“Che cosa ti fa soffrire di più?”. Quasi tutti quelli a cui faccio questa domanda mi rispondono: l’assenza di speranza. Poi arrivano i racconti, con maggiore o minore sconforto, depressione e rabbia. Nove volte su dieci il seguito è affidato a “dio” e l’infelicità è accettata, accolta. “Grazie a dio”, el Hamdulillah. Le teste non possono più riflettere, né gli occhi guardare in faccia. Le braccia non hanno più il diritto di abbracciare. Cadono inerti.

Sui volti mascherati la solitudine si vede con la lente d’ingrandimento, è tutta concentrata negli sguardi che esitano tra fissarsi e sfuggire. Sono pochi quelli al sicuro; pochi quelli che hanno ancora la forza di posarsi nello sguardo dell’altro. Ieri, negli occhi di un’irachena esiliata tre volte, dall’Iraq all’Iraq, dall’Iraq alla Siria e dalla Siria al Libano, ho visto cosa significano trent’anni di disastro. Quando il suo dolore ha trovato qualche parola per raccontarsi, le lacrime e l’invocazione a Cristo (Ya Yessoua el Massih, “Oh Gesù il messia”) le hanno dato la forza di non avere più forza; la forza di andare semplicemente avanti. Fa la ricamatrice e ha ripreso in mano il suo filo e il suo ago, un giorno dopo l’altro, un punto dopo l’altro, con i figli e i nipoti. In arabo c’è un’espressione per indicare quest’esistenza al ribasso: è Al hayat men ellet el mawt, la vita che deve la sua vita solo all’assenza della morte. Per chi ha fame, per chi ha perso tutto, perfino il tetto, la parola sopravvivenza non ha senso. Probabilmente mi direbbe così il vecchio che si è stabilito sotto un ponte a Sin el Fil. Accanto a sé ha il contenuto di casa sua, estratto dalle rovine e impilato: libri, stoviglie, una lampada, un materasso e la sedia sulla quale sedeva. Stava leggendo il giornale: che sentimenti gli suscitavano le notizie del giorno? Cosa poteva ispirargli lo spettacolo osceno, ripetuto all’infinito, di coloro che hanno governato il suo naufragio?

Sui volti mascherati la solitudine si vede con la lente d’ingrandimento, è tutta concentrata negli sguardi che esitano tra fissarsi e sfuggire

In Libano i rapporti umani saranno anche un patrimonio quasi innato, ma in questo momento sta succedendo qualcosa di assolutamente inedito: stanno accusando un colpo enorme. Restano pur sempre il capitale più prezioso del paese, il suo patrimonio principale, ma non sono più il balsamo che erano: anche loro sono stati colpiti dalla malattia. In generale, a eccezione dei formidabili gruppi di solidarietà animati dai giovani, i libanesi hanno esaurito le riserve d’energia, le riserve di “sé per l’altro”. L’impoverimento, la miseria, il moltiplicarsi dei vicoli ciechi, i cumuli di spazzatura, di menzogne, l’esilio per tutti i giovani che riescono a partire, il coronavirus, le misure di protezione che isolano… I giovani non ne possono più.

Il momento peggiore, innominabile, è il 4 agosto, l’esplosione di Beirut. Nessuno riesce a far fronte a questa cosa. Dove trovare parole che siano all’altezza? Anche telefonarsi, chiedersi notizie, è diventato laborioso, difficile. Battersi per cambiare la realtà, renderla migliore, è ormai un’impresa titanica. Niente dice che il cambiamento politico sia impossibile per sempre, mentre tutto dice che il cambiamento esige una miscela eroica di rinuncia e di combattività, di grinta, di umiltà, di coraggio e di autorità tutti insieme. E comunque non basta. Il paese è sull’orlo della fossa, le sue esigue probabilità di sopravvivenza dipendono ormai da una rottura radicale. Non c’è più via d’uscita possibile se non l’utopia. Ma quale? Sperimentare un governo provvisorio laico, affrancato dall’identità comunitaria e dotato di poteri speciali.

christian dellavedova

Intanto il lutto, l’impotenza, l’assenza di prospettive sono nell’aria ovunque. Più prendono piede, più incombe la follia. Più incombe la follia, più si radica il divario tra dentro e fuori, tra passato e futuro, tra sé e sé, tra sé e l’altro. Ciò che funzionava un po’ o appena appena, ora non funziona più. Pur di reggere, si fa il meno, ci si rintana; per non perdere la ragione la si usa al minimo. Il grande pericolo è proprio qui: qui dove per non diventare pazzi si rinuncia, si banalizza, ci si perde. Si perde la follia che salva da quella che uccide. E così il verbo andare avanti sostituisce il verbo muoversi. Si segna il passo, ci si adatta. Ormai, in questa ripartenza accompagnata dall’unico bene che non si può sottrarre al Libano, la sua luce, bisogna dare molto per ricevere, cercare molto per trovare. Inventare molto per non sprofondare. Spendersi molto per non accontentarsi di essere vivi: per vivere. E allora, come in ogni condizione carceraria, le intrusioni della bellezza sono ancora più magiche, proprio perché non ci si credeva più. Non sono solo estetiche. Sono legate a qualsiasi cosa resista all’abbrutimento. Sono piccole. Artigianali. Consapevoli della loro fragilità. Quando falliscono, non importa: sono pronte a ricominciare. Sono queste minuscole vittorie dell’empatia sull’odio, dell’etica sulla malvagità, della lungimiranza sul risentimento, a costituire il formicaio della nostra salvezza. Quelli che si mobilitano per nutrire, curare, ricostruire sanno il valore e l’insufficienza di queste gocce nel mare. Sono loro che tengono accese le luci. Sono i lampionai di un paese piombato nel buio.

Un tassista a cui ho chiesto cos’era cambiato in questi ultimi sei mesi nella sua solitudine ha riassunto la situazione con poche parole: “Non abbiamo più raddet faal”. Letteralmente “non reagiamo più”. Non rispondiamo più al fuoco. L’azione fa a meno di noi così come un verbo può stare senza soggetto. È vero che, dopo le poche conquiste di quella che un po’ sbrigativamente è stata chiamata “la rivoluzione”, i libanesi incassano ogni giorno un quantitativo spaventoso di umiliazioni e sofferenze. Di colpo mi chiedo se questa frase, facendo le debite proporzioni, non valga per il morale di tutti gli esseri umani del pianeta. Quello che si vive in Libano, in uno spazio saturo e frantumato, s’iscrive in un orizzonte temporale globale. Un tempo uscito dai cardini, che subisce un fenomeno paragonabile a un terremoto. Salvo che i danni intangibili di questo sisma temporale sono prima di tutto mentali.

Mentre scrivo queste parole mi arriva un messaggio. È di Anouk Grinberg, un’amica dai talenti innumerevoli che da Parigi mi manda il disegno di una “clessidra per idee nere”. Eccola, l’intrusione della bellezza. Ha forse i minuti contati?

Sì, appunto. Più sono fugaci più scintillano, quei minuti che resistono al rullo compressore dei giorni, dei mesi. La clessidra contro l’orologio, l’attenzione contro l’attesa. Può bastare una parola, un colore, il sorriso di un bambino per rimettere in moto il tempo. Per agire invece di essere agiti. Per piangere di qual­cosa che non sia l’aver perso tutto. Per ridiventare la vita. ◆ ma

Dominique Eddé

è una scrittrice libanese. Il suo ultimo libro uscito in Italia è Il crimine di Jean Genet (ObarraO 2009). Questo articolo è uscito su L’Orient‑Le Jour con il titolo Sablier pour idées noires.

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Questo articolo è uscito sul numero 1389 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati