Il 25 giugno è stato il primo anniversario delle proteste giovanili che hanno scosso il potere in Kenya. Dopo che erano morte sessanta persone, i leader avevano fatto promesse, ma poco è cambiato. Intanto le persone continuano a sparire. Tre settimane fa è toccato ad Albert Ojwang, un insegnante che criticava il governo su internet, che è stato ucciso mentre era in custodia della polizia. A quel punto migliaia di cittadini sono scesi di nuovo in piazza, e ci sono tornati il 25 giugno.
Ancora una volta lo stato ha risposto con la violenza. La polizia ha circondato di filo spinato il parlamento e schierato gli idranti. Negli scontri tra agenti e manifestanti almeno 16 persone sono state uccise e quattrocento sono rimaste ferite.
Il bilancio è di una coalizione di organizzazioni per i diritti umani che monitora le manifestazioni. Lo stato keniano infatti aveva cercato di oscurare quello che succedeva durante la giornata. L’autorità per le comunicazioni aveva ordinato ai mezzi d’informazione di non mandare in onda servizi sulle proteste e, se qualcuno sfidava l’ordine, i funzionari andavano negli studi per interromperle.
Il 24 giugno il quotidiano The Standard aveva parlato di un’operazione segreta e coordinata non solo per reprimere violentemente le proteste, ma anche per rubare i telefoni ai manifestanti, impedendogli di documentare gli abusi degli agenti.
Per la prima volta sono stati denunciati anche stupri sistematici. Usikimye, un’organizzazione di Nairobi che si occupa di violenze sessuali e di genere, ha registrato dieci stupri di gruppo. “Non si era mai visto qualcosa di simile durante le proteste”, ha dichiarato la direttrice Njeri Wa Migwi. “Alcune donne raccontano di essere state circondate da teppisti nel centro della città. Altre sono state aggredite e trascinate giù dai mototaxi che le portavano a casa”.
“Non possiamo lottare per la libertà di giorno e contro gli stupratori di notte”, ha aggiunto. “Queste aggressioni erano organizzate. L’obiettivo è intimidire le donne per spingerle a restare in casa invece di scendere in piazza. E, senza donne, una protesta non è completa”. ◆ fsi
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Questo articolo è uscito sul numero 1621 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati