La capitale croata ha un gran numero di musei: quello della cravatta, del cioccolato, delle illusioni ottiche, della cannabis, delle relazioni interrotte, delle storie dimenticate, della risata, della sbornia, del denaro, degli anni ottanta, dei selfie e dei ricordi. A quanto pare a Zagabria tutto diventa un museo. Ma sono veri musei o semplici attrazioni turistiche? Sono indubbiamente progetti di successo, ma non rispondono ai criteri minimi per essere considerati musei. E a parte qualche rara eccezione, non cercano neanche di rientrare in questi criteri. Ma sta proprio qui l’idea ingegnosa: si cerca un tema in grado d’interessare, si riempiono quattro o cinque sale di oggetti e poi si propone ai turisti giapponesi, alle coppie di innamorati o agli studenti in gita scolastica qualcosa che non ha niente a che vedere con l’idea di museo.
Quello che conta è che il posto sia interattivo e divertente, che si possano scattare delle foto e condividerle sui social. Insomma, che si possa vivere un’esperienza unica che inevitabilmente si concluderà nello shop del museo, dove si potrà comprare un souvenir. Dopo aver visitato questo genere di musei non si rischia di avere male ai piedi perché di solito per vederli non ci vuole più di mezz’ora. In questi “neomusei” non solo si ha il diritto di toccare gli oggetti esposti, ma sono proprio gli organizzatori a chiederti di farlo. Non si rischia di mettere in pericolo opere che fanno parte dell’eredità culturale o del patrimonio artistico. Nessun quadro astratto difficile da capire, nessun custode che vi ricorda il divieto di scattare foto. Solo divertimento per lo spettatore e guadagno per il gestore. Ma si potrebbe dire, dov’è il problema? Per quanto mi riguarda non ce n’è. Del resto sono tanti anni che il settore dei musei ha puntato sulla commercializzazione: i negozi dei “veri” musei sono pieni di manifesti, sottobicchieri e borse di tela. Molte strutture propongono visite in realtà virtuale. Le leggi sono state modificate per permettere ai giganti della cultura di realizzare profitti per le finanze pubbliche.
L’esplosione di quelli che si possono a fatica chiamare musei è una sorta di rivincita: le istituzioni più tradizionali hanno cercato di allargare il mercato per attirare un nuovo pubblico, ma adesso sono condannate a competere con musei come quello della cannabis o quello della sbornia. Tuttavia anche questi musei, che tecnicamente non lo sono, meritano di essere visitati. Del resto se guadagnano già del denaro facendosi chiamare “musei”, perché non dovrebbero essere trattati come tali? Ecco quindi un giro critico dei neomusei di Zagabria.
Museo delle relazioni interrotte
È qui che tutto comincia. La creazione del museo delle relazioni interrotte si deve alla rottura del rapporto sentimentale tra la produttrice cinematografica Olinka Vištica e il pittore Dražen Grubišić. Dopo la rottura gli è venuta l’idea di conservare i loro ricordi in un museo. La struttura, nata nel 2010, ha definito le regole di questo nuovo genere di musei. Le sue collezioni hanno fatto il giro del mondo.
È stato il primo in Croazia inteso a modernizzare il concetto di museo, non considerato più un istituzione vecchia e polverosa. La sua posizione nella città alta, nel centro di Zagabria, l’ha inserito nell’itinerario delle attrazioni da non perdere. Il gioco sulla museificazione degli oggetti personali “ordinari” che riguardano la sfera intima e la dimensione interattiva ha entusiasmato il pubblico. E tra le varie attrazioni ci sono l’inevitabile negozio di souvenir e un bar, assente negli altri musei.
Nel corso del tempo la collezione è diventata più ampia, includendo anche gli oggetti che riguardano altri tipi di relazioni interrotte. Come quelle dei genitori che hanno perso un figlio o quelle relative ai ricordi dei figli orfani dei genitori. Ogni oggetto esposto è accompagnato da una breve storia o da una confessione. Alcuni di questi scritti sono dei veri capolavori letterari in miniatura.
Le sale sono organizzate in maniera tematica: storie d’amore in tempo di pace e in tempo di guerra, l’amore omosessuale ed eterosessuale, licenziamento e povertà, relazioni con un uomo molto più anziano o in un matrimonio aperto. “Anche se il museo è caratterizzato da un’esperienza personale, dalla cultura o dalla storia locale”, gli oggetti esposti riflettono dei modelli universali che possono aiutare chi cerca conforto, afferma il testo della guida. Questa struttura è rivolta soprattutto a un pubblico aperto, progressista, ai turisti e alle persone curiose, caratteristica che è ben lontana dall’essere universale.
Museo delle illusioni ottiche
Dopo il museo delle relazioni interrotte, il museo delle illusioni ottiche è probabilmente uno dei migliori prodotti di esportazione, direbbero i sostenitori delle industrie creative e i promotori dell’economia culturale croata. È nato a Zagabria nel 2015 e ha aperto più di quaranta succursali in venticinque paesi. Si può scoprire che l’illusione ottica “anatra-coniglio”, in cui si può vedere di volta in volta sulla stessa immagine uno dei due animali, è nata in un articolo apparso su una rivista umoristica tedesca della fine dell’ottocento ed è servita da illustrazione alle discussioni filosofiche di Ludwig Wittgenstein e di Thomas Kuhn. Tuttavia nel museo delle illusioni ottiche di Zagabria non se ne fa cenno, e non si può nemmeno vedere la famosa immagine anatra-coniglio.
Nessuno si aspetta che questa piccola attrazione turistica abbia la funzione educativa di una seria istituzione culturale, ma se si pretende il nome di “museo” bisognerebbe selezionare le opere con una certa serietà.
In realtà il museo delle illusioni ottiche è solo una grande sala giochi. Molto riuscita, ma si tratta più di un’illusione di museo che di un museo d’illusioni.
Museo della sbornia
Mentre da un punto di vista qualitativo il museo delle illusioni ottiche è molto al di sotto del museo delle relazioni interrotte, il museo della sbornia è a metà strada tra i due. In effetti le mie aspettative non sono andate deluse. L’atmosfera da bevute goliardiche e da serate folli domina le sale: un tipo si è ubriacato e ha portato a casa un cartello stradale; un altro non ha trovato la porta del suo appartamento o si è risvegliato con un tatuaggio sulla gamba. E nessuno si ricorda di nulla. Anche l’idea di questo museo è esporre i ricordi personali offerti dal pubblico.
Un simulatore di guida in stato di ebbrezza, la traduzione di messaggi nel “linguaggio da ubriaco”, una sfida su TikTok: ecco cosa caratterizza questo museo. Le didascalie che accompagnano gli oggetti fanno leva sul senso dell’ironia: “Ho pensato che bere potesse farmi male, così ho smesso di pensare”. Peccato però che la frase non mi ha fatto ridere.
Il museo della sbornia offre ai visitatori i nomi delle divinità dell’ebbrezza nelle varie mitologie, una lista delle bevande alcoliche nel corso della storia e un manuale che spiega come introdurre clandestinamente delle bottiglie nei festival e nei concerti. Ma anche delle pietanze provenienti da tutto il mondo per far passare una sbornia: prugne salate giapponesi, aringa marinata tedesca e uova di struzzo al latte cagliato dal Sudafrica. Si possono ottenere informazioni sul proibizionismo statunitense o trovare la spiegazione scientifica del blackout prodotto dall’alcol. La visita di questo museo è interessante, ma purtroppo non aiuta a lottare contro la sbornia.
Museo del denaro
L’unico museo gratuito del nostro elenco è Moneterra, il museo del denaro. È logico, visto che non si tratta di un progetto di una piccola azienda, ma di un monumento interattivo che la banca nazionale croata ha creato in suo onore. All’entrata c’è un immenso schermo panoramico largo almeno dieci metri. Girando la ruota di una cassaforte scorrono sullo schermo in ordine cronologico le pagine della storia mondiale della finanza, dalle prime conchiglie paleolitiche fino all’euro digitale. Nelle sale multimediali si può partecipare a un quiz, fare delle domande a un governatore virtuale e terminare la visita con un regalo ricordo: una banconota e una moneta con la propria immagine. Nel corso della visita al museo s’imparano tante cose: cosa sono l’inflazione, la stabilizzazione e altre sottigliezze della politica monetaria, senza dimenticare le criptomonete, l’intelligenza artificiale e la crisi climatica. Le attrattive offerte dal museo sono tutte socialmente responsabili e aggiornate. Poi però ci si risveglia bruscamente ricordando il proprio livello di vita e il tasso d’inflazione della Croazia, che per il quinto anno consecutivo è uno dei più alti d’Europa. Così si realizza molto presto che non si vive nella stessa realtà economica dei progettisti di Moneterra e del governatore della banca nazionale croata.
Museo della cravatta
La cravatta è senza dubbio il più grande contributo croato all’industria della moda. Ma anche se i croati hanno inventato questo accessorio, la cosa non sembra interessare molto gli stranieri. Infatti è poco probabile che tutte le mattine un regista giapponese o un funzionario di Bruxelles, mentre si annodano la cravatta, pensino ai coraggiosi soldati croati andati in guerra all’inizio del seicento con dei fazzoletti rossi al collo. Neppure io penso a Genova (che potrebbe essere l’etimologia di jeans) infilando la mattina i miei jeans. Cravaticum è un piccolo museo. Al primo piano si può vedere un breve documentario sulle cravatte, prima di fare il giro dei locali dedicati a questo oggetto di abbigliamento. Il tutto in una ventina di minuti. A dire il vero non c’è molto da dire sulla cravatta. In un primo tempo erano larghe, poi strette. Sono fabbricate in diversi tessuti e si possono annodare in modo diverso. Il record di rapidità per annodare una cravatta (10,92 secondi) e la cravatta più lunga del mondo (808 metri) sono nel Guinness dei primati. E questo è più o meno tutto.
Per far passare una sbornia: prugne salate giapponesi o aringa marinata tedesca
Museo della risata
Bisogna riconoscere che il progetto del museo della risata è molto più ambizioso del modesto Cravaticum. Due piani, otto sale, arredi in plastica dai colori vivaci, un’offensiva pubblicitaria lanciata dagli influencer sui social network, cinque o sei hipster nel ruolo di animatori. Si vede che dietro tutto questo c’è un investimento. Si entra nel museo lungo uno scivolo sinuoso che finisce direttamente in una piscina riempita di palle. Molto rapidamente mi accorgo di avere quarant’anni in più del resto del pubblico. Spero che i bambini in età prescolare troveranno maggiore divertimento nell’avvicinarsi alla macchina a scoregge, nell’ascoltare un coro di polli che canta Bella ciao o entrando nel ring dove si affrontano dei lottatori di sumo di gomma. C’è anche una cabina per il karaoke, una guida del museo a fumetti e scherzi di vario genere.
Per giustificare il suo nome, il museo della risata propone una parte educativa: tipologia americanizzata dei generi umoristici, dalla torta in faccia alla battuta pungente, e una storia della risata attraverso i secoli. In realtà sarebbe meglio se si limitasse a essere quello che è: una sala giochi e di divertimento per i più piccoli.
Museo della cannabis
Il museo della cannabis potrebbe servire da esempio alla maggior parte dei neomusei. Poteva diventare una trappola per turisti amanti degli spinelli, che alla fine della visita avrebbero comprato una maglietta con il volto di Bob Marley e la scritta: “Ero a Zagabria, ma non mi ricordo”. Ma non è così. Questo museo è in uno spazio modesto e mette in evidenza la storia dell’uso in modica quantità, dell’uso alimentare e di quello ricreativo della cannabis in quasi tutte le grandi civiltà. La storia comincia nel villaggio di Banpo (vicino a Xian, nel centro della Cina), dove quattromila anni prima di Cristo la cannabis era coltivata come una delle principali coltivazioni alimentari e prosegue fino all’inizio del novecento e al suo divieto.
Il museo è senza dubbio basato sulla militanza. Questa caratteristica non si manifesta attraverso slogan, ma con delle spiegazioni divertenti: dalla morfologia della pianta ai suoi effetti sull’essere umano; dall’annebbiamento che produce ai trattamenti delle malattie gravi; dalla sottocultura hippy al movimento rastafari.
Le visite a questo tipo di museo si fermano qui. Non ho avuto tempo per visitare il museo del cioccolato, quello degli anni ottanta, delle storie dimenticate, dell’arte incompiuta, dei selfie e dei ricordi, della Nouvelle vague. Ma ne aprono in continuazione di nuovi e in futuro spero di avere altre occasioni per rifare un giro. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1616 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati