In quel giorno di novembre del 2015 l’obiettivo della polizia del Cairo erano gli ambulanti che vendevano calzini, occhiali da sole da due dollari e bigiotteria, e si erano accalcati sotto i portici degli eleganti edifici del quartiere di Heliopolis. Blitz simili erano abbastanza frequenti, ma quegli ambulanti stavano occupando una zona particolarmente delicata. A un centinaio di metri da lì c’è il palazzo riccamente decorato in cui il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, l’uomo forte proveniente dall’esercito, riceve i ministri e i capi di stato stranieri. Mentre raccoglievano in fretta la loro merce dai tappeti e negli androni per scappare, gli ambulanti avevano un aiutante improbabile: un ricercatore italiano di nome Giulio Regeni.

Era arrivato al Cairo qualche mese prima per fare una ricerca per il suo dottorato a Cambridge, nel Regno Unito. Figlio di un rappresentante di commercio e di un’insegnante di un paese vicino a Trieste, Giulio Regeni era un ragazzo di 28 anni, di sinistra, affascinato dallo spirito rivoluzionario della primavera araba. Nel 2011, quando erano cominciate le manifestazioni di piazza Tahrir che avrebbero portato alla destituzione del presidente egiziano Hosni Mubarak, stava completando gli studi in scienze politiche e arabo all’università di Leeds. Nel 2013 era al Cairo per uno stage presso un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di proteste aveva spinto i militari a deporre il nuovo presidente islamista, Mohamed Morsi, e a mettere al suo posto Al Sisi. Come molti egiziani diventati ostili al governo troppo radicale di Morsi, Regeni aveva approvato il cambiamento. “Fa parte del processo rivoluzionario”, aveva scritto a un amico inglese, Bernard Goyder, all’inizio di agosto del 2013. Poi a meno di due settimane di distanza le forze di sicurezza di Al Sisi avevano ucciso in un giorno ottocento sostenitori di Morsi, nel peggior massacro commesso dallo stato nella storia egiziana. Era l’inizio di una lunga spirale di repressione. Poco dopo Regeni era ripartito per l’Inghilterra, dove aveva cominciato a lavorare per la Oxford Analytica, una società privata di analisi strategiche.

Anche se da lontano, Regeni seguiva con attenzione il comportamento del governo Al Sisi. Scriveva articoli sul Nordafrica, analizzando le tendenze politiche ed economiche, e dopo un anno aveva messo da parte abbastanza soldi per iscriversi al dottorato di ricerca in sociologia dello sviluppo a Cambridge. Aveva deciso di studiare in particolare i sindacati indipendenti egiziani, che con una serie di scioperi senza precedenti, a partire dal 2006, avevano preparato la popolazione alla rivolta contro Mubarak. Dopo il fallimento della primavera araba, Regeni vedeva quei sindacati come l’unica fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011 il numero dei sindacati era notevolmente aumentato, passando da quattro a qualche migliaio. C’erano sindacati per tutte le categorie: macellai e maschere dei cinema, scavatori di pozzi e minatori, addetti a incassare le bollette del gas, e comparse delle scadenti telenovele che la tv trasmetteva durante il mese del ramadan. C’era perfino un sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua tutor, una stimata docente di Cambridge che nei suoi articoli aveva espresso un giudizio negativo su Al Sisi, Regeni aveva scelto di occuparsi degli ambulanti, ragazzi provenienti da villaggi lontani che si guadagnavano a stento da vivere sui marciapiedi del Cairo. Si era immerso in quel mondo sperando di riuscire a capire se il loro sindacato era in grado di innescare un cambiamento sociale e politico.

Ma nel 2015, quel tipo di immersione culturale, tanto cara ai nuovi arabisti, non era più così facile. Sul Cairo era scesa una cappa di sospetto. La stampa era stata imbavagliata, avvocati e giornalisti venivano regolarmente minacciati e i caffè del centro brulicavano di informatori. La polizia aveva fatto irruzione nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste. Sulle reti televisive controllate dal governo circolavano regolarmente voci di complotti stranieri.

Il sindacato degli ambulanti

Regeni non si era lasciato scoraggiare. Parlava cinque lingue, aveva una curiosità insaziabile ed emanava un fascino discreto che gli permetteva di avere una vasta cerchia di amicizie. Dai 12 ai 14 anni era stato sindaco dei giovani del paese dov’era nato, Fiumicello, in Friuli-Venezia Giulia. Era fiero della sua capacità di muoversi all’interno di culture diverse, e adorava la turbolenta vita di strada della capitale egiziana: i caffè fumosi, l’attività febbrile, le barche color pastello che scivolano sul Nilo di notte. Si era iscritto come ricercatore ospite all’Università americana del Cairo e aveva trovato una stanza a Dokki, un quartiere soffocato dal traffico tra le piramidi e il Nilo. Divideva l’appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che insegnava tedesco, e Mohamed el Sayad, un avvocato che collaborava con uno dei più antichi studi della città. Dokki non era un quartiere alla moda, ma era ad appena due fermate di metropolitana dal centro del Cairo, dal labirinto di alberghi economici, bar squallidi e condomini fatiscenti intorno a piazza Tahrir. Regeni aveva fatto subito amicizia con scrittori e artisti e praticava il suo arabo all’Abou Tarek, l’emporio di quattro piani con le insegne al neon che è il posto più famoso in città per mangiare il koshari, il piatto tradizionale egiziano a base di riso, pasta e lenticchie.

Passava ore a intervistare gli ambulanti di Heliopolis e del piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per conquistare la loro fiducia, mangiava nelle stesse sudicie bancarelle. Il suo tutor all’università americana lo aveva avvertito che rischiava un’intossicazione alimentare, ma a lui non importava: scivolava per le vie del Cairo con tranquilla determinazione.

Per caso Valeriia Vitynska, una ragazza ucraina conosciuta a Berlino quattro anni prima, era arrivata in città per lavoro. Si erano rivisti. “Era più bella di quanto ricordassi”, aveva scritto in un messaggio a un amico. Erano andati insieme sul mar Rosso, e quando lei era tornata a Kiev, avevano mantenuto vivo il rapporto tramite Skype. “Era bellissimo e molto intenso”, mi ha detto Paz Zárate, un’amica di Giulio. “Lui era così felice, così pieno di speranze per il futuro”.

Ma Regeni era anche consapevole dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente”, aveva scritto a Goyder un mese dopo il suo arrivo. “Sono tutti coscienti dei giochi dietro le quinte”. A dicembre aveva partecipato a una riunione di attivisti del sindacato nel centro della città e l’aveva raccontata, usando uno pseudonimo, in un articolo per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante la riunione, aveva detto agli amici di aver notato una ragazza velata che lo fotografava con il cellulare. Era rimasto sconcertato. Si era lamentato, sempre con i suoi amici, del fatto che alcuni ambulanti gli chiedevano insistentemente regali, come un cellulare nuovo. Poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo robusto sulla quarantina di nome Mohammed Abdallah, aveva preso una strana piega.

Abdallah, che prima di diventare capo del sindacato degli ambulanti aveva lavorato per una decina di anni nella distribuzione di un tabloid della capitale, era la sua guida, gli dava consigli e lo presentava agli uomini che poteva intervistare. Una sera, all’inizio di gennaio del 2016, si erano incontrati in un ahua – un caffè dove gli uomini vanno a fumare il narghilè – vicino alla stazione Ramses. Bevendo un tè, avevano discusso di una “borsa di studio” di diecimila sterline (11mila euro) offerta da un’organizzazione non profit britannica chiamata Antipode foundation. Regeni si era offerto di presentare la domanda. Abdallah aveva un’altra idea. Gli chiese se quella cifra poteva essere usata per “progetti di liberazione”, per l’attivismo politico contro il governo egiziano. No, non era possibile, aveva risposto con fermezza Regeni. E Abdallah da quel momento aveva cambiato tono. Sua figlia aveva bisogno di un’operazione e sua moglie aveva un tumore. Avrebbe fatto “qualsiasi cosa” per soldi. Esasperato e al limite del suo arabo, Regeni aveva cominciato a gesticolare in modo teatrale. “Mish mumkin”, aveva detto. Non è possibile. “Mish professionale”.

Due settimane dopo, nel quinto anniversario della rivolta del 2011, la città era blindata. Piazza Tahrir era deserta fatta eccezione per un centinaio di sostenitori del governo portati lì con i pullman per agitare i cartelli a favore di Al Sisi e scattare selfie con gli agenti antisommossa. I servizi di sicurezza avevano cercato potenziali contestatori per settimane, facendo irruzione negli appartamenti e nei caffè. Come quasi tutti i gli abitanti del Cairo, Regeni aveva passato la giornata a casa, lavorando e ascoltando musica. Poi, quando era scesa la sera aveva pensato di poter lasciare l’appartamento. Un amico italiano lo aveva invitato alla festa di compleanno di un egiziano di sinistra. Avevano deciso di incontrarsi in un caffè vicino a piazza Tahrir.

Prima di uscire Regeni aveva ascoltato una canzone dei Coldplay, A rush of blood to the head e alle 19.41 aveva scritto a Vitynska. “Sto uscendo”. La fermata della metropolitana era vicina. Alle 20.18 Regeni non era ancora arrivato a destinazione. Il suo amico italiano aveva cominciato a cercare di contattarlo, all’inizio con i messaggi, poi telefonandogli freneticamente.

Le stanze della tortura

Tra le promesse più inebrianti della primavera araba c’era stata la speranza che il detestato apparato di sicurezza egiziano sarebbe stato smantellato. A marzo del 2011, nei primi mesi della rivolta, gli egiziani avevano preso d’assalto il quartier generale della Sicurezza di stato (i servizi segreti interni), il principale apparato della repressione nell’era di Mubarak, e ne erano usciti con liste di informatori, copie di foto di gente sorvegliata e trascrizioni di intercettazioni telefoniche. Alcuni avevano trovato addirittura le proprie fotografie. Molti chiedevano una riforma radicale del settore della sicurezza. Ma mentre il paese scivolava nel disordine postrivoluzionario, i discorsi riformisti erano andati perduti. Quando nel 2013 era salito al potere Al Sisi, era apparso chiaro che ben poco era cambiato.

La Sicurezza di stato ora si chiamava Agenzia per la sicurezza nazionale, ma era rimasta sotto il controllo del potente ministero dell’interno, dove si riteneva che lavorassero almeno un milione e mezzo tra poliziotti, agenti della sicurezza e informatori. Alcuni ufficiali che erano stati rimossi erano stati reintegrati e le stanze della tortura erano state riaperte. I leader dell’opposizione, temendo l’arresto, avevano lasciato il paese. Le organizzazioni per la difesa dei diritti umani avevano cominciato a contare gli “scomparsi” – oppositori svaniti nel nulla mentre erano sotto custodia senza essere stati ufficialmente arrestati né processati – fino a quando anche i difensori dei diritti umani avevano cominciato a scomparire.

Oggi l’Egitto è probabilmente un paese più duro di quanto non lo fosse sotto Mubarak. Dopo aver preso il potere, nel 2014 Al Sisi è stato eletto presidente con il 97 per cento dei voti. Il parlamento è pieno di suoi sostenitori e le prigioni piene di suoi oppositori: secondo la maggior parte delle stime, in carcere ci sono quarantamila persone. Quasi tutte appartengono all’organizzazione, dichiarata fuorilegge, dei Fratelli musulmani, il gruppo islamista fondato nel 1928, ma sono stati imprigionati anche avvocati, giornalisti e operatori umanitari. Al Sisi giustifica questi provvedimenti facendo leva sul pericolo dell’estremismo. Il gruppo Stato islamico attacca i soldati egiziani nel Sinai dal 2014. Quest’anno ha mandato attentatori suicidi in diverse chiese copte, uccidendo decine di persone. Molti egiziani temono che senza il pugno di ferro il loro paese, di 93 milioni di abitanti, potrebbe diventare la prossima Siria, Libia o Iraq. Quasi tutte le élite del paese, per timore dei disordini che seguirono alla primavera araba, sono decisamente dalla parte di Al Sisi. Molti intellettuali, delusi dal breve esperimento democratico, ammettono di non avere più idee.

Al Sisi, che non è affiliato a nessun partito politico, trae la sua autorità dalle figure più riverite dello stato – i generali, i giudici e i vertici della sicurezza – che sono sempre più potenti. Secondo un ambasciatore occidentale, con il quale ho parlato lo scorso inverno, ma che ha chiesto di rimanere anonimo perché non è autorizzato a discutere di questo argomento, il principio guida dello stato di polizia instaurato da Al Sisi è evitare che si ripeta quello che è successo nel 2011. Mubarak negli ultimi dieci anni della sua presidenza aveva fatto delle concessioni. I Fratelli musulmani avevano conquistato un quinto dei seggi in parlamento, la stampa godeva di una certa libertà, alcuni scioperi erano stati consentiti anche se malvolentieri. Ma niente di tutto questo lo aveva salvato, anzi, secondo i funzionari di Al Sisi, la sua indulgenza ne aveva accelerato la caduta. La lezione era chiara: “Cedere anche solo di un centimetro è un errore”, mi ha detto l’ambasciatore, e ha elencato le caratteristiche del regime di Al Sisi: “La segretezza, la paranoia e la convinzione che per affermare il proprio potere bisogna apparire forti, non mostrare nessuna debolezza né costruire ponti”.

Decifrare il funzionamento interno delle tre principali agenzie per la sicurezza egiziane è diventata una fissazione degli osservatori dell’Egitto. “Non c’è la minima trasparenza, sono scatole nere”, mi ha detto Michael Wahid Hanna, della Century foundation, un istituto di studi politici con sede a New York. “Ma qualcosa s’intuisce”. Le agenzie per la sicurezza sono fedeli ad Al Sisi, mi ha spiegato Hanna, ma sono sempre in concorrenza tra loro. L’Agenzia per la sicurezza nazionale, che si ritiene abbia centomila dipendenti e almeno altrettanti informatori, rimane la più visibile. I suoi rivali emergenti sono i servizi segreti militari, che tradizionalmente si sono sempre tenuti alla larga dalla politica, ma con Al Sisi, che ne è stato il direttore dal 2010 al 2012, hanno allargato il loro raggio d’azione. Poi ci sono i Servizi segreti generali, l’equivalente egiziano della Cia. Potentissimi sotto Mubarak, oggi sono ritenuti meno importanti.

Messe insieme, queste agenzie esercitano un’influenza spropositata. Possiedono reti televisive, controllano i parlamentari e si occupano anche di affari. I loro agenti pattugliano le strade e internet. Sono loro a decidere cosa è ammissibile e cosa non lo è nella società egiziana. Questo rende l’Egitto un posto molto pericoloso per chi lo critica: basta una mossa sbagliata o perfino una battuta avventata (ci sono state persone arrestate a causa dei loro post su Facebook) per provocare un arresto o il divieto di lasciare il paese. Amnesty international calcola che le persone scomparse siano circa 1.700 e afferma che le esecuzioni sommarie sono piuttosto comuni.

Nel 2015, quando Regeni tornò al Cairo, si pensava che per gli stranieri le regole fossero diverse. Era vero che qualcuno di loro era finito nei guai. All’inizio di quell’anno, il giornalista australiano Peter Greste, di Al Jazeera, era stato liberato dopo tredici mesi di prigione per “danni alla sicurezza nazionale”. Uno studente francese era stato espulso per aver intervistato alcuni militanti per la democrazia. I referenti accademici di Regeni gli avevano consigliato di evitare i contatti con i Fratelli musulmani. “La situazione qui non è facile”, aveva scritto Regeni in un messaggio a un amico un mese dopo il suo arrivo. Ma nel complesso, come mi ha detto la sua tutor, Regeni era convinto che il suo passaporto lo avrebbe protetto. L’unica paura che aveva era quella di essere rispedito a Cambridge prima di aver completato la sua ricerca.

L’Italia aveva continuato a vendere armi e sistemi di sorveglianza all’Egitto

Una settimana dopo la scomparsa di Regeni, l’ambasciatore italiano al Cairo Maurizio Massari ebbe un presentimento. Folti capelli grigi e fascino discreto, Massari popolare nell’ambiente diplomatico del Cairo. Gli piaceva ospitare studiosi e politici egiziani, e durante i weekend guardava le partite di calcio con l’ambasciatore statunitense Robert Stephen Beecroft. Ma ora camminava nervosamente per i lunghi corridoi di marmo dell’ambasciata italiana affacciata sul Nilo.

Nessuno sapeva nulla

La notizia della scomparsa di Regeni aveva cominciato a circolare in città. Gli amici del ricercatore avevano lanciato una campagna online con l’hashtag #whereisgiulio. I suoi genitori erano arrivati dall’Italia e stavano nel suo appartamento di Dokki. Girava voce che Regeni fosse stato rapito da un gruppo di estremisti islamici, una prospettiva terrificante perché sei mesi prima un ingegnere croato rapito alla periferia del Cairo era stato decapitato dal gruppo Stato islamico. L’ansia dell’ambasciatore aumentò dopo la risposta delle autorità egiziane. L’ufficio dei servizi segreti italiani presso l’ambasciata non aveva scoperto nulla, quindi aveva contattato il ministro degli esteri egiziano, il ministro della produzione militare e la consigliera per la sicurezza nazionale di Al Sisi, Fayza Abul Naga. Sostenevano tutti di non sapere nulla di Regeni.

L’incontro più inquietante fu quello con il potente ministro dell’interno Magdi Abdel Ghaffar, che aspettò sei giorni prima di dare un appuntamento a Massari e poi rimase impassibile mentre il diplomatico italiano gli chiedeva aiuto. Massari se ne andò perplesso. Abdel Ghaffar, per quarant’anni nei servizi di sicurezza, aveva un esercito di informatori sparsi per le strade del Cairo. Come poteva non sapere nulla?

La polizia avviò un’indagine ma sembrava seguire piste strane. Quando interrogarono Amr, un professore universitario di sinistra amico di Regeni, che ha chiesto di non pubblicare il suo cognome per timore di rappresaglie, gli agenti gli chiesero più volte se Giulio era gay. “Gli dissi che aveva una ragazza”, mi ha raccontato Amr quando abbiamo preso un caffè insieme nel quartiere di Maadi, dove abita. “E un altro agente insisteva: ‘È sicuro che sia etero? Magari è uno di quei bisessuali’. Io gli risposi: ‘Dovreste trovarlo e basta’”.

La crisi fu aggravata dall’arrivo di un’importante delegazione commerciale italiana. Fin dal 1914 l’Italia manteneva rapporti diplomatici con l’Egitto, anche se altri paesi avevano preso le distanze dal paese. Era il suo principale partner commerciale in Europa – più di cinque miliardi di euro di scambi nel 2015 – e Roma era fiera dei suoi stretti rapporti con Il Cairo. Nel 2014, quando era presidente del consiglio, Matteo Renzi era stato il primo leader occidentale ad accogliere Al Sisi nel suo paese, e l’Italia aveva continuato a vendere armi e sistemi di sorveglianza all’Egitto anche se le prove delle sue violazioni dei diritti umani erano sempre di più.

L’ambasciatore italiano Maurizio Massari (al centro) arriva all’obitorio del Cairo, il 4 febbraio 2016 (Mohamed Hossam, Epa/Ansa)

Il giorno dopo l’incontro dell’ambasciatore Massari con il ministro dell’interno egiziano, la ministra dello sviluppo economico italiana, Federica Guidi, arrivò al Cairo insieme a trenta imprenditori italiani, sperando di firmare contratti nei settori delle costruzioni, dell’energia e delle armi. Ma Regeni era diventato la priorità. Il gruppo andò subito al palazzo presidenziale di Al Ittihadiya. Mesi prima Regeni aveva assistito gli ambulanti durante il raid della polizia all’esterno dell’entrata posteriore di quel palazzo. A Massari e Guidi fu concesso un colloquio privato con Al Sisi, che ascoltò le loro preoccupazioni. Ma anche lui, come già aveva fatto il ministro dell’interno, offrì solo la sua comprensione.

La sera Massari organizzò un ricevimento per la delegazione commerciale italiana e per i più importanti uomini d’affari egiziani. Nella sala c’erano quasi duecento persone che sorseggiavano vino aspettando che venisse servita la cena. Tra loro c’era il viceministro degli esteri egiziano Hossam Zaki, che si fece strada tra la folla per raggiungere Massari, con un’espressione cupa.

“Non lo sa?”, gli disse.

“Cosa?”, chiese Massari.

“È stato trovato un corpo”.

Quella mattina l’autista di un autobus di linea che percorreva la trafficata autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria aveva notato qualcosa al bordo della strada. Quando era sceso aveva scoperto che si trattava di un corpo, nudo dalla cintola in giù e macchiato di sangue. Era quello di Regeni.

Massari si precipitò all’hotel Four Seasons, dove alloggiava Guidi, e insieme telefonarono a Renzi e al ministro degli esteri Paolo Gentiloni. Annullarono il ricevimento, rimandando a casa gli ospiti senza spiegazioni. Poi l’ambasciatore e la ministra andarono nell’appartamento di Regeni a Dokki, dove si trovavano i suoi genitori. Quando Massari abbracciò Paola Deffendi, la madre di Giulio, lei capì che i suoi peggiori timori erano confermati. “È finita”, avrebbe poi dichiarato alla stampa. “La felicità della nostra famiglia è durata così poco”.

Massari arrivò all’obitorio di Zeinhom, al centro del Cairo, dopo mezzanotte, accompagnato da alcuni dipendenti dell’ambasciata, tra cui un poliziotto. All’inizio, il personale dell’obitorio non volle lasciarli entrare. “Aprite la porta!”, gridò l’ambasciatore, visibilmente agitato. Alla fine lo condussero in una stanza gelida dove il corpo di Regeni giaceva su un tavolo di metallo. Aveva la bocca aperta e i capelli impastati di sangue. Gli mancava un dente davanti e altri erano scheggiati o rotti, come se fossero stati colpiti con un oggetto pesante. La pelle era coperta di bruciature di sigarette e aveva una serie di profonde ferite sulla schiena. Il lobo dell’orecchio destro era stato tagliato e le ossa dei polsi, delle spalle e dei piedi erano fratturate. Massari fu assalito da un senso di nausea. Sembrava che Regeni fosse stato ripetutamente torturato. Qualche giorno dopo l’autopsia condotta in Italia avrebbe confermato l’entità delle ferite: il ragazzo era stato picchiato, ustionato, colpito con una lama e probabilmente frustato sotto la pianta dei piedi per quattro giorni. Era morto quando gli avevano spezzato il collo.

L’ufficio di Ahmed Nagy, il procuratore a cui era stata inizialmente affidata l’inchiesta sull’omicidio di Regeni, è al settimo piano del fatiscente palazzo di giustizia di Giza, a pochi chilometri da piazza Tahrir. Ogni giorno quegli stretti corridoi vengono percorsi da centinaia di persone: avvocati e detenuti ammanettati e le loro famiglie. Quando sono andato a trovarlo qualche settimana dopo la morte di Regeni, Nagy, un uomo nerboruto che fuma una sigaretta dietro l’altra, era appollaiato dietro una scrivania in stile Luigi XIV coperta di carte e tazze di caffè bevute a metà.

Nelle prime ore dopo l’inizio dell’inchiesta, Nagy parlò con sorprendente franchezza. Disse ai giornalisti che Regeni aveva subito una “morte lenta” e ammise un possibile coinvolgimento della polizia: “Non lo escludiamo”, disse. Ma poco dopo affermò che Regeni era morto in un incidente d’auto. Sui giornali e in tv trovarono spazio teorie fantasiose: Regeni era gay ed era stato assassinato da un amante geloso. Era un drogato o una pedina dei Fratelli musulmani. Era una spia. Secondo alcuni articoli il suo lavoro per la Oxford Analytica, che è stata fondata da un ex funzionario dell’amministrazione Nixon, era un probabile indizio del fatto che era alle dipendenze della Cia o dei servizi segreti britannici. Durante una conferenza stampa il ministro dell’interno Abdel Ghaffar respinse l’ipotesi che Regeni fosse stato trattenuto dalle forze di sicurezza. “Ma certo che no!”, disse. “Questa è la mia ultima parola sull’argomento. Non è così”.

Far passare il tempo

L’ufficio di Nagy era fresco e buio, le finestre erano chiuse e l’aria usciva da un rumoroso condizionatore. Con i capelli pettinati all’indietro e un sorrisetto sulle labbra, Nagy ostentava sicurezza. Ma la spavalderia che aveva dimostrato sul caso Regeni era sparita. Ha risposto alle mie domande in tono cortese ma evasivo, accendendo una sigaretta dietro l’altra. “Alcuni casi di omicidio rimangono irrisolti”, ha concluso dopo trenta minuti di infruttuosa conversazione. “Dovremo aspettare. Inshallah (se Dio vuole) qualcosa salterà fuori”.

“Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani”, mi ha detto un funzionario

Le autorità egiziane hanno sempre affrontato le crisi in questo modo: prima negano, poi depistano e poi lasciano passare il tempo nella speranza che la storia venga dimenticata. Nel settembre del 2015, lo stesso mese in cui Regeni arrivò in Egitto, un elicottero militare egiziano sparò dall’alto uccidendo otto turisti messicani e quattro egiziani che stavano facendo un picnic nel deserto Occidentale. Erano stati scambiati per terroristi. Invece di scusarsi le autorità cercarono di dare la colpa alle guide turistiche, poi promisero un’inchiesta i cui risultati non sono stati mai resi noti. Il governo messicano era furioso.

Il 31 ottobre dello stesso anno l’Egitto in un primo momento si rifiutò di ammettere che una bomba del gruppo Stato islamico aveva abbattuto un aereo di linea russo facendolo precipitare nella penisola del Sinai e uccidendo 224 persone, anche se sia i russi sia il gruppo Stato islamico sostenevano che le cose erano andate così.

Ma se le autorità egiziane pensavano di poter continuare a bluffare sul caso Regeni, avevano fatto male i conti. Più di tremila persone parteciparono al funerale del ricercatore a Fiumicello. In tutta Italia, man mano che emergevano i dettagli della sua agonia, il dolore si trasformò in indignazione. I giornali pubblicarono la foto di Regeni sorridente con un gatto in braccio. Striscioni gialli con la scritta “Verità per Giulio Regeni” spuntarono in molte città e in molti paesi. “Ci fermeremo solo davanti alla verità”, disse il presidente del consiglio Renzi ai giornalisti. “Alla verità vera, non a una verità di comodo”.

La rabbia di Renzi si basava su più di un sospetto. Nelle settimane successive alla morte di Regeni gli Stati Uniti entrarono in possesso di informazioni esplosive provenienti dall’Egitto: prove che i servizi segreti egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità delle autorità egiziane”, mi ha detto un funzionario dell’amministrazione Obama, uno dei tre ex funzionari che hanno confermato le informazioni. “Non c’erano dubbi”. Su raccomandazione del dipartimento di stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti trasmisero le loro conclusioni al governo Renzi. Ma per evitare che fosse identificata la fonte, non fornirono agli italiani le prove originali né dissero quale agenzia della sicurezza pensavano fosse responsabile della morte di Regeni. “Non era chiaro chi diede l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, di ucciderlo”, ha detto un altro ex funzionario.

Quello che sapevano per certo, dissero agli italiani, era che le massime autorità egiziane erano pienamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevamo dubbi che il governo egiziano lo sapesse”, ha detto l’altro funzionario. “Non so se avesse qualche responsabilità. Ma di sicuro sapeva. Sapeva”.

L’ambasciata non era sicura

Qualche settimana dopo, all’inizio del 2016, l’allora segretario di stato statunitense John Kerry affrontò il ministro degli esteri egiziano Sameh Shoukry durante un incontro a Washington. Fu una conversazione “piuttosto tesa”, mi ha detto uno dei funzionari di Obama, anche se Kerry e i suoi collaboratori non riuscirono a capire se Shoukry faceva semplicemente ostruzionismo o se non conosceva la verità. Quell’atteggiamento brusco “lasciò stupite diverse persone” all’interno dell’amministrazione, perché Kerry aveva la fama di trattare sempre con i guanti di velluto l’Egitto, uno dei perni della politica estera statunitense fin dal trattato di pace israelo-egiziano del 1979.

A quel punto una squadra di sette investigatori italiani arrivò al Cairo per aiutare gli egiziani, ma fu ostacolata in ogni modo. I testimoni sembravano essere stati istruiti a dovere. Le registrazioni delle telecamere della stazione della metropolitana vicino all’appartamento di Regeni erano state cancellate. Le richieste dei tabulati telefonici furono respinte perché violavano i diritti costituzionali dei cittadini egiziani. Alcuni testimoni coraggiosi andarono a parlare con gli investigatori nel loro ufficio provvisorio all’ambasciata. Ma anche lì gli italiani furono in difficoltà.

Dopo la morte di Regeni, Massari cominciò a essere preoccupato per la sicurezza dell’ambasciata. Smise subito di usare la posta elettronica e il telefono per discutere questioni delicate. Per comunicare con Roma usò il vecchio sistema dei messaggi in codice su carta. Le autorità italiane temevano che gli egiziani che lavoravano all’ambasciata trasmettessero informazioni alle loro forze di sicurezza. Notarono che in un appartamento di fronte all’ambasciata, un buon posto per piazzare un microfono direzionale, le luci erano sempre spente. Massari, ancora traumatizzato dal ricordo delle ferite sul corpo di Regeni, si isolò, evitò qualsiasi incontro con gli altri ambasciatori. I suoi rapporti con il governo egiziano si deteriorarono. Le autorità locali, infuriate per un’intervista che aveva rilasciato a una rete televisiva italiana, decisero che stava cercando di incolparle per l’omicidio. “Avevamo dedotto che si era già schierato”, mi ha detto in seguito il viceministro degli esteri Hossam Zaki. “Era ambiguo. Non ci serviva più”. Quando Massari si avventurava fuori, la gente notava che aveva l’aria esausta. I suoi amici dissero che non riusciva a dormire.

La pressione internazionale sugli egiziani aumentò. I giornali italiani mandarono al Cairo i loro reporter investigativi più determinati. Nacque un sito chiamato Regeni­Leaks, che invitava gli egiziani a parlare. La madre di Regeni lanciò una campagna per scoprire la verità dichiarando, durante una conferenza stampa, che era stata in grado di riconoscere il corpo martoriato del figlio solo dalla “punta del naso”. Attori, personaggi della tv e calciatori italiani si schierarono con lei. Gli egiziani le dissero che suo figlio era “morto come un egiziano”, un grande onore nell’Egitto di Al Sisi. Il parlamento europeo approvò una dura risoluzione in cui condannava le circostanze sospette della morte di Regeni. A Londra fu presentata al parlamento una petizione con diecimila firme in cui si chiedeva al governo britannico di garantire “un’inchiesta credibile”. Anche l’Fbi aiutò gli italiani nelle indagini. Quando un’amica egiziana di Regeni atterrò negli Stati Uniti per una vacanza, la polizia la fermò per interrogarla.

A quel punto l’ostruzionismo non funzionò più. “Siamo nella merda fino al collo”, affermò il conduttore televisivo egiziano Amr Adeeb durante la sua trasmissione.

Il giacimento di gas

“Lei parla latino?”, mi ha chiesto il senatore italiano Luigi Manconi, che ha sempre sostenuto la famiglia Regeni, quando sono andato a trovarlo a Roma a gennaio di quest’anno. “C’è un’espressione latina, arcana imperii, che significa ‘i segreti del potere’”, mi ha spiegato. Poi, facendo una pausa a effetto, ha proseguito. “È quello che vediamo in Egitto adesso: il lato oscuro di quelle istituzioni, i segreti nei loro cuori”.

Al Sisi ha ricevuto un’accoglienza entusiastica dal presidente Trump

Il senatore si riferiva alle agenzie di sicurezza egiziane, ma quello che non ha detto è che l’indagine sul caso Regeni stava mettendo in evidenza anche alcune dolorose spaccature all’interno dello stato italiano. C’erano altre priorità. I servizi segreti italiani avevano bisogno dell’aiuto dell’Egitto per contrastare il gruppo Stato islamico, gestire il conflitto in Libia e controllare il flusso dei migranti attraverso il Mediterraneo. E anche l’Eni aveva i suoi interessi in Egitto. Qualche settimana prima che Regeni arrivasse al Cairo, l’Eni aveva annunciato una scoperta importante: il giacimento di gas di Zohr, a 120 miglia dalla costa settentrionale egiziana, che si riteneva contenesse 850 miliardi di metri cubi di gas, equivalenti a 5,5 miliardi di barili di petrolio.

L’Italia è uno dei paesi europei più vulnerabili dal punto di vista energetico: l’Eni non è solo un colosso da 60 miliardi di euro, con attività in 73 paesi, ma anche una componente essenziale della politica estera italiana. Nel 2014 Renzi lo ha ammesso, definendo l’azienda “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera e della nostra politica di intelligence”. L’amministratore delegato Claudio Descalzi – un importante petroliere milanese che ha guidato le recenti ricerche di giacimenti in tutta l’Africa – conosce i leader di molti paesi meglio dei ministri italiani.

Mentre le pressioni perché il caso Regeni venisse risolto aumentavano, Descalzi, che va spesso al Cairo, assicurò ad Amnesty international che le autorità egiziane stavano “facendo tutti gli sforzi possibili” per trovare gli assassini del ricercatore. Ne aveva parlato almeno tre volte con Al Sisi. Secondo un funzionario del ministero degli esteri italiano, i diplomatici si erano convinti che l’Eni stesse collaborando con i servizi segreti italiani per cercare di trovare una soluzione rapida al caso. L’Eni assume da sempre agenti segreti a riposo per la sua divisione di sicurezza interna, dice Andrea Greco, uno degli autori di _Lo stato parallelo _(Chiarelettere 2016), un libro sull’Eni. “C’è una stretta collaborazione”, dice. “Probabilmente c’è stata anche sul caso Regeni, ma ho qualche dubbio che avessero gli stessi interessi”. Una portavoce dell’Eni dice che l’azienda era “inorridita” dalla fine di Regeni e che, anche se non era tenuta a farlo, continuava “a seguire la questione molto da vicino” nei suoi rapporti con il governo egiziano.

Tentativo di insabbiare

La presunta collaborazione tra l’Eni e i servizi segreti italiani diventò una fonte di tensioni all’interno del governo italiano. Il ministero degli esteri e i funzionari dei servizi segreti cominciarono a diffidare gli uni degli altri, a volte nascondendosi le informazioni. “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani”, mi ha detto un funzionario. I diplomatici italiani sospettarono che gli agenti dei servizi segreti italiani, nel tentativo di chiudere il caso, avessero fatto da intermediari per l’intervista del quotidiano La Repubblica con Al Sisi, sei settimane dopo la morte di Regeni (il direttore sostiene che la richiesta era partita dal giornale). Durante l’intervista Al Sisi espresse solidarietà alla famiglia di Regeni definendo la sua morte “terrificante e inaccettabile”, e s’impegnò a trovare i colpevoli. “Arriveremo alla verità”, disse.

Il 24 marzo 2016, otto giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, la polizia del Cairo aprì il fuoco contro un furgoncino che attraversava un quartiere residenziale con a bordo cinque uomini, alcuni dei quali erano pregiudicati o noti alle forze dell’ordine per abuso di droga. Furono uccisi tutti e cinque, e la polizia fece una dichiarazione in cui li definiva una banda di rapitori che aveva preso di mira gli stranieri. Nel successivo raid in un appartamento collegato alla banda, la polizia disse di aver trovato il passaporto, la carta d’identità e il tesserino universitario di Regeni. Quasi subito in Egitto i mezzi di informazione di stato scrissero che gli assassini di Regeni erano stati identificati. Gli investigatori italiani, che erano all’aeroporto pronti a tornare a casa per Pasqua, furono richiamati, e il ministero dell’interno egiziano li ringraziò per la collaborazione.

In Italia la notizia della sparatoria fu accolta con scetticismo e su Twitter cominciò a circolare l’hashtag #noncicredo. La tesi egiziana si sgretolò in poco tempo. I testimoni oculari dissero ad alcuni giornalisti (me compreso) che gli uomini del furgoncino erano stati giustiziati a sangue freddo. Uno era stato colpito mente correva e il suo corpo era stato poi messo nel furgone. “Non avevano scampo”, mi ha detto un uomo scuotendo la testa. Il collegamento tra i cinque uomini e Regeni crollò: gli investigatori italiani usarono le intercettazioni telefoniche per dimostrare che il presunto capo della banda, Tarek Abdel Fattah, nel giorno del presunto rapimento di Regeni era a un centinaio di chilometri dal Cairo.

L’autunno scorso il procuratore capo egiziano ha detto al suo collega italiano che due agenti erano stati accusati dell’omicidio dei cinque uomini. Ma rimaneva una domanda in sospeso: se non erano stati loro a uccidere Regeni, come era finito il suo passaporto nel loro appartamento?

Gli italiani non avevano dubbi che l’intero episodio fosse un rozzo tentativo di insabbiare la faccenda, così mal congegnato che alla fine i responsabili erano stati costretti ad autoincriminarsi. Ma comunque aveva funzionato. Gli investigatori italiani lasciarono il Cairo e l’inchiesta entrò in una fase di stallo. Massari fu sostituito da un nuovo ambasciatore, che però ebbe l’ordine di restare a Roma.

In Egitto, “Regeni” è diventata una parola da dire sottovoce. “Chiunque voleva bene a Giulio ora ha paura”, mi ha detto Hoda Kamel, una sindacalista che lo aveva aiutato nella sua ricerca. “La sensazione è che tutto lo stato, con tutta la sua forza, stia cercando di liquidare questa storia”.

Dopo mesi di rapporti diplomatici tesi, nel muro del silenzio egiziano si è aperta una crepa, o almeno così è sembrato. In un suo viaggio a Roma, a settembre del 2016, il procuratore capo Nabil Sadek ha ammesso pubblicamente che l’Agenzia per la sicurezza nazionale contollava Regeni perché lo sospettava di spionaggio. In una serie di incontri dei mesi successivi i magistrati egiziani hanno fornito a quelli italiani i documenti – tabulati telefonici, dichiarazioni dei testimoni e un video – che dimostrano che Regeni era stato tradito da diverse persone che gli erano vicine.

Muhammad Abdullah, il suo contatto con il sindacato degli ambulanti, era un informatore dell’Agenzia per la sicurezza nazionale. Usando una telecamera nascosta, aveva filmato la sua conversazione con Regeni sulla borsa di studio di 10mila sterline (gli egiziani hanno consegnato il video). In seguito avrebbe rilasciato una dichiarazione raccontando nei dettagli i suoi incontri con il suo contatto alla sicurezza nazionale, il colonnello Sharif Magdi Ibraahim Abdlaal, che gli aveva promesso una ricompensa appena fosse stato chiuso il caso Regeni.

L’identità dell’altra persona che avrebbe tradito Regeni è forse più sorprendente. Le autorità italiane sono arrivate alla conclusione che durante il mese precedente alla sua scomparsa, il coinquilino di Regeni, l’avvocato Mohamed el Sayad, aveva consentito agli agenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale di perquisire l’appartamento. E in seguito i tabulati telefonici avrebbero dimostrato che nelle settimane successive Sayad aveva parlato con due funzionari dell’agenzia.

Da sapere
Cronologia

◆ **25 gennaio 2016 **Giulio Regeni scompare al Cairo. Il 3 febbraio il suo corpo viene trovato alla periferia della capitale egiziana.

8 febbraio I risultati dell’autopsia fatta in Italia indicano che Regeni è stato torturato.

24 febbraio Il governo egiziano dichiara che il ricercatore è stato ucciso da criminali comuni o per vendetta. Per la procura di Roma è stato ucciso da “professionisti della tortura”.

10 aprile L’ambasciatore italiano in Egitto

Maurizio Massari viene richiamato in Italia.

9 settembre Gli inquirenti egiziani consegnano ai colleghi italiani la relazione sul traffico telefonico nell’area in cui Regeni è scomparso.

23 gennaio 2017 L’Egitto accetta l’invio di esperti italiani nel paese per le indagini sulla morte di Giulio Regeni.

14 agosto Il governo italiano annuncia l’invio al Cairo del nuovo ambasciatore in Egitto, Giampaolo Cantini.

16 agosto I genitori di Giulio Regeni criticano la decisione e annunciano che andranno presto in Egitto per fare pressioni sul governo di Al Sisi.


Sayad non ha risposto alle mie richieste di commentare la notizia, ma ho avuto un lungo scambio, su Facebook, con l’altra coinquilina di Giulio, Juliane Schoki. Il suo racconto è sintomatico del clima di diffidenza che c’è nella capitale controllata da Al Sisi. Secondo Schoki, Sayad aveva espresso i suoi sospetti su Regeni poco dopo essersi trasferito nell’appartamento. “Penso che Giulio sia una spia”, le aveva detto.

Dopo la scomparsa di Giulio aveva cominciato a pensarlo anche lei. I due avevano ipotizzato che lavorasse per il Mossad (una volta Giulio le aveva detto che aveva una ragazza israeliana ed era stato in Israele). Schoki, che nel frattempo ha lasciato l’Egitto, aveva riferito questa teoria ai funzionari dell’intelligence egiziana. “Rimasero sorpresi, perché avevano avuto la stessa idea”, dice. Dopo la morte di Regeni, mentre guardavano i film gialli in tv lei e Sayad si dicevano: “È proprio come qui!”. Una cosa che, a pensarci bene, “era piuttosto ridicola”, ha ammesso. “Ma un anno fa sembrava perfettamente sensata”.

Gli investigatori italiani, usando i tabulati telefonici egiziani, sono riusciti a fare altri collegamenti e hanno scoperto che il poliziotto che sosteneva di aver trovato il passaporto di Regeni era in contatto con alcuni agenti dell’Agenzia per la sicurezza nazionale che seguivano il ricercatore. Improvvisamente i genitori di Giulio hanno osato sperare che la verità potesse emergere. “Questo male continua a svelarsi pian piano, come un gomitolo di lana”, hanno scritto in una lettera pubblicata da Repubblica nel primo anniversario della sua scomparsa.

Ma anche se avevano ammesso che stavano sorvegliando Regeni, gli egiziani insistevano nel dire che non lo avevano né rapito né ucciso. E anche se l’avessero potuto dimostrare, rimaneva il mistero principale: perché era stato “ucciso come un egiziano”’? Una teoria diffusa fa riferimento a un funzionario corrotto. Secondo Yezid Sa­yigh, del Carnegie Middle East center di Beirut, al ministero dell’interno egiziano, che controlla l’Agenzia per la sicurezza nazionale, anche i funzionari di basso livello hanno una notevole autonomia e raramente devono rendere conto del loro operato. “Possono succedere cose che Al Sisi non approva”, ha detto. Ma c’erano troppe altre cose che non avevano senso. Quale funzionario egiziano poteva pensare che torturare uno straniero fosse una buona idea? Perché lasciare il corpo su una strada trafficata invece di seppellirlo nel deserto dove forse non sarebbe mai stato ritrovato? E perché mostrarlo alla delegazione italiana appena arrivata al Cairo?

Una lettera anonima inviata l’anno scorso all’ambasciata italiana a Berna e poi pubblicata da un giornale italiano offriva una spiegazione: Regeni si era trovato in mezzo a una guerra di potere tra l’Agenzia per la sicurezza nazionale e i servizi segreti militari, in cui entrambi avevano cercato di usare la sua morte per mettersi in cattiva luce a vicenda. I dettagli lasciavano intendere che l’autore della lettera conoscesse bene l’apparato della sicurezza egiziano, ma sembrava anche improbabile che una sola persona sapesse tante cose. Alcuni alti funzionari statunitensi mi hanno detto che, tuttavia, il contenuto della lettera era coerente con i rapporti dei loro servizi segreti sulle feroci lotte di potere in Egitto tra agenzie per la sicurezza rivali. “Cercano di usare certi casi per mettersi in imbarazzo a vicenda”, ha detto uno degli alti funzionari.La possibilità più allarmante è che la morte di Regeni sia stato un messaggio deliberato, un segnale che, sotto il governo di Al Sisi, anche un occidentale può diventare vittima degli eccessi più brutali. A Roma un funzionario mi ha detto che quando è stato scoperto, il corpo di Regeni era appoggiato a un muro. “Volevano che fosse trovato?”, si è chiesto. Un funzionario dell’amministrazione Obama mi ha detto di essere convinto che qualcuno nelle “alte sfere” del governo egiziano potrebbe aver ordinato l’assassinio di Regeni “per mandare agli altri cittadini stranieri e ai loro governi il messaggio che con la sicurezza egiziana non si scherza”.

Nessun alto funzionario egiziano ha accettato di parlare con me per questo articolo, ma Hossam Zaki, l’ex viceministro degli esteri, ora sottosegretario generale della Lega araba, mi ha detto che le autorità egiziane pensano che l’omicidio sia stato opera di una “terza parte” non identificata che vuole sabotare i rapporti tra Egitto e Italia. “Gli egiziani non trattano male gli stranieri. Punto”, ha detto. Nonostante questo, la morte di Regeni ha raggelato la sempre meno numerosa comunità di stranieri che vivono al Cairo. “Poche cose mi hanno scosso così profondamente”, mi ha detto un diplomatico europeo. Prima che cominciassimo a parlare, mi ha chiesto di mettere il mio cellulare in una scatola che blocca qualsiasi segnale, in modo che la nostra conversazione non potesse essere intercettata. La morte di Regeni, ha proseguito, indica in che direzione sta andando l’Egitto: il ricercatore è stato vittima della paranoia nei confronti degli stranieri che si è diffusa nella società egiziana, dopo la rivoluzione anche un minimo contatto può essere pericoloso. Durante un pranzo nel quartiere islamico del Cairo, mi ha raccontato il diplomatico, un uomo aveva protestato ad alta voce con un cliente perché aveva fotografato il suo piatto: fagioli, pane e tamiyya, i falafel egiziani. “Ha cominciato a gridare: ‘Sei uno straniero. Vuoi usare questa foto per dimostrare che mangiamo solo pane e fagioli!’”.

A Fiumicello, dove Regeni è cresciuto e dove i suoi genitori vivono ancora, nella chiesa principale è stato appeso uno striscione con la scritta “Verità per Giulio Regeni”, ma pochi pensano che la verità verrà mai a galla. La famiglia si è chiusa in se stessa, incaricando un’avvocata battagliera di tenere alla larga i curiosi, e ha cominciato una sua indagine sull’omicidio (i genitori non mi hanno concesso un’intervista, ma hanno risposto ad alcune mie domande via email). Al quartier generale del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri, a Roma, il generale Giuseppe Governale insiste nel dire che c’è ancora qualche speranza di risolvere il caso. “Per mentalità, gli arabi tendono a procrastinare fino a quando tutto sarà dimenticato”, dice. “Ma noi non ci fermeremo finché non avremo trovato una risposta. Lo dobbiamo a sua madre”.

Libri e candele sulla tomba

Gli italiani hanno quella che Carlo Bonini, un giornalista di Repubblica che ha scritto molto sul caso Regeni, chiama “l’ultima pallottola”. Secondo la legge italiana, potrebbero denunciare presso un loro tribunale i funzionari della sicurezza egiziani che ritengono responsabili dell’omicidio. Ma anche quella sarebbe una vittoria di Pirro: l’Egitto non concederebbe mai la loro estradizione. E sembra che ci siano scarse possibilità di fare pressione su Al Sisi perché riveli la verità. A luglio, a Roma, alcuni funzionari hanno ammesso che ormai l’inchiesta è poco più che una farsa geopolitica. A deciderne la conclusione sarà la politica e non la polizia. Nei diciotto mesi da quando è stato ucciso Regeni, Al Sisi ha cenato con la cancelliera tedesca Angela Merkel davanti alle piramidi, e ad aprile ha ricevuto un’accoglienza entusiastica dal presidente Trump alla Casa Bianca. Il 14 agosto il governo italiano ha annunciato che rimanderà il suo ambasciatore al Cairo. Il giacimento di gas di Zohr comincerà la produzione a dicembre. Regeni è sepolto a Fiumicello sotto una fila di cipressi. Sulla sua tomba sono ammonticchiati fiori, candele, volumi di Spinoza e Hesse avvolti nella plastica, e una piccola fotografia che lo mostra mentre parla a una folla, con il microfono in mano, il viso aperto e sincero. La tomba di Regeni è chiusa con una semplice lastra di marmo. Dato che l’inchiesta è ancora aperta, mi ha spiegato il parroco, le autorità potrebbero ancora aver bisogno di riesumare i suoi resti . ◆ bt

Declan Walsh è il capo della redazione del Cairo del New York Times.

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Questo articolo è uscito sul numero 1219 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati