca i più fantasiosi tra i miei compagni di classe parlavano di tunnel segreti che portavano a prigioni scavate sotto i nostri piedi. Non so bene cosa pensare del fatto che, a 35 anni di distanza, la fissazione per quello che si nasconde sottoterra sia tutt’altro che scomparsa. “Come si arriva al tunnel?”, non smettono di chiedere alcuni visitatori, saltando le conferenze e le opere d’arte. Si scopre che il tunnel è invaso dall’acqua – un’irresistibile metafora del passato sommerso dell’Albania, delle risposte tuttora sfuggenti.
Di fronte a un’idea del potere come cospirazione, gli albanesi hanno sempre gestito il dolore in modo creativo, molto prima di diventare oggetto di interesse per l’occidente e per il turismo di massa. Hanno costruito e abitato narrazioni elaborate che spesso avevano solo una vaga somiglianza con la realtà storica.
Per questo penso alla villa come a un esperimento mentale: una sorta di archivio. E, come tutti gli archivi dei regimi autoritari, è inaffidabile. Le cose al suo interno non sono come appaiono. Era la casa di un tiranno, sì. Ma era qualcosa di più di una casa.
Nel 1973, mentre la villa veniva ultimata, Hoxha lanciò una violenta campagna contro quello che definì il liberalismo nelle arti: i suoi progettisti sceglievano gli arredi dai cataloghi occidentali e lui attaccava l’influenza occidentale nella musica, nell’arte e nell’architettura. I libri erano messi al bando (nei sotterranei della Biblioteca nazionale ho passato giornate intere a rovistare nei cassetti di legno pieni di schede con i titoli dei volumi messi al bando, segnati con la lettera scarlatta R, “riservato”).
Gli stranieri che arrivavano a Tirana, compresi i marxisti-leninisti occidentali che venivano nell’Albania stalinista per imparare a costruire il socialismo, all’aeroporto erano sottoposti a rituali umilianti: barbe incolte e capelli lunghi non erano ammessi. Oggi i turisti occidentali, socialisti o meno, non devono più preoccuparsi dei barbieri.
Quando le sue condizioni di salute peggiorarono, Hoxha si ritirò in un angolo della villa, cupo, a prendere appunti e registrare riflessioni sul malinconico presente del marxismo e sull’irraggiungibile rivoluzione mondiale. La Cina — il salvagente finanziario dell’Albania fino al 1978 — non concedeva più crediti. Il paese stava per sprofondare nella catastrofe economica, ma era il passato a consumarlo. In quel periodo cominciarono a uscire sempre più libri con il suo nome. Venivano etichettati come “memorie” e “diari”, ma erano testi raffazzonati, scritti da ghostwriter, documenti d’archivio manipolati e cronologie disordinate. Narrazioni semi-inventate erano presentate e fruite come saggistica — un trucco di marketing che incrocia generi diversi e ancora oggi prospera nell’editoria albanese. “Stiamo perdendo il passato?”, mi chiedono in tanti. Il passato dev’essere reso utilizzabile, insistono, per le nuove generazioni.
Passati utilizzabili
Quando vado in Albania mi trovo spesso di fronte a rimostranze di questo tipo. Le famiglie delle vittime e gli ex prigionieri politici si sentono esclusi dalla storia. “Scrivete del nostro dolore” è la loro richiesta più frequente.
È un tema che sembra lontano dalle priorità delle università e delle case editrici dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti dove, almeno negli ultimi vent’anni, non è stato affatto “di tendenza” occuparsi dei crimini di regimi comunisti come quello albanese. La preoccupazione principale è stata dimostrare che la “transizione” al capitalismo si è risolta in una serie di fallimenti. Rendere accessibile in occidente un paese oscuro come l’Albania ha spesso significato incasellarlo negli schemi mentali e politici di chi vive lì — non necessariamente nell’eredità ferita di chi vive qui.
Alla difficoltà dell’Albania di confrontarsi con il passato ha contribuito anche il fatto che fino agli anni duemila gli archivi segreti erano inaccessibili ai ricercatori. In questo vuoto, i favolisti sono rimasti incontrastati per decenni. La verifica dei fatti è un fenomeno raro; quando si arriva alle narrazioni sull’epoca comunista, praticamente tutto è permesso.
Mi ha stupito vedere quanti albanesi fatichino a inquadrare gli eventi basilari della dittatura. I racconti romanzati circolano ancora come se fossero realtà. Alcune persone con cui ho parlato erano frustrate per lo scarso interesse delle giovani generazioni, ormai lontane dalla dittatura. Ma al di là delle differenze generazionali, la questione più profonda è l’assenza di punti di riferimento affidabili e di strumenti critici per misurarsi con la storia.
Negli anni novanta il paese voleva disperatamente fuggire dal passato. Centinaia di migliaia di persone scapparono in Grecia e in Italia, e poi ancora più lontano, attraversando gli oceani, costruendo da zero nuove vite. Molti dei loro figli sono diventati artisti, registi e scrittori celebrati nei paesi che oggi considerano la loro casa.
È stato commovente incontrarne alcuni in occasione della riapertura della villa di un uomo che brutalizzò il suo paese in nome della libertà e della giustizia.
Se è una sorta di epilogo, è un epilogo incompiuto. L’Albania guarda avanti — verso l’Unione europea, verso il suo posto in un mondo precario. Ma il passato è esigente: non ha ancora finito di presentare il conto. Prima o poi, il paese dovrà prendere più seriamente la disciplina della memoria. ◆ gc
Elidor Mëhilli è uno scrittore albanese. Insegna all’Hunter College dell’università di New York.
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Questo articolo è uscito sul numero 1632 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati