Nell’autunno del 2019 nessuno scienziato stava studiando il covid-19, perché nessuno sapeva della sua esistenza. Il virus che causa la malattia, il sars-cov-2, aveva appena fatto il salto dall’animale agli esseri umani e non era ancora stato identificato. Ma alla fine di marzo del 2020 si era già diffuso in più di 170 paesi, aveva colpito più di 750mila persone e aveva cambiato la storia della scienza moderna. Migliaia di ricercatori hanno accantonato gli studi che avevano fatto fino a quel momento e hanno cominciato a lavorare sulla pandemia. In pochi mesi la scienza si è completamente “covidizzata”.

Alla fine del 2020 PubMed, un motore di ricerca per la letteratura scientifica creato dai National institutes of health statunitensi (Nih), riportava più di 74mila articoli sul covid-19, più del doppio di quelli disponibili su poliomielite, morbillo, colera, dengue e altre malattie che hanno tormentato l’umanità per secoli. Sul virus ebola, scoperto nel 1976, sono stati pubblicati solo 9.700 articoli. A settembre del 2020 il prestigioso New England Journal of Medicine aveva ricevuto 30mila proposte di articoli, rispetto alle 16mila dell’anno precedente. “È stato il covid-19 a fare la differenza”, spiega Eric Rubin, direttore della rivista.

Come altri eventi importanti – per esempio il progetto Manhattan sulla bomba atomica o il programma Apollo sull’esplorazione spaziale – le epidemie tendono ad assorbire le energie di grandi gruppi di scienziati. Negli Stati Uniti l’influenza spagnola del 1918, la malaria nei campi di battaglia tropicali della seconda guerra mondiale e la diffusione della poliomielite negli anni cinquanta avevano segnato un punto di svolta. Anche le recenti epidemie di ebola e di zika hanno causato un rapido aumento e delle pubblicazioni e dei finanziamenti per la ricerca. Ma “mai nella storia c’era stato un cambiamento simile a quello causato dal covid-19”, afferma Madhukar Pai della McGill university. Questo si deve in parte semplicemente al fatto che oggi ci sono più scienziati: negli Stati Uniti il numero di ricercatori nel campo della biologia e della medicina è aumentato di sette volte tra il 1960 e il 2010, passando da 30mila a più di 220mila. Ma ha pesato anche il fatto che il sars-cov-2 si è diffuso di più e più velocemente di qualsiasi altro nuovo virus comparso nell’ultimo secolo. Per gli scienziati occidentali non era un pericolo lontano come l’ebola: minacciava di far ammalare anche loro e ha fatto chiudere i loro laboratori.

Kyle Myers e i suoi colleghi dell’università di Harvard hanno condotto un sondaggio tra 2.500 ricercatori negli Stati Uniti, in Canada e in Europa, scoprendo che il 32 per cento di loro aveva abbandonato altre ricerche per concentrarsi sul nuovo coronavirus. I neuroscienziati che studiano l’olfatto hanno cominciato a indagare sul motivo per cui i pazienti di covid-19 tendono a perderlo. I fisici hanno cercato di creare modelli per aiutare i politici. Lo stesso ha fatto Michael D. L. Johnson, un ricercatore dell’università dell’Arizona che normalmente studia gli effetti tossici del rame sui batteri: quando ha saputo che il virus sopravvive per meno tempo sulle superfici in rame che su altri materiali, ha modificato le sue ricerche per capire se il virus può essere vulnerabile al metallo. Nessun’altra malattia è stata mai studiata in modo così approfondito, da così tanti cervelli contemporaneamente, e in così breve tempo.

Questi sforzi sono già stati ripagati. Abbiamo test diagnostici che possono dare un risultato nel giro di pochi minuti. Enormi quantità di dati sui genomi virali e sui casi di covid-19 sono stati messi a disposizione di tutti i ricercatori, permettendo di avere un quadro dettagliato come non era mai successo per una nuova malattia. I vaccini vengono sviluppati a una velocità senza precedenti. Il sars-cov-2 sarà descritto in modo accurato, e questo ci permetterà di approfondire la nostra comprensione di altri virus, dandoci gli strumenti per affrontare la prossima pandemia. Ma il covid-19 ha anche rivelato le fragilità fin troppo umane del mondo scientifico. Studi poco rigorosi hanno confuso le acque, incoraggiando politiche sbagliate. Gli ospedali hanno sprecato milioni di dollari in esperimenti inutili. Scienziati troppo pieni di sé hanno pubblicato studi fuorvianti su argomenti che conoscevano poco. Inoltre le disuguaglianze razziali e di genere nel mondo della scienza sono aumentate.

Ruoli poco familiari

A febbraio del 2020 Jennifer Doudna, una delle più importanti scienziate statunitensi, era concentrata sui Clustered regularly interspaced short palindromic repeats (Crispr), una tecnica di editing del genoma per cui in seguito avrebbe ricevuto il premio Nobel per la chimica. Ma quando le autorità hanno chiuso sia il liceo del figlio sia l’università della California a Berkeley, dove fa ricerca, ha capito che la situazione stava per diventare grave. Il 13 marzo, insieme a decine di colleghi dell’Innovative genomics institute, ha deciso di congelare la maggior parte dei progetti in corso e di concentrarsi sullo studio del covid-19, lavorando su test diagnostici basati sulla Crispr. Visto che c’erano pochi test in circolazione, hanno convertito lo spazio del laboratorio in una struttura per testare gli abitanti del posto. “Dobbiamo sfruttare le nostre competenze per affrontare la situazione”, dice Doudna.

Gli scienziati che avevano studiato altre malattie emergenti sono stati ancora più rapidi. Lauren Gardner, docente di ingegneria della Johns Hopkins university che si era occupata della dengue e del virus zika, sapeva che quando scoppiano nuove epidemie è difficile avere dati in tempo reale. Così, insieme a un suo studente, ha creato un programma per mappare i contagi e le morti per covid-19 nel mondo. Dopo una notte di lavoro, il 22 gennaio l’hanno pubblicato online. Da allora è consultato ogni giorno da governi, agenzie di sanità pubblica, testate giornalistiche e cittadini ansiosi.

Studiare i virus è sempre complicato, ma nell’ultimo anno lo è stato ancora di più. Per maneggiare il sars-cov-2, gli scienziati devono lavorare in laboratori con “livello 3 di biosicurezza”, dotati di speciali sistemi d’areazione e altri strumenti particolari. Di solito i ricercatori testano i nuovi farmaci e i vaccini sulle scimmie prima di procedere alle sperimentazioni sugli esseri umani, ma negli Stati Uniti questi animali scarseggiano da quando la Cina ne ha bloccato l’esportazione, probabilmente perché ne aveva bisogno per i suoi studi. Inoltre, la necessità di rispettare il distanziamento fisico ha complicato altre ricerche. “Prima le persone lavoravano stando molto vicine tra loro, ora dobbiamo fare i turni”, spiega Akiko Iwasaki, immunologa di Yale. “C’è chi arriva in laboratorio a ore assurde” per proteggersi dallo stesso virus che sta cercando di studiare.

Il covid-19 ha seminato il panico perché si comporta in modo insolito

Gli esperti di nuove malattie sono pochi, perché nei periodi tra un’epidemia e l’altra l’opinione pubblica non s’interessa a questi pericoli. “Proprio un anno fa sono stata costretta a spiegare perché stavo studiando i coronavirus”, dice Lisa Gralinski dell’università del North Carolina a Chapel Hill. “Immagino che non dovrò più farlo”. Come molti altri ricercatori che studiano le malattie emergenti, Gralinski si è trovata a svolgere ruoli poco familiari. Fare da consulente improvvisata per aziende, scuole e governi locali. Ricevere continue richieste d’intervista dai giornalisti. Spiegare i vari aspetti della pandemia a un numero enorme di nuovi follower su Twitter. “Alla stessa persona che sta aiutando il governo della Namibia a gestire i focolai di malaria si chiede di aiutare il Maryland a gestire quelli di covid-19”, afferma Gardner.

Ma il nuovo interesse per i virus significa anche che “ci sono molte più persone con cui discutere i problemi”, mi spiega Pardis Sabeti, genetista computazionale del Broad institute dell’Mit e di Harvard.

Le nuove alleanze tra scienziati formate negli ultimi mesi hanno potuto funzionare a una velocità vertiginosa perché molti ricercatori avevano trascorso gli ultimi decenni a trasformare la scienza in un processo più agile e trasparente. Normalmente uno scienziato manda il suo articolo a una rivista, che lo gira a un gruppo (sorprendentemente ristretto) di colleghi che fa una serie di commenti, di solito anonimi. Se supera le forche caudine della peer-review (di solito ci vogliono mesi), il documento viene pubblicato (solo per i lettori che possono pagare un costoso accesso alla rivista). Questo sistema lento e opaco non è adatto a un virus che si diffonde rapidamente. Ma oggi i ricercatori possono caricare versioni preliminari dei loro articoli, o “prestampe” (preprint), su siti liberamente accessibili, consentendo ad altri di leggerli immediatamente, per valutarli e servirsene. Questo modo di procedere stava guadagnando popolarità prima del 2020, ma si è rivelato così essenziale per la condivisione d’informazioni sul covid-19 che probabilmente diventerà un pilastro della ricerca biomedica moderna.

Anche gli insiemi di dati aperti e i nuovi strumenti per usarli hanno permesso ai ricercatori di essere più flessibili. Il genoma del sars-cov-2 è stato decodificato e condiviso dagli scienziati cinesi appena dieci giorni dopo l’individuazione dei primi contagi. A novembre 2020 erano stati sequenziati 197mila genomi di sars-cov-2. Novant’anni fa non sapevamo nemmeno come era fatto un virus; oggi gli scienziati conoscono la struttura del sars-cov-2 fino alla posizione dei singoli atomi. “Stiamo imparando a conoscere questo virus più velocemente di quanto abbiamo fatto con qualsiasi altro virus”, sostiene Sabeti.

Vaccino rivoluzionario

A marzo del 2020 la probabilità di debellare rapidamente il nuovo coronavirus sembravano scarse. Il vaccino è diventato la soluzione più realistica e la corsa per crearne uno è stata un successo clamoroso. Normalmente un nuovo vaccino richiede anni, ma oggi ce ne sono vari già approvati e una ventina nella fase di controllo finale. La maggior parte dei vaccini contiene agenti patogeni morti, indeboliti o frammentati, e per prepararli bisogna partire da zero ogni volta che emerge una nuova minaccia. Ma negli ultimi dieci anni gli Stati Uniti e altri paesi si sono allontanati da questo metodo – che potremmo definire “un virus, un farmaco” – e hanno investito nelle cosiddette piattaforme tecnologiche, in cui si crea un’ossatura che può essere facilmente modificata per prendere di mira nuovi virus. I vaccini Pfizer-Biontech e Moderna, per esempio, sono costituiti da nanoparticelle che contengono una parte del materiale genetico del sars-cov-2, il suo rna messaggero. Quando ai volontari vengono iniettate queste particelle, le cellule usano l’rna messaggero per ricostruire un frammento non infettivo del virus, consentendo al sistema immunitario di produrre gli anticorpi che lo neutralizzano. Nessuna azienda aveva mai introdotto sul mercato un vaccino simile. Ma, visto che la piattaforma di base era già stata perfezionata, i ricercatori hanno potuto convertirla rapidamente con l’rna messaggero del sars-cov-2. Moderna ha avviato gli studi clinici della fase 1 il 16 marzo 2020, appena 66 giorni dopo la scoperta del genoma del nuovo virus, molto più velocemente di quanto fosse mai stato fatto.

I vaccini non metteranno immediatamente fine alla pandemia. Milioni di dosi dovranno essere prodotte, assegnate e distribuite. Molte persone potrebbero decidere di non vaccinarsi, e non sappiamo ancora quanto dura l’immunità. Se tutto va come previsto, nei prossimi dodici mesi i vaccini Pfizer-Biontech e Moderna saranno distribuiti negli Stati Uniti e il paese raggiungerà l’immunità di gregge. A quel punto il virus faticherà a trovare nuove persone da infettare. Circolerà ancora, ma i focolai saranno sporadici e di breve durata. Riapriranno scuole e fabbriche. Le famiglie si abbracceranno e festeggeranno insieme il Natale. E gli scienziati sperano che, quando arriverà il prossimo misterioso agente patogeno, potranno inserire rapidamente il suo materiale genetico in piattaforme collaudate e testare i vaccini usando la corsia preferenziale creata durante questa pandemia. “Non credo che il mondo dei vaccini sarà mai più lo stesso”, dice Nicole Lurie della Coalition for epidemic preparedness innovations.

Ricercatori al lavoro sui tamponi drive-in. Saarbrücken, Germania, maggio 2020 (Rafael Heygster e Helena Manhartsberger)

Per quanto sia stata veloce, la scoperta del vaccino avrebbe potuto esserlo ancora di più. Nonostante la posta in gioco, alcune aziende farmaceutiche con molta esperienza nel campo hanno scelto di non partecipare alla gara, forse intimorite dalla concorrenza. Secondo Kevin Bryan, economista dell’università di Toronto, da febbraio a maggio del 2020 il settore farmaceutico ha invece triplicato i suoi sforzi per creare farmaci contro il covid-19. Si è scoperto che il desametasone, uno steroide che esiste da decenni, è in grado di ridurre di più del 12 per cento il tasso di mortalità tra i pazienti più gravi in terapia intensiva. I primi indizi fanno pensare che i trattamenti più recenti, come la terapia con anticorpi monoclonali bamlanivimab, potrebbero aiutare i pazienti appena contagiati che non sono stati ancora ricoverati in ospedale. Ma questi successi, anche se significativi, sono insufficienti. La maggior parte dei farmaci si è rivelata inefficace. Gli operatori sanitari riescono a salvare i pazienti più con le cure mediche di base che con le nuove panacee farmaceutiche: un risultato prevedibile, perché i farmaci antivirali tendono a garantire solo benefici modesti.

Gli altri virus

La ricerca di terapie per il covid-19 è stata rallentata da una lunga serie di studi poco rigorosi che hanno dato risultati inutili e in alcuni casi fuorvianti. Molte delle migliaia di sperimentazioni cliniche avviate si basavano su un campione troppo limitato per dare risultati statisticamente validi. In alcuni casi gli studi non avevano il gruppo di controllo, l’insieme di pazienti ai quali viene somministrato un placebo e che costituiscono una base di confronto su cui valutare gli effetti di un farmaco. Altri studi si sovrapponevano tra loro. Almeno 227 riguardavano l’idrossiclorochina, il farmaco antimalarico che l’ex presidente Donald Trump ha promosso per mesi. Studi importanti alla fine hanno confermato che l’idrossiclorochina non serve contro il covid-19, ma nel frattempo centinaia di migliaia di persone erano state reclutate per partecipare a ricerche inutili.

Durante una catastrofe, quando gli ospedali si riempiono di pazienti e i morti aumentano, è difficile mettere in piedi uno studio accurato, figuriamoci coordinarne vari. Ma il coordinamento è possibile. Durante la seconda guerra mondiale le agenzie del governo statunitense arruolarono aziende private, università, esercito e altre istituzioni per accelerare la ricerca medica, in uno sforzo ben orchestrato per far arrivare il prima possibile i farmaci dai laboratori ai campi di battaglia. I risultati – terapie rivoluzionarie contro la malaria e almeno dieci vaccini per l’influenza e altre malattie – furono un trionfo “non tanto a livello scientifico quanto organizzativo”, ha scritto Kendall Hoyt del Dartmouth college.

Trionfi simili ci sono stati anche nel 2020, ma non negli Stati Uniti. A marzo i ricercatori britannici, approfittando del sistema sanitario pubblico che c’è nel Regno Unito, hanno lanciato uno studio chiamato Recovery, che nei mesi seguenti ha arruolato 17.600 malati di covid-19 in 176 istituzioni. Il Recovery ha dato risposte definitive su desametasone e idrossiclorochina ed è destinato a darne su molti altri trattamenti. Nessun altro studio ha influito di più sul trattamento del covid-19. Gli Stati Uniti stanno cercando di recuperare terreno. Ad aprile i National institutes of health hanno avviato un programma, chiamato Activ, in cui scienziati delle università e del settore industriale hanno collaborato alla sperimentazione dei farmaci più promettenti. Questo progetto è arrivato in ritardo, ma probabilmente sopravvivrà alla pandemia, consentendo in futuro ai ricercatori di separare rapidamente il grano medicinale dalla pula farmaceutica.

Adriana Helfen, scienziata dell’esercito tedesco (Rafael Heygster e Helena Manhartsberger)

Grazie a quello che è stato fatto contro il covid -19, nei prossimi anni potremo affrontare meglio la lunga e sempre più intensa guerra contro i virus letali. L’ultima volta che un’epidemia ha fatto tanti danni, nel 1918, gli scienziati stavano ancora imparando a conoscere i virus, e sprecarono tempo alla ricerca di un batterio. Oggi le cose sono cambiate. Con tante persone che studiano il modo in cui i virus aggrediscono l’organismo, il mondo sta imparando cose che potrebbero cambiare per sempre il nostro modo di pensare a questi patogeni.

Riflettiamo, per esempio, sulle conseguenze a lungo termine delle infezioni virali. Anni dopo che il virus sars originale aveva colpito Hong Kong, nel 2003, un quarto dei sopravvissuti soffriva ancora di encefalomielite mialgica, una malattia cronica i cui sintomi, come l’estrema stanchezza e l’annebbiamento della mente, possono peggiorare notevolmente anche dopo un leggero sforzo. Si pensa che questa patologia sia collegata alle infezioni virali e a volte segue le grandi epidemie. Quando il sars-cov-2 ha cominciato a diffondersi, le persone che soffrivano di encefalomielite mialgica non sono rimaste sorprese di sapere che c’erano decine di migliaia di long-haulers, persone con sintomi che durano settimane o mesi.

Vantaggi a cascata

L’encefalomielite e altre malattie simili, come la disautonomia, la fibromialgia e la sindrome da attivazione dei mastociti, sono state a lungo trascurate, nella convinzione che i sintomi fossero immaginari o legati a problemi psichiatrici. Per queste patologie i finanziamenti sono scarsi, quindi sono pochi gli scienziati che le studiano. Questo spiega perché all’inizio dell’epidemia di covid-19 non c’erano terapie per i long-haulers, i cui disturbi sono stati minimizzati come era successo con i malati di encefalomielite. Ma il fatto che tante persone fossero in questa situazione ha costretto la comunità scientifica a occuparsene. “Gli effetti a lungo termine del covid” oggi vengono presi sul serio, dice Jennifer Brea, direttrice esecutiva del gruppo di sostegno #MeAction. Spera che questo possa mettere sotto i riflettori tutte le malattie postinfettive. Il covid-19 potrebbe involontariamente portare a una svolta anche per l’encefalomielite.

Letti per pazienti covid in un auditorium di Hannover (Rafael Heygster e Helena Manhartsberger)

Ci spera anche Anthony Fauci, che negli Stati Uniti dirige l’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive. Fauci ha passato decenni a studiare il virus hiv, e nel 2019 ha sostenuto in un articolo che “i vantaggi collaterali degli studi” sull’hiv hanno rivoluzionato la nostra comprensione del sistema immunitario e di come le malattie lo attaccano. Hanno permesso di trovare tecniche per sviluppare farmaci antivirali che hanno portato ai trattamenti per l’epatite c. Versioni inattivate dell’hiv sono state usate per trattare tumori e malattie genetiche.

Dallo studio di una malattia sono arrivati benefici a cascata. Con il covid-19 succederà lo stesso. Fauci aveva osservato sintomi prolungati dopo altre infezioni virali, ma non aveva “una conoscenza scientifica abbastanza approfondita”, spiega. Questi casi sono difficili da studiare, perché di solito è impossibile identificare l’agente patogeno responsabile. Ma il covid-19 ha creato “la situazione più insolita che si possa immaginare”: un enorme numero di persone con sintomi prolungati quasi certamente causati da un virus conosciuto. “È un’opportunità che non bisogna lasciarsi sfuggire”.

Il covid-19 ha seminato il panico anche perché sembra comportarsi in modo insolito. Provoca sintomi lievi in alcuni e gravi in altri. È un virus respiratorio che però sembra attaccare anche il cuore, il cervello, i reni e altri organi. Ha colpito alcune persone che erano guarite da poco. Ma ci sono molti altri virus che hanno capacità simili, semplicemente non infettano milioni di persone in pochi mesi e non attirano l’attenzione di tutta la comunità scientifica. Grazie al covid-19, moltissimi ricercatori stanno individuando e studiando questi aspetti più rari delle infezioni virali.

Ricercatori dell’esercito tedesco. Monaco, Germania, aprile 2020 (Rafael Heygster e Helena Manhartsberger)

Almeno venti virus conosciuti, compresi quelli dell’influenza e del morbillo, possono scatenare la miocardite, un’infiammazione cardiaca. In alcuni casi il problema si risolve da solo, ma in altri lascia cicatrici permanenti e in altri ancora diventa letale. Nessuno conosce la percentuale di persone affette dalla versione più leggera della miocardite virale, perché i medici in genere la notano solo nei pazienti che si fanno curare. Ma ora i ricercatori stanno esaminando con attenzione anche il cuore di malati con infezioni non gravi da covid-19 o asintomatiche. Quello che impareranno potrebbe permetterci di evitare morti per altre infezioni.

Anche se molto comuni, i virus respiratori sono spesso trascurati. Il virus respiratorio sinciziale, i virus parainfluenzali, il rinovirus, l’adenovirus, il bocavirus, sono tutti coronavirus umani, che per lo più provocano problemi lievi simili al raffreddore, ma possono anche essere più aggressivi. Con che frequenza? Perché? È difficile dirlo, visto che questi virus attirano pochi finanziamenti e scarso interesse. “Si tende a pensare che siano solo raffreddori e che non ci sia molto da imparare”, dice Emily Martin dell’università del Michigan. È un ragionamento miope, visto che i virus respiratori sono quelli che hanno più probabilità di causare pandemie perfino peggiori di quella attuale.

Anche il modo in cui i virus si spostano nell’aria è stato a lungo trascurato. “C’è questa idea molto radicata”, sostiene Linsey Marr dell’università Virginia Tech, che i virus si diffondano principalmente attraverso i droplet (goccioline che emettiamo quando tossiamo o parliamo) invece che attraverso l’aerosol (particelle più piccole che viaggiano più lontano). Questa teoria risale agli anni trenta, quando gli scienziati stavano ribaltando nozioni obsolete come quella secondo cui le malattie erano causate “dall’aria malsana”. Ma ora abbiamo prove schiaccianti che il sars-cov-2 è in grado di diffondersi attraverso aerosol, dice Marr, uno dei pochi scienziati che, prima della pandemia, già studiava il modo in cui i virus si diffondono nell’aria. “Questa teoria è stata accettata più negli ultimi sei mesi che nei precedenti dodici anni”.

Alcune ricerche poco rigorose hanno avuto molta visibilità sui mezzi d’informazione

Ricerche accantonate

Un’altra pandemia sarà inevitabile, ma troverà una comunità di scienziati molto diversa da quella che ha dovuto affrontare il covid-19. Si cercherà immediatamente di stabilire se l’agente patogeno, molto probabilmente un altro virus respiratorio, si sposta attraverso gli aerosol e se si diffonde prima di causare sintomi. Si chiederà da subito alle persone di indossare le mascherine e di migliorare la ventilazione degli spazi chiusi. Gli scienziati anticiperanno una possibile ondata di sintomi persistenti e, si spera, scopriranno un modo per prevenirli. Potrebbero prendere le piattaforme per i vaccini che hanno funzionato meglio contro il covid-19, inserire il materiale genetico del nuovo patogeno e avere un vaccino pronto in pochi mesi.

Ma il fatto che tutta l’attenzione si sia concentrata sul covid-19 ha avuto anche conseguenze negative. La scienza è fondamentalmente un gioco a somma zero: quando un argomento monopolizza l’attenzione e i finanziamenti, tutti gli altri ne risentono. Nel 2020 molti settori di ricerca hanno rallentato. Gli studi a lungo termine sulle migrazioni degli uccelli e sui cambiamenti climatici, per esempio, avranno per sempre dei buchi nei loro dati perché la ricerca sul campo è stata annullata. Negli Stati Uniti l’80 per cento degli studi clinici su malattie diverse dal covid-19 sono stati interrotti perché gli ospedali erano oberati e i volontari erano bloccati a casa. Anche la ricerca su altre malattie infettive è stata messa a dura prova. “Tutti gli studi a cui stavo lavorando prima dell’inizio della pandemia sono stati accantonati”, dice Angela Rasmussen dell’università di Georgetown, che di solito fa ricerca sull’ebola e sulla mers.

La pandemia di covid-19 è una catastrofe unica ed è ragionevole che sia diventata la priorità della società e degli scienziati. Ma questa svolta è stata determinata anche dall’opportunismo. I governi, le organizzazioni benefiche e le università hanno dirottato investimenti enormi verso la ricerca sul nuovo coronavirus. Negli Stati Uniti i National institutes of health hanno ricevuto quasi 3,6 miliardi di dollari dal congresso. La fondazione di Bill e Melinda Gates ha stanziato 350 milioni di dollari. “Quando ci sono grandi somme di denaro in gioco tutti fanno in modo di accaparrarsele”, spiega Mad­hukar Pai. In precedenza Pai lavorava sulla tubercolosi, che ogni anno causa 1,5 milioni di morti (più o meno lo stesso numero di vittime del covid-19 nel 2020), ma la ricerca su questa malattia è stata per lo più sospesa. “E metà di noi è passata a studiare il covid-19”, spiega. “È un buco nero che ci risucchia tutti”.

Mentre gli esperti più qualificati si sono rapidamente spostati sulla ricerca contro il covid-19, altri sono rimasti bloccati a casa a cercare di capire come potevano contribuire. Usando i sistemi che hanno reso la scienza più veloce, potevano scaricare dati da archivi gratuiti, fare analisi rapide, pubblicare il loro lavoro online e promuoverlo su Twitter. Ma così facendo sono entranti in territori sconosciuti, finendo per peggiorare le cose. Nathan Ballantyne, filosofo della Fordham university, lo chiama “sconfinamento epistemico”. Può essere una buona cosa: la deriva dei continenti è stata scoperta dal meteorologo Alfred Wegener; i microbi sono stati identificati per la prima volta da Antonie van Leeuwenhoek, un commerciante di tessuti. Ma di solito lo sconfinamento epistemico crea solo problemi, specialmente quando l’inesperienza è accompagnata da un’eccessiva sicurezza.

Alcune ricerche poco rigorose hanno condizionato il modo in cui veniva raccontata la pandemia. Il 16 marzo 2020 due esperti di biogeografia hanno pubblicato uno studio preliminare in cui sostenevano che il covid-19 “avrebbe colpito in modo marginale la regione dei tropici” perché si diffonde meno nei luoghi caldi e umidi. Gli esperti hanno subito notato che le tecniche usate dagli autori dello studio, pensate per costruire modelli della distribuzione geografica di specie animali e vegetali, non erano adatte a simulare la diffusione di virus come il sars-cov-2. Ma quello studio è stato ripreso da più di cinquanta giornali e dal Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite. Nei mesi seguenti il covid-19 si è diffuso rapidamente in molti paesi tropicali, tra cui Brasile e Indonesia, e gli autori dello studio hanno modificato le loro conclusioni.

Studi inaffidabili

Gli incentivi a sconfinare sono notevoli. Il mondo accademico è come una piramide: nel corso della sua carriera ogni docente di biomedicina forma in media sei studenti di dottorato, ma solo il 16 per cento di loro arriva a occupare posizioni di rilievo. La concorrenza è feroce, per avere successo bisogna pubblicare, ed è più facile riuscirci se i risultati dello studio sono straordinari. Questi fattori spingono i ricercatori a dare la preferenza ai tempi brevi e alle notizie sensazionali a svantaggio del rigore, e la pandemia ha accentuato questa tendenza. In un mondo ansioso di avere informazioni, qualsiasi nuovo articolo può catturare l’attenzione della stampa e ottenere centinaia di citazioni.

Poi c’è il problema che non tutti i ricercatori hanno potuto dedicarsi allo studio della pandemia. A essere penalizzate sono state soprattutto le donne, che hanno meno tempo per fare ricerca sia perché svolgono la maggior parte del lavoro domestico e di cura dei figli sia perché si occupano dell’insegnamento più degli uomini. Questi oneri sono aumentati quando è cominciata la pandemia, e poche scienziate “hanno potuto dedicarsi al nuovo campo di studi e avviare nuovi progetti di ricerca”, afferma Molly M. King, sociologa dell’università di Santa Clara, in California. Nella primavera del 2020 su medRxiv, un sito che raccoglie i preprint dei nuovi studi clinici, la percentuale di articoli in cui una donna era la prima autrice era diminuita del 44 per cento rispetto al 2019. L’80 per cento dei gruppi creati dai governi di 87 paesi per affrontare l’emergenza era guidato da uomini. In tv e sui giornali statunitensi gli uomini erano citati quattro volte più spesso rispetto alle colleghe.

Anche gli scienziati appartenenti alle minoranze hanno avuto più difficoltà a spostarsi su altri settori di ricerca, a causa di una serie di problemi che consumavano il loro tempo e le loro energie: i ricercatori neri, ispanici e nativi avevano più probabilità di perdere un familiare per il covid-19; molti sono rimasti sconvolti dalle morti di Breonna Taylor, George Floyd e Ahmaud Arbery, che hanno portato milioni di persone a manifestare contro il razzismo negli Stati Uniti; spesso dovevano gestire la diffidenza dei parenti nei confronti del sistema sanitario per via delle discriminazioni storiche nell’accesso alle cure. All’improvviso hanno dovuto aiutare le loro istituzioni, formate prevalentemente da bianchi, a combattere il razzismo. Neil Lewis Jr., docente della Cornell university che studia le discriminazioni in ambito sanitario, mi ha detto che molti psicologi avevano a lungo considerato irrilevante il suo lavoro. “Ora all’improvviso la mia casella di posta in arrivo è piena”, dice. Alcuni dei suoi parenti si sono ammalati e uno è morto.

Da sapere
Malattie trascurate

◆ La pandemia causata dal virus sars-cov-2 ha fatto crescere la consapevolezza sull’importanza di finanziare la ricerca sulle malattie infettive. Negli Stati Uniti e in Europa sono stati stanziati fondi senza precedenti per trovare nuovi trattamenti e per sviluppare i vaccini. “Ma il covid-19 è solo una delle tante malattie infettive che ogni anno colpiscono milioni di persone”, scrivono i ricercatori Miguel Prudêncio e Joana C. Costa in uno studio pubblicato su Nature. “Nel 2018 l’aids, la tubercolosi e la malaria hanno causato 2,7 milioni di morti. Queste malattie colpiscono soprattutto i paesi dove i livelli di povertà sono più alti, e dove la mancanza di fondi per la ricerca crea un circolo vizioso in cui le cure diventano sempre più costose, le persone che possono permettersele sono poche e questo fa aumentare le condizioni di povertà che contribuiscono a far diffondere le malattie. Per trovare rimedi contro queste e altre malattie infettive serve un impegno globale”.


Salute e discriminazioni

Il covid-19 ha già stravolto la scienza, ma forse il cambiamento più profondo deve ancora avvenire: un modo nuovo di pensare alla medicina. Nel 1848 il governo prussiano chiese a un giovane medico, Rudolf Virchow, di indagare su un’epidemia di tifo in Alta Slesia. Virchow non sapeva cosa avesse causato quella devastante malattia, ma si rese conto che la rapidità con cui si era diffusa era dovuta alla malnutrizione, alle pessime condizioni di lavoro, agli alloggi affollati e alla scarsa igiene, problemi che richiedevano riforme sociali e politiche. “La medicina è una scienza sociale”, scriveva Virchow, “e la politica non è altro che medicina su scala più ampia”. Quest’idea fu messa da parte alla fine dell’ottocento, quando s’impose la teoria dei germi. Furono scoperti i microbi responsabili di tubercolosi, peste, colera, dissenteria e sifilide, e la maggior parte degli scienziati si concentrò su questi nemici appena identificati. I fattori sociali erano considerati distrazioni politiche per i ricercatori, che dovevano “essere il più possibile imparziali”, spiega Elaine Hernandez, sociologa della medicina dell’università dell’Indiana. Così, mentre i nuovi dipartimenti di sociologia e antropologia culturale continuavano a studiare il lato sociale della salute, le prime scuole di sanità pubblica si concentravano sulla lotta tra i germi e gli esseri umani. Questa frattura si è allargata a mano a mano che i miglioramenti delle condizioni igieniche, degli standard di vita, dell’alimentazione e dei servizi igienico-sanitari hanno permesso alle persone di vivere più a lungo: più le condizioni sociali miglioravano, più facilmente potevano essere ignorate.

La rotta si è invertita di nuovo nella seconda metà del novecento. I movimenti per i diritti delle donne e per i diritti civili, l’attivismo ambientalista e le proteste contro la guerra in Vietnam hanno creato una generazione di studiosi che ha messo in dubbio “la legittimità, l’ideologia e la pratica di qualsiasi scienza che ignori le disuguaglianze sociali ed economiche”, ha scritto Nancy Krieger di Harvard. A partire dagli anni ottanta, questa nuova ondata di epidemiologi sociali ha ripreso a studiare il modo in cui la povertà, i privilegi e le condizioni di vita influiscono sulla salute delle persone. Ma il covid-19 ha dimostrato che questo processo non è ancora completo. I politici inizialmente hanno definito il covid-19 un “grande livellatore”, ma negli Stati Uniti i dati demografici sui contagi e sui morti hanno mostrato fin da subito che la malattia colpiva in modo sproporzionato le minoranze. Queste disparità non sono dovute ad aspetti biologici ma derivano dal fatto che le persone che vivono in quartieri più poveri e che guadagnano meno fanno più fatica ad accedere alle cure mediche. Lo stesso problema che Virchow aveva dovuto affrontare più di 170 anni fa.

A marzo 2020, quando negli Stati Uniti sono stati imposti i primi provvedimenti restrittivi, una delle domande più importanti che giravano nella testa di Whitney Robinson, ricercatrice dell’università del North Carolina a Chapel Hill era: i nostri figli non andranno a scuola per due anni? Mentre gli scienziati biomedici tendono a concentrarsi sulla malattia e sulla guarigione, gli epidemiologi sociali come Robinson “pensano ai periodi critici che possono influire sulla traiettoria di una vita”. Interrompere il percorso scolastico di un bambino nel momento sbagliato può influire su tutta la sua vita, quindi gli scienziati dovrebbero dare la priorità alle ricerche per capire se e come riaprire le scuole in sicurezza. Ma la maggior parte degli studi sulla diffusione del covid-19 nelle scuole aveva una portata limitata.

Gli orrori che aveva visto in Alta Slesia spinsero Rudolf Virchow, il futuro “padre della patologia moderna”, a chiedere riforme sociali. La pandemia di covid-19 ha colpito gli scienziati allo stesso modo. Ricercatori solitamente pacati si sono infuriati quando hanno visto che strumenti potenzialmente rivoluzionari come i test diagnostici economici erano trascurati da un’amministrazione negligente. Riviste austere come il New England Journal of Medicine e Nature hanno pubblicato editoriali in cui rimproveravano l’amministrazione Trump per i suoi errori e incoraggiavano gli elettori a chiederne conto al presidente. Il covid-19 potrebbe essere il catalizzatore che riunifica gli aspetti sociali e biologici della medicina, ricollegando tra loro discipline rimaste separate per troppo tempo. “Studiare il covid-19 non significa solo studiarne gli aspetti biologici”, sostiene Alondra Nelson, presidente del Social science research council. “Quello che sembra un singolo problema riguarda in realtà tutta la società. Quindi dobbiamo studiare ogni suo aspetto, dalle catene di distribuzione ai rapporti personali”. La comunità scientifica ha trascorso gli anni prima della pandemia a progettare modi più rapidi per condurre esperimenti, condividere dati e sviluppare vaccini, quindi si è potuta mobilitare rapidamente quando il covid-19 si diffuso. Ora l’obiettivo dovrebbe essere affrontare i tanti limiti che la pandemia ha fatto emergere: incentivi sbagliati, pratiche dispendiose, eccessiva sicurezza, disuguaglianza, pregiudizi nel mondo della medicina. Il covid-19 ha offerto al mondo della scienza la possibilità di mettere in pratica una delle sue caratteristiche più importanti: la capacità di correggersi. ◆ bt

Ed Yong è un giornalista scientifico della rivista statunitense The Atlantic. In Italia ha pubblicato Contengo moltitudini: i microbi dentro di noi e una visione più grande della vita (La nave di Teseo 2019).

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Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati