Al terzo giorno ho cominciato a vedere dei quadri di Rothko. Immerso nel buio, stavo avendo delle allucinazioni di espressionismo astratto: striature rosa e blu che pulsavano attraverso quella che poco prima era solo una stanza nel Massachusetts, anche se sembrava al tempo stesso una grotta e, in qualche modo, un buco nero. Dopo un po’, nel buio totale, si mette in moto un curioso cinema interiore, una specie di generatore di riserva di immagini. Ero seduto da ore. Era giorno o forse notte.
Mi stavo perdendo? Ritrovando? Cosa sapevo davvero? Sapevo di dover respirare: om ah hum. In caso di vero panico, sapevo dov’era la porta. Non volevo la porta. Volevo andare all’osso dell’esistenza, vedere cosa restava.
Un’altra ora, o quattro. Niente luce, persone, attività, schermi. Un cervello nel buio, che per giunta si stava sfaldando. Ho visto la testa di un lupo scivolare via. Poi sono affiorati i ricordi. Un pomeriggio d’autunno in Virginia, i denti arrugginiti di un rastrello impigliati in una radice di salice. Il ragazzino belga del campo estivo, che conosceva una sola frase in inglese, “letto di chiodi”. Mia figlia a casa con l’influenza, la testa sul mio petto, che la solleva piano prima di vomitare. La curva di un albero insolito in Messico, vent’anni fa.
Om ah hum. Basta con il respiro. Tè? Niente più tè. Ho optato per il bagno, più che altro per intrattenimento: seguire il bordo del letto, cercare la parete opposta, girare a sinistra al comò, non far cadere il dispenser del sapone. Sono tornato a sedermi, a fissare ancora il nulla, altro nero.
I Rothko fluttuavano davanti a quella che credo fosse la mia faccia. Rosa, blu, pulsazioni. Avevo fatto cose strane, ma non ero mai uscito dalla vita vera. Stava per succedere qualcosa di ancora più strano. Ma prima: tre colpi nel buio. Ora del pasto. Finalmente.
Ammesso che il “tempo” sia una “cosa” “reale”, erano passati quattro giorni da quando avevo preso un volo da San Francisco a Hartford, nel Connecticut, dove lama Justin von Bujdoss, l’uomo che aveva appena bussato, mi aveva accolto con il suo pick-up. Mi aveva portato allo Yangti yoga retreat center, che ha appena aperto nei boschi del New England. Lì per giorni, a volte settimane, ci s’immerge nel buio e nella solitudine secondo una pratica tibetana millenaria in gran parte segreta. Si dice che, in quello stato, emerga la vera natura della mente e della realtà.
Non vi sorprenderà sapere che von Bujdoss è una persona calma e riflessiva, con una lunga coda di cavallo e una barba irregolare che non sarebbe fuori posto su una cima montuosa avvolta dalla nebbia. Un amico comune ci aveva presentati anni prima e io l’avevo seguito da lontano mentre diventava una figura sempre più nota nel panorama buddista (la sua bio su Instagram rimane umile: “Un temporaneo partecipante in questo campo di apparenze”). Quando la conversazione è tornata sul mio imminente periodo d’isolamento, mi sono ritrovato a fargli una domanda che aveva già sentito: “Quindi… davvero non è un problema che io non sia buddista?”.
Nelle settimane precedenti avevamo parlato della mia esperienza di meditazione e della mia ricerca spirituale in generale, senza alcun legame con una tradizione religiosa.
“Alcuni buddisti non lo apprezzeranno”, mi diceva, “ma il ritiro nel buio ha a che fare con la liberazione e in fondo questo significa liberarsi dalla religione stessa”.
Gli scettici, anche tra i miei amici, non mancavano. “Mi chiedo solo una cosa”, aveva detto un amico. “Hai già versato un acconto?”.
“Impazzirai”, aveva commentato allegramente un altro. Il volto della mia amica Anne era piegato in una smorfia. “Ma c’è almeno Netflix?”, aveva chiesto.
Niente Netflix. Niente libri, niente musica, nessuna compagnia e, idealmente, neppure pensieri. Solo io, in una stanza senza luce dal venerdì mattina al lunedì mattina. Von Bujdoss consegnava i pasti in silenzio attraverso un passaggio metallico a prova di luce e suonava una campanella quando era il momento di uscire. Se qualcosa andava storto, era lì ad aiutarmi.
Ho rassicurato le persone preoccupate dicendo che, un tempo, la gente faceva queste cose di continuo. Gli adepti taoisti si chiudevano in camere oscure per affinare mente e corpo. In Colombia i kogi crescono i loro leader spirituali nelle grotte, educandoli fin dalla nascita nel buio per metterli in contatto con una dimensione nascosta chiamata aluna. Nell’antica Grecia i riti si svolgevano sottoterra, dove la deprivazione sensoriale segnava l’iniziazione.
Von Bujdoss ha cercato di ricreare la versione tibetana buddista di questo rituale. I praticanti vivevano da soli nell’oscurità per lunghi periodi, talvolta per anni, nella speranza di raggiungere la non dualità: il riconoscimento che la separazione apparente tra sé e il mondo è un’illusione. La nostra incapacità di cogliere questa verità è al cuore della sofferenza che infliggiamo a noi stessi e agli altri. Le frequenti visioni intense erano comuni tappe sul cammino per dissolvere i confini della percezione.
Poi questi ritiri hanno perso popolarità, in parte per il turbamento psichico che potrebbero scatenare. Von Bujdoss ne ha capito bene i rischi, ma ha pure sentito l’urgenza di non tralasciare uno strumento così potente. Non tutti sono d’accordo: le pratiche esoteriche, per alcuni, dovrebbero restare tali. Secondo von Bujdoss, invece, il mondo non può permettersi di dimenticare questi antichi rimedi.
Mentre lui cercava di creare un ritiro buddista tradizionale, altrove stava prendendo piede una versione più informale. Nel 2023 il quarterback Aaron Rodgers si era chiuso per quattro giorni negli Sky cave dark retreats dell’Oregon, per decidere se continuare a lanciare palloni per lavoro. C’erano iniziative simili alle Hawaii, in Messico, Costa Rica e Thailandia.
Io non portavo con me nessun dilemma professionale. Il mio progetto era insieme più semplice e più vago: sono una persona tutto sommato felice, ma la mia reazione a questo mondo folle aveva bisogno di un po’ di saggezza antica. Ogni giorno sono troppo preso, troppo permeabile o troppo facilmente distraibile. Dopo aver fissato un appuntamento con von Bujdoss, avevo provato a guardare su YouTube una sua conferenza, ma avevo finito per cliccare su una scena dei Soprano in cui Christopher Moltisanti deve estorcere denaro a un centro massaggi locale, poi avevo guardato delle foto su come sono oggi gli attori dei Soprano e infine avevo pensato per caso a un messaggio divertente da mandare a un amico. Quando finalmente sono arrivato da von Bujdoss, mi sono chiesto se fossi davvero pronto per tutto questo.
E se ormai dipendessi da tutto quel rumore e da quell’inconsistenza algoritmica di cui mi lamento? Parte del fascino del ritiro al buio sta nel fatto che offre l’esatto opposto della nostra civiltà ossessivamente connessa e sempre intrattenuta. Ma forse ormai tutto questo è strutturale.
I fari del pick-up di von Bujdoss illuminavano le strade buie della contea di Franklin. Lasciando l’asfalto, in una radura è comparsa una baita di legno. Mi ha accompagnato in una stanza spartana per la notte. La mattina dopo siamo scesi in un seminterrato abitabile. L’arredamento della mia nuova casa sembrava un incrocio tra un bed and breakfast e Saw X. Ogni finestra, fessura di porta e minimo bagliore elettronico era stato meticolosamente coperto. In una parete era incassato il passaggio metallico per i pasti. Il letto occupava gran parte dello spazio. Sul lato della stanza c’erano un comodino, un thermos di acqua calda, una piccola scrivania con frutta secca e una ciotola di ciliegie e dei cuscini da meditazione. In un angolo, una porta conduceva a un piccolo bagno. Ho cercato di farmi una foto mentale (tisane a sinistra, tè nero a destra; posate al bordo della scrivania), poi è arrivato il momento.
Von Bujdoss mi ha sorriso. “È tutto nella tua testa”, ha detto semplicemente.
Ho chiuso la porta, ne ho sigillato i bordi con il nastro e ho spento la luce.
Quella mattina il tempo e lo spazio hanno perso i loro confini. Voglio essere chiaro su questo punto: non sapevo che potesse esistere un buio del genere. Non c’era nessun “abituarsi”, nessuna differenza tra tenere gli occhi aperti o chiusi. Ho guardato in basso e non ho visto alcuna traccia del mio corpo.
Sono rimasto lì in piedi, una mano sulla scrivania per sorreggermi, prendendo atto che il mondo, e io con lui, eravamo svaniti. Il mio campo visivo si riempiva di varietà di neri e di filamenti ameboidi che nuotavano dentro l’oscurità. Quelle amebe erano sempre state nei miei occhi? Si attivavano col buio?
Sono bastati un paio di minuti di queste elucubrazioni per perdere l’orientamento. Nel tentativo di evitare il letto, ho esagerato e ho sbattuto contro il muro. Prima del ritiro avevo chiesto al mio amico Josh, che è cieco, se questo progetto non gli desse fastidio, tipo “la mia disabilità non è una sofisticata pratica meditativa”. Mi aveva risposto che lo divertiva e pensava che mi sarei addormentato all’istante: “Le persone vedenti reagiscono al buio come gli uccelli quando copri la gabbia”. Ma io ero troppo vigile per dormire.
Nelle ore successive il tempo ha cominciato a oscillare tra il mistico e il banale. Un momento mi sembrava di percepire l’esistenza come una rete morbida sospesa in un gel; quello dopo ero chino a tastare il battiscopa alla ricerca del bicchiere d’acqua. Riempire un bicchiere, comunque, non era difficile. Neanche preparare un tè, una volta superata una lieve scottatura. Presto ho cominciato a creare dei sistemi. Mettere sempre la felpa sulla sedia; riportare sempre il cucchiaio al bordo della scrivania. Intuendo che presto avrei potuto perdermi nel tempo, ho ideato un calendario rudimentale usando un foglio di carta. A ogni pasto avrei fatto un nuovo strappo lungo il bordo.
Temevo una noia claustrofobica. Non è successo: tutto era troppo stranamente avvincente per annoiarmi. Ma senza niente da fare, la questione di dove mettere il corpo esigeva una risposta. Mi sono seduto su un cuscino da meditazione. Mi sono alzato e sdraiato sul letto. Sono tornato al cuscino.
I miei pensieri, se di pensieri si trattava, diventavano evanescenti. Ho mangiato delle ciliegie, mi è sembrato di capire le ciliegie. Ho fatto scorrere la lingua su ogni dente, assorbendo i suoi anni di servizio. Mi è tornato in mente un necrologio bellissimo che avevo letto, e ho visualizzato la peluria sul collo di mio figlio. Mi sono ricordato di non pensare. Om ah hum.
Un brivido d’inquietudine mi ha attraversato. Cosa succede quando ti tagli fuori da tutto? Quando mi sono iscritto, ho immaginato il ritiro al buio come una compensazione a un mondo squilibrato e a un me stesso fuori fase. Mi sembrava anche una forma affascinante di autoesplorazione. Ma ora, nell’oscurità, privo di qualunque legame con persone e cose, quelle idee sembravano lontane. Cosa stavo facendo?
Ho mangiato altre ciliegie, ho tastato la strada fino al bagno e ho fatto cadere il dispenser del sapone. La copertura della gabbia ha fatto il suo effetto e mi sono lasciato cadere in qualcosa che somigliava al sonno.
Il rapporto di von Bujdoss con l’oscurità è cominciato sulle montagne del Sikkim, nell’Himalaya orientale indiana. Era il 2001 e si trovava in una piccola baita vicino alla grotta di Pathing Rinpoche, un lama del buddismo tibetano. Negli anni precedenti Pathing aveva cominciato a impartirgli degli insegnamenti. Ma quel giorno era stato diverso. Senza spiegazioni, gli aveva dato un pecha, un libretto dalle pagine consunte segnate solo da disegni insoliti: visioni che altri avevano avuto nel buio, secoli prima.
Quel pecha avrebbe portato von Bujdoss su un lungo percorso alla scoperta della pratica del ritiro oscuro e della sua introduzione nel mondo contemporaneo. Tornato dall’India, aveva ricevuto l’ordinazione buddista e aveva cominciato a trasformare la sua pratica in un aiuto concreto, “inseguendo la morte a New York”, come cappellano in un programma di assistenza domiciliare nel Bronx. Poi nel 2016 era diventato il primo assistente spirituale interno dell’intero dipartimento penitenziario di New York, occupandosi delle esigenze psicologiche di circa novemila agenti e 1.400 persone dello staff di supporto.
Per giorni, a volte settimane, ci s’immerge nel buio e nella solitudine secondo una pratica tibetana millenaria. Si dice che in quello stato emerga la vera natura della mente e della realtà
Nel carcere di Rikers Island, dove von Bujdoss passava la maggior parte del tempo, offriva sostegno spirituale a persone segnate dalla morte, dalla violenza e dal caos, in un contesto caratterizzato da altissimi tassi di disturbo da stress post-traumatico, sofferenza psicologica ed esaurimento. Quando il covid-19 ha travolto il complesso carcerario, i suoi compiti erano aumentati: era diventato anche cappellano di Hart Island, il cimitero dei poveri di New York, dove ha officiato la sepoltura di oltre cinquemila persone.
Eppure tra morte, lutto, minacce alla propria incolumità e il ritorno stremato dalla moglie e dai figli a Brooklyn, von Bujdoss non ha mai dimenticato quelle misteriose pagine ricevute da ragazzo. Le mostrava ai suoi maestri buddisti appena poteva, sperando che qualcuno lo guidasse nella pratica esoterica che descrivevano. Ma non lo aveva mai fatto nessuno.
Poi, nell’ottobre 2020, il medico tibetano e maestro di meditazione Nida Chenagtsang aveva accettato di guidarlo per portare alla luce quegli insegnamenti segreti. L’anno successivo, von Bujdoss aveva già trasformato un vecchio edificio dietro la casa dei suoi genitori a Cold Spring, nello stato di New York, in uno spazio improvvisato per un ritiro al buio. Quando lo ha finalmente messo alla prova, meditando al buio per una settimana, ha sperimentato qualcosa di completamente diverso da tutto ciò che aveva vissuto prima. L’ultimo giorno di questo ritiro di prova, a Rikers è morto un agente di custodia. Uscito dal buio, von Bujdoss è tornato subito in servizio per confortare la famiglia dell’uomo, gestire la logistica e indossare l’uniforme per partecipare al funerale in una chiesa del Bronx. Mentre le cornamuse suonavano Amazing grace e il feretro veniva portato al carro funebre, ha sentito un sussurro nella mente che diceva: “Torna nel buio”. Ancora in divisa, ha guidato direttamente verso Cold Spring. Aveva ottenuto un’aspettativa dal lavoro e i genitori gli avrebbero portato i pasti. Si è congedato dalla famiglia, è entrato nell’oscurità e ci è rimasto per 49 giorni.
Un tradizionale ritiro buddista nel buio dura sette settimane, la durata del bardo, quell’intervallo tra morte e rinascita in cui la coscienza, liberata dal corpo, fluttua tra visioni prima di trovare una nuova forma. Von Bujdoss ha respirato, meditato, dormito e fatto poco altro. Al terzo giorno sono arrivate scosse di espansione della coscienza. Poi sono arrivati i sogni, “in cui sei sveglio, apri gli occhi, ma il sogno continua”. Ha visto coccodrilli e gnu nella stanza con lui, e una volta uno sciacallo che divorava un cadavere umano. A un certo punto si è svegliato trovandosi sopra una figura simile alla Medusa. Alla fine ha cominciato a sospettare di essere morto e ne è seguito un confronto profondo con il lutto e il senso di colpa. Ha superato quella soglia ed era ancora lì quando ha sentito di nuovo la voce, la stessa che lo avrebbe portato a lasciare il lavoro, acquistare 27 ettari di terreno e trasferirsi con la famiglia nella campagna del Massachusetts. Perché, chiedeva la voce, limitarsi ad aiutare le persone a orientarsi nelle loro difficoltà invece di trasformare le loro menti?
Al mio risveglio, tutto era naturalmente ancora buio. Era mezzanotte? L’alba? Immaginavo che sottrarsi alla tirannia dell’orologio o del sole sarebbe stato un sollievo. Invece era destabilizzante: a quanto pare il tempo ti dice cosa fare e, di riflesso, chi sei. Sono andato al passaggio metallico e ho scoperto di aver dormito mentre era mi stato consegnato il pasto. Von Bujdoss aveva preparato una squisita ciotola di qualcosa che forse era kugel (un timballo tipico ebraico). Ho afferrato il cucchiaio, ho portato la ciotola alla bocca e ho inghiottito il contenuto. Ero a metà di un boccone quando in testa mi si è acceso un proiettore.
Gaza. Ucraina. Sudan. Sparatorie nelle scuole. Immagini terribili sono esplose da qualche parte nella mia mente. Scorrevano una dopo l’altra, ribollendo di morte, terrore e strazio. Non riuscivo a muovermi, stavo lì seduto con la ciotola in mano. Non è che di solito io non rifletta su questi orrori, è che riesco a contenerli. Leggo dell’ennesima atrocità e subito scarto verso l’indignazione o il ragionamento politico, oppure continuo a leggere e poi esco per andare a prendere i bambini. Ora tutto quello che potevo fare era restare con quell’orrore.
Si è aperta una strana diga. Pochi minuti dopo, il nastro che sigilla la porta del bagno si è staccato, illuminando quel lato della stanza. Sono balzato in piedi per coprire la fuga di luce, scoprendo poi che l’avevo solo immaginata. Sono tornato al mio cuscino e mi sono trovato dentro una grotta di neve. La grotta si è trasformata nella Via Lattea, così nitida che le comete mi sfrecciavano accanto. Poco dopo ero in un’antica fortezza di pietra. Asburgica, lo sapevo senza sapere come. La luce lunare filtrava da un buco nel tetto, inondando il pavimento di un azzurro pallido e illuminando una colonna di polvere. Nella vita normale faccio fatica a evocare immagini; lì ero Rembrandt.
Non ho mai creduto davvero che quelle visioni fossero reali, ero alterato ma lucido. Ma anche sapendo che quelle immagini erano solo frutto della fantasia, il loro caos puro mi scuoteva. Un viaggio psichedelico spesso si svolge come una storia, strana ma coerente. Lì invece le visioni sembravano casuali, una borsa svuotata sul divano. Un attimo vedevo i miei figli alle prese con il loro futuro nella crisi climatica; quello dopo la morte di un amico, poi la mia lapide; e poi ancora mia moglie, bellissima.
Prima del ritiro mi rassicuravo dicendo che se la mia sanità mentale avesse vacillato avrei potuto sempre andarmene. Non era così nei ritiri di un tempo, quando pare che l’ingresso della grotta del praticante venisse bloccato con dei massi. Quello che non avevo previsto è che prima di spezzarsi la mente si piega. A un certo punto ho pensato che von Bujdoss mi stesse negando la cena: era una lezione sull’attaccamento? Un rimprovero per la folle quantità di ciliegie che avevo mangiato? (La cena che mi aveva consegnato era una bistecca). Gli elementi intorno a me, il mio stesso io, tutto diventava di ora in ora rarefatto, quasi teorico. Finalmente mi sono sentito pronto per una doccia e ci sono riuscito, ho trovato perfino il balsamo, ma la semplice configurazione del bagno mi ha confuso più che mai, come se una disorientante sfasatura cosmica mi stesse privando di qualunque familiarità spaziale avessi conquistato.
Ho resistito alla tentazione di dare un senso a quello che stava accadendo. Invece di costruire narrazioni sul perché delle cose, mi ha spiegato von Bujdoss, l’idea è fermare del tutto quegli ingranaggi, finché ciò che resta è la consapevolezza. Al posto di capire, ho provato semplicemente a osservare.
A un certo punto devo essermi addormentato, perché è arrivata domenica e infine anche domenica sera. Il tempo è diventato un tornado di confusione, fascinazione e sfinimento. La piena mi ha affascinato, ma anche travolto. Non riuscivo a distogliere lo sguardo e non trovavo pace. Stavo facendo la cosa più semplice immaginabile, restare da solo con me stesso, non fare nulla, ed era sconvolgente.
Nei filmati di altri ritiri nel buio i partecipanti emergono dall’oscurità in un’estasi commossa. Io ho scelto di uscire con un tocco di comicità. Dormivo profondamente quando von Bujdoss ha fatto risuonare la campana del lunedì mattina. Mi sono seduto di scatto, per scoprire che nella stanza era cresciuta una giungla intera. Sono balzato dal letto e ho cominciato a schivare a destra e a sinistra enormi rami che oscillavano ovunque. La campana continuava a suonare, i rami mi dondolavano intorno. Cercavo i vestiti sul pavimento quando un ramo particolarmente grande mi è piombato addosso. Sono caduto a testa in giù contro un tavolino. Quando finalmente ho strappato il nastro dalla porta barcollando fuori, nel mondo della luce, tutto girava.
Salendo le scale del seminterrato, ho trovato il piano terra della baita vuoto e silenzioso, von Bujdoss era rintanato nella sua stanza. Ero grato che non fosse ancora giorno, il chiarore antelucano era il massimo che potessi sopportare e mi schermavo gli occhi perfino da quello. Per il resto non avevo istinti né direzione. Mi sono avvicinato a una finestra. Gli alberi intorno alla baita erano neri e indistinti, come tracciati a matita. I rami s’intravedevano appena, contro l’aria bluastra che li circondava. Una ghiandaia saltava da uno all’altro. Una visione? No, non una visione. Poi è stato tutto troppo e mi sono ritirato nella camera degli ospiti fino a quando un paio d’ore dopo è apparso von Bujdoss.
Durante il viaggio di ritorno verso l’aeroporto, la conversazione era una terra straniera (von Bujdoss me l’aveva preannunciato). Non trovavo le parole. Non chiedevo di decodificare tutto ciò che avevo visto, ma perché era stato così intenso? La risposta sembrava essere che avevo ancora molto da riflettere. Forse ciò che avevo osservato era la pura e leggermente delirante liberazione della mia mente. O forse la mia mente stava solo cercando di ostacolare in ogni modo una consapevolezza più profonda.
Von Bujdoss ha cominciato a parlare di Rikers. Alla fine aveva capito che lì la macchina della disumanizzazione era troppo forte per essere trasformata; oggi è un abolizionista del carcere. Ma ha visto anche lampi straordinari di umanità, da entrambi i lati delle sbarre. In un gruppo di meditazione aiutava gli agenti a portare alla luce le emozioni che reprimevano sul lavoro, come paura, rabbia, tristezza. L’obiettivo non era fargli lasciare il lavoro, ma far notare come quei sentimenti trapelassero ferendo loro stessi e gli altri e offuscando la loro capacità di vedere chiaramente il presente. Von Bujdoss lavorava anche con i detenuti e anche loro avevano avuto le loro epifanie.
La trasformazione di von Bujdoss da autorità in divisa a guida spirituale aveva molto a che fare con ciò che accadeva durante il ritiro. Aveva visto come il buio e l’isolamento potessero spezzare una persona, ma ha creduto anche che, in un contesto radicalmente diverso, possano aiutare a guarire. Ha descritto quella guarigione come spaziosità. Dopo aver accumulato più di cento giorni in ritiro, la spaziosità è ciò che trova nel buio e anche nel mondo illuminato. In ogni momento c’è più spazio di quello che pensiamo per diversi modi di vedere, comprendere e reagire.
Abbiamo guidato lungo un fiume argentato. Il sole era alto. Per lo più tenevo lo sguardo all’interno del pick-up. Avevo un po’ di nausea. Tutto mi sembrava troppo: l’erba, i cartelli stradali, l’asfalto, gli uccelli, le auto, il rumore, le idee, i sentimenti. Credo che all’aeroporto mi abbia abbracciato per salutarmi, ma non ne sono sicuro.
Sono tornato da qualche settimana e i miei cari hanno quasi finito di sondare e scrutare. Con loro sollievo e, forse, una lieve delusione, sono ancora io. Non mi fermo a contemplare la bellezza di un soffione. Non cammino attraverso i muri perché tanto non esistono. Qualunque cosa sia cambiata, si nasconde altrove, in una nebbia che fatico a penetrare. Ma ci sono momenti in cui uno sguardo, una conversazione, una notizia o anche una semplice ombra che passa sembrano aprirsi come una fisarmonica.
Vado avanti a fare quel che sto facendo, qualunque cosa sia: queste patate dolci non si cucineranno da sole. Eppure sembra essersi radicata da qualche parte nel mio cervello l’idea che sia possibile avere qualche metro quadrato in più nel mondo, anche se per la maggior parte dei giorni è troppo buio per vederlo. ◆ svb
Chris Colin è un giornalista statunitense. Vive a San Francisco. Questo articolo è uscito sul New York Times Magazine con il titolo “‘You’re going to lose your mind’: my three-day retreat in total darkness”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1642 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati