Quando il caldo di mezzogiorno comincia a dare tregua, a Pointe-Noire, una città costiera della Repubblica del Congo, otto robusti pescatori spingono una piroga nell’oceano grigio sotto il cielo minaccioso. La brezza fa sventolare una lacera bandiera congolese sulla prua dell’imbarcazione. È un buon momento per la pesca allo squalo. “Siamo soldati che hanno fatto un giuramento”, dice il capitano Alain Pangou, 54 anni, un uomo basso, dai lineamenti spigolosi e con un debole per le frasi a effetto. “Non abbiamo altra scelta che andare a combattere”.

Raggiunta l’acqua, i pescatori saltano sulla piroga con grazia. Io li imito in modo maldestro, cadendo nello scafo dietro di loro. Il pilota, Gabi, con la sigaretta che gli pende dal labbro inferiore e il berretto pesante in testa nonostante il caldo, mi lancia uno sguardo sprezzante. Colpisce con la mano il fianco del piccolo motore fuoribordo, che emette prima un crepitio di protesta e poi un gemito acuto. Ci allontaniamo dalla riva. Pangou, che sembra più a suo agio in mare che sulla terraferma, apre una bottiglia di birra e se la scola in pochi sorsi. Poi si stende su un mucchio di reti per riposarsi prima della lunga notte di pesca.

Pangou lavorava come ingegnere per una compagnia petrolifera angolana, ma perse il lavoro quando l’azienda lasciò il Congo nel 1993, dopo lo scoppio della guerra civile. Il conflitto, durato un anno, costò la vita a duemila persone. Nel 1997 ci fu una seconda guerra civile, in cui morirono 14mila congolesi e altri centinaia di migliaia furono costretti a lasciare le loro case.

L’economia era allo sbando e per Pangou il mare era l’unica possibilità. “Non potevo restare con le mani in mano”, afferma. “Avevo una famiglia da sfamare”. Prima entrò a far parte di un equipaggio itinerante, poi cominciò a essere ingaggiato per fare il capitano. Come la maggior parte dei pescatori artigianali in Congo (dove per “artigianale” s’intende con mezzi poco sofisticati), Pangou pescava le sardinelle, piccoli pesci che fanno parte dell’alimentazione quotidiana degli abitanti dell’Africa occidentale e centrale.

Tradizionalmente gli unici congolesi che cacciavano gli squali erano i vili, una minoranza etnica che vive nella regione costiera, la cui dieta era basata sulla carne di pescecane. A partire dagli anni ottanta, però, erano arrivati anche pescatori di altri paesi africani, in particolare dal Benin, per cacciare gli squali e venderne le pinne agli immigrati cinesi impiegati nel settore petrolifero.

Anche in Cina le famiglie della classe media – che si stava ampliando dopo la liberalizzazione economica – chiedevano sempre più spesso la zuppa di pinne di pescecane, un piatto diventato un simbolo di ricchezza. A Pointe-Noire era nato un mercato destinato solo all’esportazione: i mediatori africani compravano le pinne dai commercianti di prodotti ittici (che a loro volta compravano gli squali interi dai pescatori) e le contrabbandavano attraverso le dogane congolesi per farle arrivare a Hong Kong e da lì, si dice, anche nella Cina continentale.

Dopo la prima guerra civile, l’economia congolese era allo sbando e la drastica svalutazione della valuta locale, il franco cfa, fece raddoppiare il prezzo delle pinne. Pangou e altri pescatori intravidero un’opportunità, e si lanciarono nella pesca allo squalo.

Alla fine della seconda guerra civile, nel 1999, le cose cambiarono di nuovo. Al largo di Pointe-Noire, il principale centro del commercio ittico congolese, apparvero i primi pescherecci industriali cinesi. Li aveva invitati il governo di Brazzaville, che cercava nuove fonti di entrate. La loro presenza diede un impulso alla pesca allo squalo: dal momento che le flotte industriali non avevano il permesso di catturare gli squali, per i pescatori artigianali si aprì un nuovo mercato, perché anche i lavoratori a bordo delle navi cinesi volevano comprare le pinne.

Negli ultimi anni la domanda di pinne di squalo è calata dell’80 per cento in Cina, ma è cresciuta in altri paesi asiatici come la Thailandia, il Vietnam e l’Indonesia. Secondo alcuni studi, il commercio di pinne è il principale motivo per cui ancora oggi si pescano tra i 70 e i cento milioni di squali all’anno in tutto il mondo.

In Congo, però, sempre più spesso gli squali sono catturati per la carne. Secondo i pescatori artigianali, con la loro attività sregolata i pescherecci industriali hanno impoverito i mari, facendo scomparire i piccoli pesci come le sardinelle, ma anche i tonni, i pesci spatola e i pesci coltello. E ai pescatori artigianali, che complessivamente controllano una flotta di settecento imbarcazioni, sono rimasti solo gli squali.

La carne di squalo, stagionata o affumicata, è entrata ormai da tempo nella dieta dei congolesi della costa. E ancora di più si è diffusa negli affollati mercati e ristoranti tradizionali delle città, come alternativa economica rispetto ad altri pesci. “Oggi si mangia in tutto il paese, non più solo a Pointe-Noire”, afferma
Jean-Michel Dziengue, che monitora le riserve ittiche congolesi per una rete regionale di tutela delle aree protette.

Troppe navi

Oggi i pescatori artigianali di squali del Congo e gli altri lavoratori coinvolti nella preparazione e nella vendita dei prodotti ittici sono minacciati dallo sfruttamento eccessivo delle risorse del mare e dai cambiamenti del panorama geopolitico. La pandemia di covid-19 ha bloccato le rotte commerciali internazionali e ha paralizzato un’economia già in difficoltà. Nel frattempo molte persone che vivevano nelle zone interne e nei paesi confinanti si sono trasferite sulla costa a causa dei cambiamenti climatici e dei conflitti, alimentando la competizione per accaparrarsi risorse ittiche di per sé scarse.

Se l’economia che gira intorno allo squalo in Congo entrasse in crisi, le conseguenze si avvertirebbero in tutto il paese e in tutta la regione. Considerato che la situazione è altrettanto grave per le sardinelle – che in gran parte finiscono in Cina per diventare mangime per animali – la crisi non provocherebbe solo problemi economici e ambientali, ma metterebbe a rischio la sicurezza alimentare delle persone. Il pesce è la principale – se non l’unica – fonte di proteine in Congo.

Per il momento, in barba alle raccomandazioni di organizzazioni internazionali come la Fao, la pesca artigianale allo squalo in Congo continua a non essere regolamentata, anche se è ampiamente praticata lungo tutta la costa, una zona di transizione tra il golfo di Guinea e le acque più fredde dell’Africa australe, che presenta una ricca biodiversità ed è estremamente produttiva.

Secondo uno studio dell’ong Traffic, specializzata nel contrabbando di animali selvatici, tra il marzo e l’aprile del 2019 (il periodo dell’anno più intenso per la pesca allo squalo) i pescatori artigianali di Pointe-Noire hanno catturato ogni giorno un numero compreso tra i 400 e i mille squali e razze. I dati raccolti tra il luglio del 2018 e il luglio del 2019 dall’università britannica di Exeter in collaborazione con la Wildlife conservation society (Wcs) e il dipartimento congolese per la pesca indicano una cifra compresa tra i cento e i quattrocento squali al giorno.

Il Congo non ha stime sul numero di esemplari catturati per ogni specie, ma Dziengue e i pescatori intervistati per questo articolo sostengono che siano cifre nettamente inferiori al periodo di massimo splendore, tra gli anni novanta e i primi anni duemila. I pescatori aggiungono che oggi nelle reti finiscono sempre meno esemplari adulti in età riproduttiva, e che in gran parte sono animali giovani, un segnale del fatto che questa pesca è diventata insostenibile.

Allo stesso tempo, i dati raccolti della Wcs mostrano che tra il 2015 e il 2017 il numero d’imbarcazioni autorizzate a operare nelle acque congolesi è aumentato dell’84 per cento: oggi circa 110 pescherecci industriali si contendono la zona economica esclusiva del Congo, che è ampia quarantamila chilometri quadrati. Nel vicino Gabon, dove le limitazioni sono più severe, 24 imbarcazioni sono autorizzate a pescare in un’area di 240mila chilometri quadrati. In teoria i primi undici chilometri dalla costa, il principale luogo di riproduzione degli squali, sono riservati alla pesca artigianale. Ma i pescatori e le ricerche della Wcs parlano di frequenti sconfinamenti dei grandi pescherecci.

Per il ministero dell’agricoltura, dell’allevamento e della pesca di Brazzaville è “probabile” che le navi industriali prendano anche squali, perché possono dichiarare che è stata una “cattura accidentale”. Il Congo non raccoglie dati sul numero o le specie di squali pescati in questo modo, ma in Gabon un programma governativo che ha seguito dodici navi per la pesca del tonno tra il giugno del 2017 e il gennaio del 2018 ha rilevato la cattura “accidentale” di 2.053 esemplari di pesci o animali marini di specie a rischio, compresi 1.698 squali.

“Se procede ai ritmi attuali la pesca artigianale non sarà sostenibile ancora a lungo”, conclude lo studioso dell’università di Exeter Kristian Metcalfe, specializzato nella salvaguardia dei mari. Usando la tecnologia gps, Metcalfe ha dimostrato che i pescatori artigianali di Pointe-Noire sono costretti a spingersi sempre più al largo, a rimanere in mare più a lungo e a pescare in acque più profonde, affrontando rischi elevati.

Pointe-Noire, 14 novembre 2019 (Shaun Swingler)

Ribaltamento di prospettive

Pangou conosce bene i pericoli del mestiere. Mentre ci fermiamo per gettare l’ancora a una quindicina di chilometri dalla spiaggia e i lampi illuminano l’orizzonte, racconta storie di tempeste di proporzioni bibliche o di quando un enorme squalo tigre che aveva appena tirato a bordo lo aveva fatto cadere in mare. La parte della storia in cui lui si trova in acqua mentre lo squalo è a bordo deve toccarlo in modo particolare, perché la racconta più volte. “All’epoca gli squali erano ovunque”, aggiunge con tono nostalgico mentre comincia a gettare le reti a strascico.

Al mercato del Centro di supporto per la pesca artigianale (Capap), alla periferia di Pointe-Noire, c’è fermento poco dopo l’alba. Enormi altoparlanti collocati alle estremità della struttura trasmettono ad alto volume una rumba locale, mentre i grossisti del pesce espongono le loro merci su tavoli di metallo. Scatole piene di giovani esemplari di squali martello sono scaricate all’esterno. Gruppi di compratori e addetti alla lavorazione del pesce mercanteggiano rumorosamente. Un pescivendolo magro con un orecchino d’oro da pirata taglia un’impressionante pinna dorsale da uno squalo tigre adulto. La passa a un commerciante senegalese che la infila in una borsa per la spesa con sopra disegnato il volto sorridente di Barack Obama. Probabilmente il compratore, che si allontana rapidamente, accumulerà centinaia di pinne per poi contrabbandarle dalla dogana del Congo. E, come gran parte delle pinne che escono dal Capap, anche quelle saranno probabilmente spedite in aereo a Dubai, un importante snodo per il commercio internazionale di specie selvatiche, per poi raggiungere l’Asia.

Sulla spiaggia una piroga con un equipaggio di otto pescatori beninesi rientra dopo una settimana in mare e comincia a scaricare i pesci sulla sabbia. Lì intorno si raduna una folla di potenziali clienti. Ci sono almeno venticinque squali adulti, tra pesci martello, squali seta, squali bruni e squali tigre – alcuni di uno strano colore verdastro, probabilmente perché catturati molti giorni prima – e un centinaio di esemplari più piccoli, insieme a delle razze di una specie a rischio, così grandi che devono essere portati a riva da due ragazzi robusti.

Un uomo con la barba grigia si avvicina e si presenta: si chiama Ivora Boussouhou. “Una volta si vedevano più squali”, racconta, agitando il dito con fare sprezzante indicando la scena. “Quando ho cominciato a pescare, alla fine della guerra, in mare era un massacro”, aggiunge. “Ogni barca portava a riva almeno cinquanta squali al giorno. Dal 2012 il numero è diminuito. Non abbiamo la cultura della salvaguardia e non esistono quote, perciò ogni specie viene catturata oltre i limiti”. Guarda verso il mare e si dà distrattamente dei colpetti sul ventre. Poi si accende una sigaretta. “Non sopravvivremo”, dice, espirando fumo dalle narici. “Tra dieci anni non ci sarà più traccia della pesca artigianale”.

Se questo accadesse, ne risentirebbero anche altre filiere, come quella della lavorazione del pesce, dove sono impiegate soprattutto donne. “La situazione è difficile”, dice Justine Tinou. Sta salando del tonno che ha comprato fresco la mattina stessa al Capap. Armeggia con un secchio di plastica all’esterno della sua casa, una costruzione in legno a circa dieci chilometri dalla costa. Tre piccoli squali martello sono stesi a essiccare su una rastrelliera. “Puzzano”, dice, “ma hanno un buon sapore”. Mentre gli squali diventano più scarsi, i loro prezzi schizzano alle stelle, racconta Tinou. Dopo l’ultima crisi economica, causata dal crollo dei prezzi del petrolio e aggravata dalla pandemia di covid-19, la donna dovrà affrontare due difficoltà: meno clienti e più concorrenza delle donne che lavorano il pesce per provvedere alle loro famiglie.

Il capitano Alain Pangou sulla sua barca, 15 novembre 2019 (Shaun Swingler)

Per Tinou la posta in gioco è alta. Suo marito, che faceva il maestro in una scuola pubblica, è andato in pensione nel 2005 ma non ha ancora ricevuto i soldi che gli spettano. A giudicare dai precedenti, il governo congolese non glieli darà mai. Tinou, 69 anni, è l’unica a provvedere ai sette figli. Alcuni di loro, anche se sono adulti, hanno difficoltà a trovare lavoro, cosa che succede di frequente a Pointe-Noire.

“Queste donne sono forti”, afferma Dyhia Belhabib, un’esperta d’industria ittica che lavora per Ecotrust Canada. Belhabib aggiunge che il contributo di queste lavoratrici all’economia locale supera quello dell’industria ittica, che esporta il grosso delle risorse e dei guadagni fuori dal paese invece di reinvestirlo nelle comunità locali. “Con l’industria ittica il denaro lo vedi: vedi le fabbriche, i camion, i porti”. Il lavoro delle donne, spiega Belhabib, è quasi invisibile. “Non vanno in banca. Non tengono una contabilità ufficiale. Fanno parte di un mercato ombra, ma comunque legale”.

Secondo gli osservatori le preoccupazioni di donne come Tinou e, più in generale, del settore della pesca artigianale in Congo sono spesso trascurate da uno stato che dipende dagli investimenti stranieri e, in particolare, da quelli cinesi. L’80 per cento dei pescherecci industriali al largo delle coste del Congo è cinese, così come il grande impianto per la produzione di farina di pesce che sorge nella periferia di Pointe-Noire. Le aziende cinesi hanno interessi in progetti industriali e infrastrutture in tutto il paese. Lo stato è poco incentivato a limitare il raggio d’azione dei pescherecci cinesi, che pagano centinaia di migliaia di dollari per i permessi di pesca, oltre a tasse e tariffe. Secondo un rapporto del 2012 finanziato dall’Unione europea, tra il 2002 e il 2006 due aziende cinesi hanno investito più di 18 milioni di dollari in diciassette pescherecci industriali attivi nelle acque congolesi. È una somma notevole se si considera che un pescatore artigianale guadagna in media 4.382 dollari all’anno, e i salari più bassi sono intorno ai 276 dollari all’anno.

Se il governo congolese mettesse al bando la pesca allo squalo sarebbero i pescatori artigianali i più colpiti, non i pescherecci industriali. Le autorità di Brazzaville ci hanno provato nel 2001, ma hanno dovuto ritirare la proposta dopo soli quattordici mesi per le proteste dei pescatori. Con un divieto integrale di pesca allo squalo si punirebbero solo i pescatori poveri che tornano a riva con gli squali nella stiva, e non le grandi navi che lavorano al largo, fuori dalla portata della guardia costiera. Inoltre, secondo Kristian Metcalfe, un divieto generalizzato aiuterebbe poco a ripristinare le popolazioni locali di squali.

Per Constant Momballa, ricercatore dell’ong Traffic, sarebbe meglio ampliare seriamente la raccolta, il confronto e l’analisi dei dati sugli squali. Il governo congolese usa un sistema di quote per i pescatori artigianali che prevede un tetto massimo, ma ogni volta che i pescatori raggiungono la loro quota, possono semplicemente chiedere una deroga e comprare un nuovo permesso. La pesca industriale funziona allo stesso modo. Benoît Claude Atsango, direttore generale per la pesca e l’acquacoltura in Congo, ammette che il sistema ha molti difetti: “Abbiamo sempre problemi di budget. Per questo non siamo riusciti a portare a termine nessuno studio per comprendere meglio la situazione”.

Da sapere
Giganti della pesca
Tonnellate di squali pescati ogni anno, primi dieci paesi (più il Congo), media 2010-2018 (Fonte: Fao)

◆ Gli esseri umani catturano e mangiano gli squali da secoli, ma solo in tempi recenti è cresciuta la domanda di questi pesci, si legge in un rapporto della **Fao **del 2015. I pescherecci di tutto il mondo li catturano per le pinne, vendute sui mercati asiatici. Ma grazie anche alle nuove leggi che vietano gli sprechi nella pesca, è nato un mercato per la carne di squalo, che dev’essere lavorata prima di essere consumata. In Islanda, per esempio, la carne è fatta fermentare ed essiccare per ottenere la specialità chiamata hákarl.


Tenuto conto dei bassi livelli di fecondità, della crescita lenta e della maturità sessuale che viene raggiunta solo in età avanzata, gli squali non riescono a riprendersi dall’eccessivo sfruttamento, perciò occorre un’azione “immediata”, sostiene Belhabib.

Dai primi anni duemila la Fao chiede al Congo di sviluppare un piano di azione nazionale. L’organizzazione ha elaborato delle linee guida e offrirebbe assistenza al paese, se solo ne facesse richiesta. Per Belhabib ogni provvedimento in questo senso deve includere “i pescatori artigianali, il cui impareggiabile sapere non è sfruttato abbastanza”.

Nessun vincitore

All’una di notte Pangou e gli uomini dell’equipaggio cominciano a ritirare le reti che avevano gettato alle nove della sera prima. Per farlo ci metteranno ore. I fari dei pescherecci industriali punteggiano l’oscurità e all’orizzonte si vedono le fiamme arancioni che escono dalle piattaforme di trivellazione in mare aperto. Negli ultimi anni il Congo ha ridotto l’area per la pesca artigianale di quasi due terzi per fare posto a nuovi impianti. “Là fuori c’è l’anarchia”, dice Pangou. “E lo stato non fa niente per fermarla”.

Gabi, il pilota, cerca di sollevare il morale con un’interpretazione della hit romena Dragostea din tei. Ma il bottino è misero e tutti sprofondano in un silenzio carico di sconforto. Due grandi granchi, un bellissimo scampo, quattro piccoli squali martello, uno squalo bruno ancora più piccolo e due pesci chitarra sono gettati senza troppe cerimonie nella stiva, dove sguazzano in una poltiglia di acqua e carburante. Gli squali sono già morti, ma i due pesci chitarra si aggrappano alla vita, agitandosi di tanto in tanto sotto i nostri piedi.

Mi scopro a provare per loro un dispiacere pari a quello che provo per i pescatori. Stanotte non ha vinto nessuno.

L’equipaggio leva l’ancora e, sotto una pioggia fitta, Gabi ci riporta a riva poco prima dell’alba. Dopo di che Pangou prenderà due autobus per tornare a casa, dove dormirà qualche ora e magari si metterà in pari con qualche soap opera nigeriana. A metà pomeriggio tornerà in spiaggia a piedi per raccogliere aggiornamenti sul meteo e notizie dalle piroghe di ritorno. Se le condizioni saranno favorevoli e ci saranno un’imbarcazione e un equipaggio disponibili, è pronto a ripartire.

“Il mare è casa mia”, dice. “Quando sto in mare c’è sempre speranza”. ◆gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1409 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati