Nell’estate del 2021 ad Atene mi sono imbattuto nel locale giapponese Soya, appena fuori dei tradizionali percorsi turistici del centro. Dalla strada potevo osservare gli scaffali: condimento furikake, impasti fermentati e fughi secchi, tutti prodotti che non avevo mai trovato in Grecia. Nei due anni trascorsi in città avevo frequentato molti ristoranti di sushi. Di solito i menu erano un’accozzaglia di cucina panasiatica, tra sushi roll e ravioli al vapore, il tutto inondato di maionese. Quel giorno, incuriosito, mi sono seduto all’unico tavolo disponibile e ho ordinato un bento. Il primo assaggio di riso mi ha immediatamente confortato. Era fragrante e saporito, accompagnato da verdure fresche, sottaceti e un’omelette.

Mentre gustavo il mio piatto ho chiesto alla proprietaria se la pandemia avesse messo in difficoltà il suo locale com’era accaduto a molti ristoranti e piccole attività commerciali. “Noi riceviamo il sostegno dell’ambasciata giapponese”, mi ha risposto immediatamente. “Vogliono far scoprire la cucina del nostro paese ai greci”. Sono rimasto sorpreso. All’epoca lavoravo come diplomatico ad Atene e non avevo mai sentito parlare di quel progetto. “I diplomatici giapponesi vengono spessissimo”, ha aggiunto la signora. “A volte c’è anche l’ambasciatore”. Tornando a piedi verso casa mi sono chiesto cosa avesse convinto l’ambasciata a investire in quel piccolo locale. Il governo giapponese stava aiutando il Soya per rispondere al successo di ristoranti meno autentici? Se era così, esistevano altri progetti simili lontano da Atene? Altri paesi si comportavano nello stesso modo?

La gastrodiplomazia è una politica statale di promozione della propria cucina all’estero e un modo per esportare l’identità nazionale attraverso la cultura culinaria

Per secoli la gastronomia è stata un elemento rilevante nel teatro della diplomazia. Nella sua Politica, Aristotele discute gli incontri a tavola tra gli ambasciatori delle città-stato greche nel quarto secolo aC, sottolineando che all’epoca il cibo era un modo per favorire lo spirito di concordia prima di affrontare temi più complessi. In De la manière de négocier avec les souverains, François de Callières, emissario di Luigi XIV, scriveva che “una buona tavola è il modo migliore e più facile di tenere ben informato l’ambasciatore” e che “quando le persone sono riscaldate dal vino, spesso rivelano segreti di una certa importanza”.

Ma con il Soya il governo giapponese stava facendo qualcosa di diverso e molto più intrigante: seguiva la strategia della gastrodiplomazia, una politica statale di promozione della propria cucina all’estero e un modo per esportare l’identità nazionale attraverso la cultura culinaria. Paul Rockower, esperto di diplomazia, descrive la gastrodiplomazia semplicemente come l’arte di “conquistare i cuori e le menti attraverso lo stomaco”.

Il termine “gastrodiplomazia” è stato coniato dall’Economist nel 2002 in riferimento al programma Global thai, il primo esempio ufficiale di questa strategia. Anche se era già successo che un governo cercasse di sponsorizzare la sua cucina nazionale nel mondo, l’Economist aveva scritto che l’approccio di Bangkok era pionieristico perché l’obiettivo non era “solo quello di convincere le persone a visitare la Thailandia, ma anche quello di contribuire in modo sottile a rafforzare i suoi rapporti con gli altri paesi”. Il programma prevedeva tre milioni di dollari di prestiti agevolati per i tailandesi che avessero voluto aprire un ristorante all’estero, insieme a un’assistenza commerciale e a una serie di analisi di mercato fatte dalle ambasciate. Il ministro degli esteri tailandese aveva perfino negoziato un visto speciale di tre anni per gli chef che si fossero trasferiti in Nuova Zelanda. Il lancio del programma era stato seguito da una campagna di comunicazione in cui la Thailandia aveva cercato di modificare la reputazione del paese – da meta del turismo sessuale a paradiso gastronomico – attraverso una serie di documentari e articoli finanziati dal governo. Nel 2018 il giornale online statunitense Vice ha scritto che “agli inizi del programma Global thai erano circa 5.500 i ristoranti tailandesi fuori dai confini del paese. Oggi sono più di quindicimila. Negli Stati Uniti sono passati da duemila a più di cinquemila”.

Da allora tanti paesi hanno seguito l’esempio tailandese, con modalità diverse. Nel 2009 la Corea del Sud ha stanziato dieci milioni di dollari per sostenere gli chef locali che volevano a lavorare all’estero e frequentare scuole di cucina. Nel 2011 il governo peruviano ha lanciato una campagna online in cui diverse celebrità – tra cui Al Gore, Eva Mendes e Mario Vargas Llosa – elogiavano la cucina del paese. La gastrodiplomazia è ormai uno strumento particolarmente popolare tra i governi del sudest asiatico, dove la rapida crescita economica ha suscitato il desiderio di affermarsi sulla scena internazionale anche in Malaysia e in Corea del Sud. Dato che queste nazioni non hanno la stessa influenza geopolitica dei pesi massimi della diplomazia (come i paesi che siedono nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite o nel G7, per esempio), i loro governi hanno cercato di ritagliarsi uno spazio vitale con altri mezzi.

È per questo che la gastrodiplomazia tende a rivolgersi a una clientela occidentale e ai paesi dove tradizionalmente si concentra il potere globale. Tuttavia, in una fase di recessione dell’egemonia politica ed economica dell’occidente, aumentano i casi in cui la gastrodiplomazia si sposta verso nuovi centri di gravità diplomatici in Asia. Quella malese, per esempio, è attenta al Regno Unito, agli Stati Uniti e alla Nuova Zelanda, ma non dimentica la Cina. Quella tailandese, invece, ha aggiunto alle sue attività l’Indonesia, la Malaysia e Singapore. Questo strumento diventa spesso un modo per consolidare il proprio status e la propria influenza all’estero.

Negli anni sessanta la famiglia di mio padre si è trasferita dalla Malaysia a Londra dopo che mio nonno aveva ottenuto un incarico alla Bbc. I miei familiari vivevano vicino a Bayswater, come gran parte della diaspora malese. All’epoca la nostra cucina era poco diffusa in città, con appena un paio di ristoranti tra Bayswater e Chinatown. Così mia nonna era costretta a improvvisare, usando ingredienti tailandesi che trovava nei supermarket cinesi.

Oggi, nel Regno Unito, la cucina malese è in forte crescita. Nel corso degli ultimi dieci anni i condimenti per la laksa hanno conquistato i supermercati britannici (anche se la qualità lascia a desiderare), mentre in molti quartieri di Londra hanno aperto ottimi ristoranti malesi. Diversamente da quanto succede di solito con i ristoranti della diaspora, tanti dei nuovi locali malesi occupano spazi centrali e di grande pregio (ma l’hokkien mee del Papayaya, a pochi passi da dove sono cresciuto nel sudest di Londra, è la prova che si può mangiare benissimo anche in periferia).

Questa popolarità in crescita è dovuta anche al fatto che da più di dieci anni il governo malese ha adottato nel Regno Unito un approccio gastrodiplomatico con il programma Malaysian kitchen for the world. Nell’ambito dell’iniziativa, la diplomazia di Kuala Lumpur ha organizzato un festival culinario all’interno dell’università di Nottingham (la più frequentata dagli studenti del paese asiatico), una collaborazione con i supermercati Tesco e una serie di spettacoli legati a programmi televisivi come MasterChef e Bbc Good food. Gli chef malesi hanno girato il Regno Unito a bordo di chioschi ambulanti, organizzando dimostrazioni e proponendo degustazioni nelle strade più raffinate.

Nel 2010, lo chef britannico Rick Stein è stato intervistato dal Guardian (“Il fatto che il cibo malese non sia più diffuso nel Regno Unito mi lascia perplesso, perché è al livello di quello tailandese o vietnamita”), dal Times (“Amo la Thailandia, ma a volte il cibo tailandese è monotono. In Malaysia, invece, la combinazione tra la cucina indiana, cinese e malese è sconvolgente”), dall’Independent (“Sono rapito dalla Malaysia. Il cibo è particolarmente interessante”) e dal Telegraph (“Sono un appassionato della cucina malese”), quasi sempre senza fare riferimento al suo ruolo di ambasciatore di Malaysian kitchen for the world.

Deciso a scoprire cos’altro ci fosse dietro il boom della cucina malese, ho chiesto a diversi proprietari di ristoranti cosa ne pensassero. Molti mi hanno risposto citando l’aumento di studenti malesi (sono all’ottavo posto tra gli stranieri nelle università britanniche) e il successo nei talent show televisivi di alcuni famosi chef originari della Malaysia, come Ping Coombes, vincitrice di MasterChef 2014 e Syabira Yusoff, che ha vinto l’edizione del 2014 di Bake off. Di solito i ristoratori, in prima linea nella promozione del cibo malese, preferiscono non attribuire il merito del loro successo all’aiuto del governo, ma resta il fatto che molti chef dei migliori ristoranti malesi di Londra (Zainuddin Yahaya del Tukdin, “Kak” Ani del Makan Cafe e Pak Awie del Melur) hanno cominciato lavorando nella Malaysia hall canteen di Bayswater, un ristorante finanziato dalla diplomazia malese dove un nasi lemak (un piatto con riso al latte di cocco) costa appena quattro sterline, ma solo per chi mostra un passaporto malese all’entrata e per i suoi ospiti.

Secondo Normah abd Hamid, la mia chef malese preferita a Londra, che gestisce un ristorante al mercato di Queens­way, per influenzare il mercato bisogna diffondere la cultura alimentare malese. “Come si mangia il nasi lemak? Devi raccogliere un pezzo di ogni ingrediente con il cucchiaio e mettere tutto in bocca. È quello che cerchiamo di spiegare ai nostri clienti”. Quando si è trasferita nel Regno Unito, Normah ha cominciato a organizzare cene per tutti i suoi vicini di Notting Hill, tra cui il giovane David Cameron, che all’epoca viveva poco lontano. Durante quelle serate, Normah ha imparato a capire il palato britannico e come conquistare i suoi ospiti, creando un rapporto intimo tra la cucina e i clienti. La stessa atmosfera raccolta di quelle cene si ritrova nel suo piccolo ristorante di Queensway, che ricorda un kopitiam, una tipica taverna malese, a cominciare dai ventilatori appesi al soffitto. Uno dei miei piatti preferiti è il nasi lemak con pollo croccante di Normah, un compromesso tra la cucina malese e l’ossessione britannica per il pollo fritto.

Davide Bonazzi

Non tutti gli esperimenti di gastrodiplomazia si sono rivelati efficaci. Molti governi, per esempio, hanno provato a controllare la qualità e l’autenticità del cibo nazionale servito all’estero, con risultati pessimi. Nel 2006 il Giappone aveva creato la cosiddetta “polizia del sushi” per combattere il cibo giapponese di scarsa qualità. “Ci sono ristoranti che sostengono di offrire cucina giapponese ma in realtà sono coreani, cinesi o filippini”, aveva dichiarato Toshikatsu Matsuoka, all’epoca ministro dell’agricoltura di Tokyo, “e noi dobbiamo proteggere la nostra cultura gastronomica”. Così alcuni ispettori in incognito erano stati inviati a Parigi per esaminare ottanta ristoranti: un terzo aveva ricevuto una “denuncia” per “crimini contro l’autenticità” e non aveva ottenuto il certificato statale di qualità. Il Giappone non è stato l’unico paese ad aver agito così. L’anno scorso il ministro italiano dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida ha annunciato che solo i ristoranti italiani in cui “la maggior parte degli ingredienti proviene dall’Italia” otterranno la certificazione di autenticità. Evidentemente una posizione dominante nella cultura gastronomica mondiale può dare alla testa.

Personalmente credo che questi tentativi di controllare la diffusione all’estero della cucina nazionale siano poco credibili. Solo pochi clienti, infatti, sono consapevoli dell’esistenza degli attestati di autenticità, e sospetto che non interessino particolarmente a nessuno. Chi chiederebbe mai a un governo consigli su dove mangiare? Quando ho domandato ai ristoratori giapponesi di Londra se avessero avuto contatti con la “polizia del sushi”, non ne aveva sentito parlare quasi nessuno, e questo in una metropoli dove i ristoranti giapponesi non mancano di certo.

Simili iniziative dimostrano che la gastrodiplomazia può degenerare in quello che la sociologa Michaela DeSoucey ha definito “gastronazionalismo”, una risposta alla globalizzazione attraverso un “processo di rivendicazione e affermazione di un’identità collettiva”. Un buon esempio è la dieta mediterranea. L’infinito flusso di articoli che ne vantano i benefici per la salute ha creato un’industria enorme, sostenuta da politiche gastronazionaliste in tutta Europa. Nel 2013 l’Unesco ha inserito la dieta mediterranea nella sua lista di patrimoni immateriali dell’umanità, riconoscendone la versione proposta in Italia, Grecia, Spagna, Marocco, Cipro, Croazia e Portogallo, ma ignorando gran parte del Medio Oriente e del Nordafrica nonostante l’apporto fondamentale di quest’area nello sviluppo della cucina mediterranea.

Il passaggio dalla gastrodiplomazia al gastronazionalismo è inevitabile? L’associazione tra cibo e identità, abbinata al ruolo della diplomazia come strumento per perseguire interessi interni, prende immancabilmente una sfumatura nazionalista. L’estate scorsa a Marsiglia, in Francia, ne ho trovato un esempio in una mostra dedicata alla dieta mediterranea, che offriva una serie di luoghi comuni sull’agricoltura e le abitudini alimentari francesi, senza però mai allontanarsi dall’eurocentrismo. La mostra era incapace di riconoscere il ruolo storico del colonialismo e delle migrazioni di musulmani, arabi ed ebrei nella formazione della dieta mediterranea. Sembrava dire chiaramente: “Tornate alla tradizione! Tornate alla terra!”, ma rivolgendosi solo ai turisti occidentali e lasciando fuori chi vive sull’altra sponda del Mediterraneo.

Per contrasto, la Global food initiative di Taiwan dimostra come la gastrodiplomazia possa anche diventare uno strumento di resistenza alle pressioni di altre potenze nazionaliste. Taiwan è rimasta indipendente dalla Cina dal 1949, ma Pechino considera l’isola come parte del suo territorio e ha promesso di “unificarla” alla Cina continentale, senza escludere la possibilità di un ricorso alla forza militare. La Global food initiative, presentata nel 2022, è una risposta alle ambizioni cinesi. Il programma coinvolge tredici paesi in Nordamerica, Asia ed Europa (tra cui il Regno Unito) e usa le tipiche strategie della gastro­diplomazia: festival culinari, articoli e sostegno alle attività commerciali taiwanesi all’estero. Attraverso queste iniziative, il governo vuole diversificare la sua influenza rivolgendosi ai mercati esteri e contrastando il giro di vite imposto da Pechino alla sua economia.

Martin Mandl, esperto di gastrodiplomazia dell’università di Vienna, pensa che la portata del progetto vada al di là della dinamica politica tra Taiwan e la Cina. Qualche mese fa mi ha spiegato che Taiwan sta usando il cibo per promuovere prudentemente un senso d’identità distinto da quello della Cina continentale. “La Global food initiative è legata a un cambiamento politico più ampio introdotto dalla presidente Tsai Ing-Wen”, ha sottolineato Martin. “Rispondendo all’ascesa della Cina, Ing-Wen ha distolto l’attenzione dall’eredità cinese di Taiwan indirizzandola verso un’immagine nazionale basata sulla modernità, una società aperta e i valori democratici”.

In ambito culinario, questo “spostamento dell’attenzione” si è tradotto in un’enfasi sulle origini multiculturali del cibo taiwanese. Martin ha citato un documentario prodotto dal ministero del turismo taiwanese in cui si sottolinea che la cucina locale è stata creata “da persone provenienti da luoghi diversi, tra cui gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina e l’Australia”. È una tesi che mette in risalto un multiculturalismo in cui il cibo non è solo diverso da quello cinese, ma ne ammette l’influenza evitando accuratamente qualsiasi disputa sui piatti nazionali. Durante una recente fiera gastronomica organizzata a Sydney, in Australia, un amico mi ha raccontato di aver notato diversi prodotti taiwanesi in vendita in cui le etichette enfatizzavano le leggere differenze rispetto ai corrispettivi cinesi. Per esempio la salsa di soia taiwanese è prodotta da fagioli di soia neri fermentati, mentre quella cinese è fatta con i fagioli gialli.

Un diplomatico mi ha spiegato che l’approccio gastrodiplomatico di Taiwan mira semplicemente a sostenere le attività dello stato e ha sottolineato che rendere più popolare il cibo taiwanese è di per sé un successo. Dato che Taiwan non è nelle condizioni di affrontare militarmente la Cina, dare spazio al nazionalismo potrebbe rivelarsi pericoloso. Dunque il paese ha adottato un approccio più cauto, usando la cucina per ottenere il supporto internazionale alla sua causa.

Dal quando nel 2002 è stato lanciato il programma Global thai, il numero di paesi che hanno ideato campagne simili continua ad aumentare. La globalizzazione ha portato nelle nostre case culture lontane, al punto che oggi il cibo è uno dei veicoli più comuni per entrarci in contatto. I governi lo usano per perseguire interessi nazionali. Apprezzo molto gli sforzi della Malaysia e della Thailandia per sostenere i ristoranti e gli chef della loro diaspora, ma davanti alla diffusione di politiche nazionaliste e populiste in tutto il mondo temo che la gastrodiplomazia finisca per rispecchiare il gastronazionalismo. In questo senso la scelta multiculturale di Taiwan è una sorta di antidoto. Oggi diversi segnali lasciano sperare che il Regno Unito possa seguire la stessa strada. Fino a poco tempo fa l’identità culturale britannica era promossa soprattutto attraverso la musica, lo sport e il cinema, ma nel 2021 il governo di Londra ha nominato lo chef di origini indiane Vineet Bhatia come il suo nuovo “ambasciatore culinario”.

Il caso di Normah abd Hamid, con il suo desiderio di far scoprire alla gente il cibo malese, dimostra anche che gli chef sono gli unici a poter colmare la distanza tra popoli e culture diverse. Probabilmente l’ambasciata giapponese di Atene aveva in mente questo quando ha deciso di sostenere la proprietaria del Soya. È incoraggiante che la gastrodiplomazia giapponese (la stessa che ha ideato la famigerata polizia del sushi) oggi sia disposta a spendere soldi per sviluppare piccoli locali indipendenti. La gastrodiplomazia si esprime al suo meglio quando mette a disposizione degli esperti una piattaforma, evitando le ossessioni sull’identità nazionale e i tentativi di controllare come si cucina. Perché alla fine, in questo settore i veri diplomatici non sono certo i funzionari statali, ma gli chef e le altre persone che lavorano nei ristoranti. ◆ as

Dan Hong è un giornalista, si occupa di cucina. È stato un diplomatico. Vive ad Atene. Questo articolo è uscito su Vittles, un giornale online dedicato al cibo nel mondo, con il titolo The game of gastrodiplomacy.

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Questo articolo è uscito sul numero 1552 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati