Quando faccio birdwatching, mi capita fin troppo spesso di vivere un’esperienza particolare. Gli altri bird­watcher indicano la volta d­egli alberi e mi chiedono se riesco a vedere un uccello nascosto tra le foglie. Io esploro le cime degli alberi con un binocolo ma, con grande irritazione di tutti, vedo solo l’assenza di uccelli.

Il nostro mondo mentale vive spesso queste esperienze di assenza, eppure è un mistero come la mente riesca a vedere il nulla. Come può il cervello percepire qualcosa se non c’è niente da percepire?

Per un neuroscienziato interessato alla coscienza, questa è una domanda stimolante. Studiare la base neurale del “nulla”, tuttavia, pone qualche ovvio problema. Per fortuna, ci sono altri tipi di assenze, più tangibili, che ci aiutano ad affrontare il problema di come il cervello percepisce il nulla. Ecco perché ho trascorso gran parte del mio dottorato a studiare come percepiamo il numero zero.

Lo zero ha svolto un ruolo importante nello sviluppo delle nostre società. Nel corso della storia umana ha avuto difficoltà ad affermarsi nelle civiltà intimorite dal nulla, e prosperato in quelle che lo hanno accettato, ma questo non è l’unico motivo per cui è così affascinante. Come la percezione dell’assenza, anche la rappresentazione nel cervello dello zero come numero è ancora poco chiara. Se il mio cervello ha meccanismi specializzati che si sono evoluti per contare i gufi appollaiati su un ramo, come fa questo sistema ad astrarre da ciò che è visibile, e segnalare che non ci sono gufi da contare?

Il mistero condiviso tra percezione delle assenze e concezione dello zero potrebbe non essere una coincidenza. Quando il nostro cervello riconosce lo zero, forse sfrutta alcuni meccanismi sensoriali fondamentali che decidono quando possiamo o non possiamo vedere qualcosa. Se è così, le teorie della coscienza che enfatizzano l’esperienza dell’assenza potrebbero trovare un nuovo uso per lo zero, come strumento con cui esplorare la natura della coscienza stessa.

Il male maggiore

Lo zero ha cominciato la sua esistenza come un’impronta sull’argilla umida. Circa cinquemila anni fa, in Mesopotamia, i sumeri idearono un metodo rivoluzionario per scrivere i numeri. Invece di inventare nuovi simboli per numeri sempre più grandi, progettarono un sistema in cui la posizione di un simbolo all’interno di un numero corrispondeva al valore di quel simbolo. Se vi sembra troppo vago, probabilmente è perché l’idea stessa ci è così familiare che non siamo abituati a spiegarla. Considerate i numeri 407 e 47. Entrambi contengono un 4, che però rappresenta valori diversi (rispettivamente 400 e 40). Per interpretare correttamente il simbolo dobbiamo tenere conto della colonna in cui si trova all’interno del numero (in questo caso le centinaia o le decine). Anche se può sembrare un semplice cambiamento di struttura, le conseguenze di questa notazione furono enormi, perché consentiva di registrare grandi numeri e semplificava i calcoli. Ma a un certo punto si pose un problema: cosa si doveva fare quando una colonna non conteneva nessun numero, come nel caso di 407? Fu così che nacque lo zero: i sumeri decisero di usare un cuneo diagonale tra due numeri per indicare “qui non c’è niente”.

Nonostante l’utilità della notazione posizionale e di un simbolo matematico per il nulla, il concetto di zero incontrò resistenza e perfino derisione quando si estese oltre il Medio Oriente. Le civiltà greche hanno lasciato pochi documenti sull’uso dello zero e continuarono a usare un sistema non posizionale, molto simile ai numeri romani. L’aristocrazia greca, cioè le persone che studiavano la matematica, evitava accuratamente l’uso dello zero. La Grecia era una terra di geometria e i suoi studiosi cercavano di descrivere il mondo usando linee, punti e angoli. Il concetto di “nulla” non aveva una collocazione naturale. Il loro amore per la logica poneva ulteriori ostacoli: come poteva il nulla essere qualcosa? Aristotele concluse che il nulla stesso non poteva esistere.

Tuttavia, l’utilità della notazione posizionale per i commercianti aiutò lo zero a infiltrarsi ovunque nonostante le resistenze. Furono le classi lavoratrici a decidere il suo destino, portandolo da Babilonia all’India tramite le rotte commerciali, intorno al terzo secolo avanti Cristo. A differenza della Grecia, in India il nulla faceva parte delle fondamenta filosofiche della cultura. La varietà di parole che gli indiani usavano per “nulla” in contesti diversi (come l’immensità dello spazio, l’etere o il vuoto) indica che la loro civiltà considerava il “nulla” una cosa descrivibile in sé, non semplicemente in quanto l’assenza di qualcosa. In questo contesto più propizio, lo zero prosperò. Astronomi e matematici come Brahmagupta descrissero le regole matematiche associate allo zero. Qualsiasi numero meno se stesso era uguale a zero; qualsiasi numero moltiplicato per zero era zero, e così via. Lo zero non era più semplicemente un segno che indicava una colonna vuota, era un concetto radicato, alla pari con gli altri numeri.

Si pensa che lo zero sia stato rappresentato per la prima volta con un cerchio vuoto nella città di Gwalior, nell’India centrale, nell’876, ma ancora una volta la sua popolarità tra i mercanti implica che le tracce più antiche, scritte solo su carta o corteccia, potrebbero essere andate perdute. Attraverso le rotte commerciali, il concetto tornò in Medio Oriente prima di entrare in circolazione nella società europea, in particolare tramite un giovane mercante viaggiatore di nome Leonardo Fibonacci. Nel 1202 pubblicò il suo Liber abbaci (libro del calcolo), che fece conoscere il concetto di zero al pubblico europeo. Eppure lo zero era ancora osteggiato. La sua associazione con il niente era considerata in diretta opposizione alla divinità: se Dio aveva creato il mondo dal nulla, era ovvio che il nulla doveva essere evitato. Sant’Agostino lo equiparava al diavolo: il nulla era il male maggiore.

Ancora una volta, la classe lavoratrice si dimostrò essenziale per promuovere l’uso dello zero. Con l’introduzione della partita doppia, che gli artigiani usavano per registrare entrate e uscite, l’utilità dello zero risultò chiara anche in Europa. Intorno al quindicesimo secolo, la classe intellettuale non poté più ignorarla e lo zero cominciò a essere accettato. Forse il fatto più notevole è che alla fine del diciassettesimo secolo lo zero permise agli scienziati Gottfried Wilhelm Leibniz e Isaac Newton di formulare indipendentemente i princìpi del calcolo infinitesimale, il cui centro era il calcolo dei minimi e dei massimi delle funzioni matematiche. Per questo, lo zero era fondamentale.

Come affermò il matematico Leonhard Euler, “nel mondo non succede nulla il cui significato non sia quello di un qualche massimo o minimo”. Quel qualcosa poteva svelare i segreti dell’universo.

Tom Moore, Gallery stock

Pupazzi nascosti

Il ritardo nell’adozione dello zero nel corso della storia rispecchia quello dei bambini nel padroneggiare il concetto. Mentre i numeri positivi corrispondono a entità osservabili nel mondo reale, lo zero non serve per contare. Come disse Alfred North Whitehead: “Nessuno esce a comprare zero pesci”. Per comprendere e usare lo zero bisogna allontanarsi dal mondo fisico e andare verso il mondo astratto dei concetti, il che potrebbe spiegare perché i bambini impiegano più tempo a padroneggiare il concetto di zero rispetto ad altri numeri.

Negli esperimenti i bambini in fase preverbale sono capaci di riconoscere il numero di oggetti che gli vengono mostrati. Quando gli psicologi dello sviluppo mostrano una sequenza di immagini, per esempio quattro giocattoli, i piccoli rimangono sorpresi se improvvisamente ne vedono cinque. Esperimenti simili sono stati condotti per scoprire come i bambini piccoli possano eseguire calcoli semplici. Quando i bambini di cinque mesi vedono che viene messo un pupazzo dietro uno schermo dove credono che ce ne sia già un altro, se lo schermo viene rimosso e ne appaiono tre li fisseranno più a lungo, suggerendo che possono distinguere i calcoli scorretti. Questa capacità però svanisce quando il risultato è zero pupazzi.

Crescendo, i bambini cominciano a mostrare una comprensione rudimentale del rapporto tra zero e “nulla”, ma non riescono a coglierne appieno le qualità numeriche.

Per esempio, in età prescolare anche se sanno che zero significa “nessuna cosa” credono ancora che uno sia il numero più piccolo. Se gli si chiede di decidere se zero è più piccolo di un altro numero, tendono a rispondere tirando a indovinare. In altri studi, i bambini piccoli sono stati in grado di fare questo tipo di confronti, ma solo quando la parola “nulla” è stata usata al posto della parola “zero”.

Questi studi rafforzano l’intreccio tra lo zero e l’assenza: per arrivare a concepirlo come un numero, lo zero dev’essere inserito nella categoria del “nulla” prima di poter prendere il suo posto all’inizio della serie numerica. Anche quando gli adulti lo concettualizzano come un numero piccolo, lo zero pone comunque delle difficoltà cognitive. Per esempio, le persone sono più inclini a commettere errori nel classificare lo zero come pari o dispari (nonostante gli venga detto che lo zero è un numero pari) e impiegano più tempo a leggere gli zeri rispetto ad altri numeri piccoli, il che indica un maggiore sforzo del sistema cognitivo.

Codifica specifica

Date queste stranezze comportamentali, è naturale chiedersi come sia rappresentato lo zero nel cervello. Ma questa domanda è diventata oggetto di studio scientifico solo di recente. Meno di dieci anni fa, due diversi laboratori hanno trovato prove convergenti della rappresentazione dello zero nel cervello di primati non umani. Registrando l’attività di singoli neuroni mentre mostravano alle scimmie un numero diverso di punti, i ricercatori hanno identificato i neuroni interessati a quantità specifiche.

Entrambi gli studi hanno trovato cellule che rispondevano di più agli insiemi vuoti, in alcuni casi ignorando tutti gli altri. Per la prima volta, i ricercatori hanno dimostrato che alcuni neuroni codificano specificamente per lo zero. Inoltre ne hanno individuati altri che mostravano uno schema di attività più graduale: si attivavano di più quando le scimmie vedevano una scena vuota, ma si attivavano un po’ anche quando vedevano un punto, un po’ meno quando ne vedevano due, e così via. Questo riflette la concezione dello zero come punto d’inizio della serie numerica.

Nel 2024 due nuovi studi hanno contribuito a individuare la base neurale dello zero, questa volta negli esseri umani, esaminando la capacità di rappresentarlo con il simbolo “0”. Uno studio che ha preso in esame l’attività dei singoli neuroni nel cervello dei soggetti ha replicato i risultati degli studi sulle scimmie, questa volta per modelli di punti e numeri. Ha anche rivelato che i neuroni che rispondevano a insiemi vuoti mostravano un tipo di attività leggermente diverso rispetto ai neuroni che rispondevano a un numero positivo di punti. A causa di questa differenza, è possibile che nel cervello questi neuroni rappresentino una categoria più fondamentale di “nulla”, confermando il profondo legame tra lo zero e l’assenza.

Nella stessa direzione va un esperimento che io stesso ho condotto con Stephen Fleming usando la magnetoencefalografia, che misura l’attività combinata di migliaia di neuroni, durante compiti numerici che coinvolgono lo zero sotto forma di simbolo e insiemi vuoti. L’attività di diversi gruppi di neuroni ha dimostrato che nel cervello lo zero era situato all’inizio della serie numerica sia negli insiemi vuoti sia come simbolo. Ma nel nostro esperimento l’attività cerebrale corrispondente agli insiemi vuoti era simile a quella prodotta in risposta ai simboli dello zero. Questo conferma l’idea che la nostra capacità di simbolizzare il concetto di zero potrebbe nascere da rappresentazioni più semplici e non simboliche dell’assenza.

Nel complesso questi studi cominciano a fornire le prime prove di un’ipotesi proposta dal neuroscienziato Andreas Nieder nel 2016, secondo cui la rappresentazione dello zero nel cervello umano potrebbe condividere alcune proprietà con la capacità di percepire il “nulla” in sé.

Alcuni neuroni si occupano esclusivamente degli insiemi vuoti

Il trattino mancante

Cosa significa dunque percepire un’assenza o il nulla? Esperienze simili possono essere trasferite in laboratorio chiedendo alle persone di trovare immagini deteriorate nel “rumore” visivo: “Hai visto qualcosa o era solo rumore?”. Si è scoperto che, proprio come quella della comprensione dello zero, la questione di cosa serve per percepire l’assenza al livello sensoriale non è così semplice. I sistemi sensoriali del cervello sono orientati a rilevare la presenza di oggetti invece della loro assenza: quando un oggetto entra nel nostro campo visivo, in generale, si attivano i neuroni nella corteccia visiva. Inoltre, questa tendenza a rilevare gli oggetti si riflette nell’interesse scientifico per l’argomento: la maggior parte delle indagini neuroscientifiche sulla percezione e sulla coscienza è interessata a come diventiamo consapevoli di qualcosa.

Eppure le esperienze di assenza costituiscono una parte significativa della nostra esperienza cosciente: spesso diventiamo consapevoli di ciò che non possiamo vedere. Quindi rivelare la loro radice neurale è importante anche per comprendere pienamente i meccanismi alla base della consapevolezza umana. Come la percezione dello zero, anche quella delle assenze sensoriali nell’infanzia si sviluppa più tardi rispetto alla percezione delle caratteristiche tangibili. La prova classica di questo è il cosiddetto _ feature-positive effect_, che dimostra come la presenza di qualcosa sia più facile da rilevare della sua assenza. Per esempio, i bambini di quattro mesi che hanno acquisito familiarità con la lettera F restano sorpresi quando il simbolo successivo ad apparire è una E, che ha un tratto in più in basso. Ma se l’ordine è invertito e una E è seguita da una F, i bambini non sono turbati: è come se semplicemente non registrassero l’assenza della linea inferiore. Curiosamente, questo rispecchia l’incapacità dei bambini di riconoscere lo zero negli esperimenti con i pupazzi descritti in precedenza.

Proprio come succede con lo zero, le nostre difficoltà nel percepire le assenze continuano nell’età adulta. Quando correggiamo un testo, siamo molto più capaci di accorgerci se le lettere hanno dei tratti di troppo che quando ne manca qualcuno (MANCE scritto come MANGE sarà facilmente individuabile, ma FRANGE scritto come FRANCE potrebbe esserlo di meno). Quando si mostrano agli adulti sequenze di immagini, si rilevano distorsioni simili a quelle dei bambini. Questa scoperta è stata confermata con una serie di stimoli uditivi e visivi, e anche in animali come i piccioni, i ratti, le api e le scimmie.

Non solo, ma l’incapacità di rilevare le assenze è qualcosa di cui siamo poco consapevoli. Quando diciamo di non aver visto nulla di solito siamo meno sicuri di quando pensiamo di aver visto qualcosa, ma siamo anche meno in grado di stabilire se è probabile che questi giudizi siano corretti o scorretti. In breve, è più difficile avere un’intuizione autoriflessiva sulle nostre esperienze di assenza che sulle nostre esperienze di presenza.

Rumori o immagini

Se il modo in cui il cervello percepisce le assenze è così particolare, come fa esattamente a produrre queste esperienze del nulla? Come con lo zero, stanno emergendo prove che alcuni neuroni nel cervello di uccelli, scimmie ed esseri umani si concentrano sulle assenze percettive. Negli esperimenti in cui corvidi e macachi dovevano rilevare se uno stimolo debole appariva su uno schermo, i neuroni di regioni analoghe alla corteccia frontale degli esseri umani si sono attivati appena prima che gli animali mostrassero di non aver visto nulla. Allo stesso modo, negli esseri umani singoli neuroni della corteccia parietale si sono attivati quando i soggetti hanno deciso che uno stimolo di vibrazione applicato al loro polso era assente.

La comprensione dello zero potrebbe essere un indicatore della coscienza

Questi “neuroni dell’assenza” indicano che una persona ha già deciso che uno stimolo era assente, oppure stanno contribuendo al processo di prendere la decisione? Non lo sappiamo ancora. Tuttavia, ora sembra più chiaro che le percezioni di assenza non sono dovute a un’assenza di attività neurale. Il cervello potrebbe avere meccanismi specifici per rappresentare simili esperienze.

Questi meccanismi sono fondamentali per alcuni modelli emergenti sulla coscienza. Le teorie del monitoraggio della realtà percettiva (Prm) e dello spazio di stato di ordine superiore (Hoss) si concentrano sui processi cerebrali che decidono se qualcosa è stato visto o no. Secondo queste teorie, esiste un meccanismo neurale che interpreta l’attività cerebrale rilevata nelle aree visive (e in altre aree sensoriali). Questo meccanismo controlla se l’attività sensoriale contiene abbastanza modelli affidabili per indicare che è stato percepito un oggetto, oppure se si tratta di rumore o immagini mentali. Il sistema non resta semplicemente inattivo quando c’è un’assenza di attività affidabile nelle regioni sensoriali, ma indica attivamente che non è stato percepito nulla. Questo spiegherebbe come possiamo diventare consapevoli di un’assenza di stimolo.

Quindi, come percepiamo esattamente le assenze quando non c’è niente da percepire? Secondo il neuroscienziato cognitivo Matan Mazor, per essere in grado di percepire un’assenza dobbiamo prima sottoporci a una qualche forma di ragionamento controfattuale, del tipo “se l’oggetto fosse stato presente, l’avrei visto”. L’aspetto intrigante di questa formulazione è che richiede l’accesso all’autoconoscenza del proprio sistema percettivo: il cervello dev’essere in grado di dire se sta funzionando normalmente e se i nostri sistemi di attenzione erano abbastanza vigili da rilevare l’oggetto o il suono in questione se fosse stato presente. Esistono prove empiriche del fatto che sia così.

In uno studio, ai partecipanti è stato chiesto se c’era una lettera nascosta nel rumore visivo: una volta che la loro vista delle immagini disturbate è stata ostruita con delle linee, i partecipanti hanno aumentato la velocità con cui decidevano che una lettera era presente quando invece non c’era. In altre parole, le persone usavano l’intuizione autoriflessiva secondo cui il loro sistema visivo sarebbe stato ostacolato nel rilevare la lettera e ne tenevano conto nel processo decisionale.

Al centro dell’essere

Tutto ciò ci riporta allo zero. La domanda è: l’esperienza dello zero e l’assenza percettiva sono guidate dallo stesso meccanismo neurale? Se è così, questo dimostrerebbe che, quando in matematica usiamo lo zero, stiamo anche usando un sistema cognitivo più fondamentale e automatico che è responsabile del rilevamento dell’assenza di uccelli quando facciamo birdwatching. I sistemi cerebrali usati per estrarre numeri positivi dall’ambiente sono relativamente ben compresi. Parti della corteccia parietale si sono evolute per rappresentare il numero di “cose” presenti nel nostro ambiente, eliminando le informazioni su che cosa siano. Questo sistema indicherebbe semplicemente “quattro” se per esempio vedessi quattro gufi. Si pensa che questo sia fondamentale per capire la struttura del nostro ambiente.

Se si scoprisse che i sistemi neurali che governano la nostra capacità di decidere consapevolmente se vediamo o meno qualcosa si basano sullo stesso meccanismo, ciò aiuterebbe teorie come la Hoss e la Prm a comprendere esattamente come si manifesta questa capacità. Forse, proprio come impara la struttura e le regolarità del nostro ambiente, questo sistema impara anche la struttura dell’attività sensoriale del nostro cervello per determinare quando abbiamo visto qualcosa.

Un’ipotesi intrigante è che, se la base cerebrale dello zero usa lo stesso tipo di meccanismi neurali legati all’assenza considerati necessari perché l’esperienza sia cosciente, allora affinché qualsiasi organismo possa applicare con successo il concetto di zero forse dovrebbe prima aver bisogno di essere percettivamente cosciente. Quindi la comprensione dello zero potrebbe essere un indicatore della coscienza. Dato che anche le api hanno dimostrato di comprendere un concetto rudimentale di zero, questo potrebbe sembrare inverosimile. Ma è interessante pensare che le somiglianze tra assenze numeriche e percettive potrebbero contribuire a farci scoprire le basi neurali non solo delle esperienze di assenza, ma anche della consapevolezza in senso più ampio. Dopotutto, Jean-Paul Sartre affermava che il nulla è al centro dell’essere.

L’evoluzione del numero zero ha contribuito a svelare i segreti del cosmo. Resta da vedere se può aiutarci a svelare i misteri della mente. Per ora, studiarlo mi ha almeno portato a vergognarmi di meno dei miei fallimenti nel birdwatching. Ora so che c’è una grande complessità nel non vedere nulla, e che “niente” è davvero importante. ◆ bt

Benjy Barnett è ricercatore in neuroscienze allo University college London, nel Regno Unito

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1610 di Internazionale, a pagina 60. Compra questo numero | Abbonati