“Senti che odore!”. Abderrazek Krichen avvicina la bottiglietta al naso. “Mela”, constata con piacere. “Quest’olio d’oliva è eccellente. Dorato e della perfetta densità. Si potrebbe esportare come extravergine tunisino”. Alle sue spalle le olive appena raccolte nei campi intorno a Sfax, in Tunisia, scorrono sul nastro per lo smistamento. I frutti selezionati finiranno nei frantoi della stanza accanto e l’olio che ne uscirà sarà venduto all’ingrosso a un compratore (probabilmente spagnolo) per poi raggiungere gli scaffali dei supermercati europei come olio d’oliva spagnolo. Krichen, il presidente dell’Unione regionale dell’agricoltura e della pesca (Urap), il sindacato locale, ci sta accompagnando in visita allo stabilimento del produttore Bashir Boukhris alle porte di Sfax, il cuore dell’industria olearia tunisina. Ai lati dell’autostrada che porta qui dalla capitale Tunisi si vedono uliveti per decine di chilometri. I filari di alberi corrono in linea retta fino all’orizzonte, solo occasionalmente interrotti da una palma, da un mandorlo o da un piccolo centro abitato. Siepi di cactus delimitano ordinatamente le diverse proprietà.
Boukhris vorrebbe esportare il suo prodotto d’alta qualità nell’Unione europea come olio da tavola tunisino, ma è un’impresa quasi impossibile. “Il mercato europeo è nelle mani di pochi produttori spagnoli, che importano il nostro olio interamente biologico, lo mescolano con il loro di qualità inferiore e lo vendono con l’etichetta di olio spagnolo. I profitti li fanno gli spagnoli, non noi”, si lamenta Krichen. “La politica europea non è onesta. Vogliamo un mercato equo e la possibilità di esportare il nostro olio senza restrizioni”. Nel 2019 la Tunisia è stata la terza produttrice di olio d’oliva al mondo dopo la Spagna e l’Italia. Quell’anno ne ha prodotte 350mila tonnellate. Questa coltivazione dà lavoro a più di trecentomila agricoltori, l’85 per cento dei quali ha piccoli appezzamenti di meno di dieci ettari l’uno. Nel 2020, con un valore di 2,3 miliardi di dinari (700 milioni di euro), l’olio d’oliva ha rappresentato la metà dell’export agricolo tunisino. Questo valore potrebbe crescere del 200 per cento se i produttori potessero vendere in Europa il loro olio in bottiglie. Invece, è esportato nell’Unione all’ingrosso da una manciata di grandi aziende che dominano il mercato. È un peccato, si lamentano gli agricoltori tunisini: il loro olio d’oliva è di altissima qualità e quasi completamente naturale, perché viene da ulivi di varietà chemlali, introdotti dai fenici quasi tremila anni fa, che sono particolarmente resistenti al caldo intenso e alla siccità.
“Questa vista mi riempie di gioia”, dice Krichen, che indossa occhiali da sole e mascherina, mentre costeggiamo in macchina gli uliveti. Gli alberi maestosi sorgono a ventiquattro metri esatti l’uno dall’altro. In questo modo i rami secolari possono allungarsi liberamente verso il cielo per prendere più luce possibile, le radici possono trarre il massimo nutrimento dalla scarsa acqua a disposizione e i trattori riescono a passarci in mezzo. “È così che dev’essere. A Sfax ci piace coltivare alla maniera tradizionale. È il nostro orgoglio”, dice il sindacalista.
Naturale e artificiale
Oggi questo sistema è minacciato dai cambiamenti climatici, ci spiega Krichen mentre raggiungiamo il suo uliveto. È stato piantato centoquarant’anni fa. “Risale a prima della colonizzazione francese”, dice. Poi indica i canaletti d’irrigazione sul terreno giallo ocra: “Devo usare più acqua perché, anno dopo anno, piove sempre meno”. Ma Krichen la usa con parsimonia, “come se il clima non stesse cambiando”: secondo lui gli ulivi crescono meglio alla maniera tradizionale, cioè con il sole, l’aria e la pioggia. In Tunisia, ormai, scarseggia anche l’acqua delle falde, a cui gli agricoltori sono costretti ad attingere sempre più spesso.
Negli ultimi dieci anni molti coltivatori hanno cominciato a usare l’irrigazione artificiale. Slim Rekik, un imprenditore di una cinquantina d’anni, produce olio d’oliva da un decennio e oggi possiede un uliveto di circa novanta ettari. I suoi alberi sono ancora giovani e più vicini che in altri campi: distano dodici metri l’uno dall’altro. Rekik non ha tempo di aspettare i quindici anni che di solito devono passare prima che l’ulivo chemlali dia per la prima volta un buon raccolto. Ha piantato ulivi spagnoli e greci, che diventano produttivi nel giro di otto anni, ma che hanno bisogno di molta più acqua. Il risultato del passaggio all’irrigazione artificiale è che in breve tempo la produzione di olio in Tunisia è raddoppiata e i prezzi dei prodotti sono calati nettamente, con grande sofferenza degli agricoltori, già provati dalla crisi economica e dall’alto tasso d’inflazione.
Anche Rekik vorrebbe esportare in Europa, ma è “piuttosto complicato”, dice mentre attraversiamo il suo curatissimo uliveto, dove gli operai stanno potando gli alberi. “Ho tutti i certificati necessari, incluso quello per l’olio d’oliva biologico, ma la licenza per l’esportazione no, perché non ho abbastanza capitale”. Rekik è costretto a vendere il suo olio all’ingrosso ad alcuni intermediari invece d’imbottigliarlo e venderlo direttamente ai supermercati europei a un prezzo più alto.
Guadagni in fumo
Tanti anni fa, per offrire ai produttori tunisini un accesso più equo al mercato internazionale, l’Unione europea concesse al paese una quota di 56.700 tonnellate di olio d’oliva da esportare in regime di esenzione fiscale. Ma in realtà, sostiene Krichen, questa quota viene “mangiata” dalle grandi multinazionali spagnole: l’ufficio nazionale dell’olio, che tratta con Bruxelles per conto dei produttori tunisini, è messo fuori gioco da un gruppo d’influenti intermediari che, grazie ai loro agganci e alle loro risorse economiche, riescono a ottenere le licenze di esportazione e consegnano direttamente la merce a grandi produttori spagnoli come la Borges.
“L’Unione europea tratta con se stessa e presenta la cosa come se ci stesse facendo un regalo”, dice Krichen, contrariato, vicino al pozzo nell’uliveto del suo amico Slim, dopo aver calcolato i potenziali guadagni che questo produttore ha visto sfumare. “Gli danno al massimo 3,5 dinari (1 euro) per un chilo d’olio (1,1 litri). L’intermediario lo rivende al doppio agli spagnoli della Borges, che a loro volta lo rivendono al doppio ai supermercati con l’etichetta di olio d’oliva spagnolo. È un’enorme ingiustizia, perché hanno bisogno del nostro olio per garantirsi un profitto”.
I tunisini vorrebbero che la quota fosse abolita al più presto, così gli agricoltori potrebbero esportare in regime di esenzione e competere ad armi pari con i produttori spagnoli e italiani. Nel 2016 la Tunisia ha ottenuto un innalzamento temporaneo della quota per compensare il crollo del turismo causato dagli attacchi terroristici dell’anno precedente. I tentativi di strappare un prolungamento di questa misura incontrano in particolare la resistenza dell’Italia, che vuole proteggere i suoi produttori. Da allora le trattative tra Tunisi e Bruxelles su un nuovo accordo commerciale si sono bloccate, come conferma un portavoce della Commissione europea. Per i governi tunisini che si sono avvicendati dopo la rivoluzione del 2011, l’agricoltura “non è mai stata, purtroppo, una priorità”, spiega Fatma Mokaddem, che con Oxfam Tunisia cerca di migliorare i salari e le condizioni di lavoro nel settore agricolo. “Anche a causa dei limiti europei alle importazioni i coltivatori tunisini non possono offrire una paga dignitosa ai braccianti che raccolgono le olive”.
Con paghe così misere, spesso meno di cinque euro al giorno, è difficile trovare operai, osserva Krichen mentre guarda soddisfatto due operai che potano un ulivo secolare. Il più giovane dei due, in alto, segue le istruzioni del collega più anziano. “I ragazzi non sanno più come si fanno queste cose”, sospira Krichen. “E anche sugli operai che vengono dal resto dell’Africa non si può fare affidamento: appena hanno messo da parte qualche migliaio di euro, salgono su un barcone per andare in Europa”.
◆ Nella stagione 2020-2021 la produzione mondiale d’olio d’oliva sarà di 3,1 milioni di tonnellate, in linea con la media degli ultimi sei anni. Secondo le stime della Commissione europea, il primo produttore mondiale è la Spagna con 1,4 milioni di tonnellate, seguita da Italia e Grecia (270mila tonnellate), Turchia (222mila), Marocco (170mila), Siria (126mila) e Tunisia (120mila, in netto calo rispetto alle 350mila tonnellate della stagione precedente).
Ora che anche i giovani tunisini emigrano in Italia a causa della difficile situazione economica nel loro paese, aumentano le pressioni sull’Europa. L’Italia, infatti, spera di contenere i flussi migratori dalla Tunisia. Finora Tunisi ha acconsentito ad accogliere i migranti irregolari rimpatriati dai paesi europei, ma il governo – al pari di quelli marocchino e turco – comincerà a chiedere all’Unione qualcosa in cambio, soprattutto dopo che il covid-19 ha causato danni enormi al turismo, un altro importante motore economico. “Paradossalmente è proprio l’Italia a opporsi quando si parla di fare concessioni alla Tunisia sull’olio d’oliva”, spiega l’europarlamentare olandese Bas Eickhout, dei verdi di GroenLinks. “Quando sono in ballo gli interessi economici, ci si dimentica subito dei migranti. È chiaro che entrambe le questioni vanno affrontate, in tavoli separati, a Bruxelles”.
Logiche neocoloniali
Le “ingiustizie del mercato” sono una spina nel fianco per i tunisini. Si chiedono perché gli è negato un accesso equo al mercato europeo (“tanto più che siamo vicini dell’Europa”) mentre la Francia continua ad avere privilegi che risalgono all’epoca coloniale. Le aziende francesi importano dalla Tunisia sale e fosfati senza limiti e a prezzi stracciati in virtù di contratti siglati prima dell’indipendenza. Domande simili risuonano in tutta l’Africa, soprattutto in quella francofona: riguardano la vendita del legno in Camerun e in Senegal, dell’uranio in Niger, dei minerali ferrosi in Mauritania, e del caucciù e dello zucchero nella Repubblica Democratica del Congo.
“Sono pratiche neocoloniali”, sostiene Rachid Bouricha, proprietario della 1938, azienda che prende il nome dall’anno in cui la sua famiglia aprì il frantoio HB Mills. Da qualche anno Bouricha esporta olio d’oliva biologico in eleganti bottiglie negli Stati Uniti e in Arabia Saudita. Vorrebbe esportare anche in Europa, ma come altri produttori si scontra con il muro dei dazi europei. I costi sarebbero troppo alti: per ogni bottiglia dovrebbe pagare 1,25 euro di tasse d’importazione.
“La quota in regime d’esenzione fiscale per la Tunisia è monopolizzata dai grandi commercianti e importatori europei. I criteri da seguire per i produttori che vorrebbero esportare senza dazi sono rigidi, perciò i piccoli coltivatori non riescono a inserirsi. Il sistema è concepito per permettere alle aziende europee di acquistare l’olio tunisino all’ingrosso, a prezzi bassi. È un sistema iniquo, e dovremmo pure ringraziare?”, sospira Bouricha mentre ci mostra la sua fabbrica. Dipendenti con tute, cuffie e mascherine prendono bottiglie d’olio dal nastro scorrevole per riporle in scatoloni destinati all’Arabia Saudita.
“I dazi ci estromettono dal mercato”, dice il manager dell’azienda, Imed Mahfoudh. “Qui non facciamo che sopravvivere. Non c’è da stupirsi se poi i tunisini salgono sui barconi in cerca di un futuro migliore in Europa”. ◆ sm
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Questo articolo è uscito sul numero 1408 di Internazionale, a pagina 68. Compra questo numero | Abbonati