Il sole di inizio novembre riscalda dolcemente le strade di Erevan. Sopra la capitale armena si solleva una densa polvere che oscura le montagne circostanti. Anche la più importante, l’Ararat, situata a poche decine di chilometri, oltre il confine con la Turchia. L’Ararat è il simbolo dell’Armenia: la sua sagoma con in cima l’arca di Noè adorna lo stemma nazionale. Ma oggi rievoca soprattutto le sofferenze, i traumi e le umiliazioni subiti dagli armeni.

A Erevan regna un’insolita calma, anche se si percepisce chiaramente la vivacità tipica delle metropoli caucasiche. Quasi due anni fa il Nagorno Karabakh – che gli armeni chiamavano Repubblica dell’Artsakh – è stato abbandonato da quasi tutti i suoi abitanti. Con l’operazione militare del 19 e 20 settembre 2023 l’Azerbaigian ha annientato l’esercito di questo piccolo stato non riconosciuto e ha costretto le sue autorità a dichiararne lo scioglimento. Un’esperienza che ha segnato la coscienza collettiva degli armeni: di quelli dell’Artsakh, che hanno visto andare in frantumi la loro esistenza, di quelli dell’Armenia, e perfino di quelli della diaspora, in gran parte discendenti di quanti furono costretti a emigrare, in particolare dopo il genocidio commesso dai turchi nel 1915.

Fin dall’indipendenza dell’Armenia, ottenuta ufficialmente nel 1991 con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli abitanti di Erevan hanno sempre avuto familiarità con la guerra, che ha plasmato l’identità della nuova nazione e a lungo ne ha legittimato il regime politico. La guerra era il racconto tramandato da chi tornava dal fronte, ai tempi del primo conflitto del Nagorno Karabakh e nel periodo del cessate il fuoco, durato dal 1994 al 2020: una tregua solo formale, perché i combattimenti non si fermarono mai.

A raccontare il conflitto sono stati i soldati stessi. O le loro bare. Anche gli armeni del Karabakh, visitatori occasionali di Erevan, hanno portato in città le loro storie. Per chi viveva nella capitale, quella guerra era lontana. Il viaggio fino a Stepanakert – la capitale del Karabakh, Chankendi per gli azeri – durava infatti parecchie ore e la strada attraversava diversi passi, tra cui quello di Vorotan, a 2.344 metri di altitudine, che separa la provincia di Syunik e il Karabakh dal resto del paese.

Arrivano i profughi

Tutto è cominciato a cambiare nel novembre 2020. È stato allora che sono arrivati a Erevan i primi profughi, dopo la sconfitta armena nella seconda guerra del Karabakh. Secondo le stime internazionali, i 44 giorni di scontri hanno provocato novantamila sfollati. Le persone tornate in Karabakh dopo la fine delle ostilità del 2020 sono state tra le ventimila e le cinquantamila, stando ai dati discordanti forniti da Erevan e Baku. Con la guerra è tornata l’esperienza dell’esilio, che segna ancora profondamente l’identità armena.

In base all’accordo che ha messo fine alla guerra nel 2020, il corridoio di Laçın – unico collegamento terrestre tra il Nagorno Karabakh e l’Armenia – doveva essere aperto e sorvegliato dalle forze di pace russe (sembra un ossimoro, ma i soldati russi erano presenti nella regione con questo ruolo). Tuttavia, nel dicembre 2022 alcuni ambientalisti hanno bloccato il corridoio per protestare contro il presunto sfruttamento illegale di risorse naturali da parte degli armeni del Karabakh. L’azione non era affatto spontanea e non aveva nulla che fare con l’ecologia: i manifestanti erano stati inviati dal governo di Baku.

Una famiglia armena a Magadis, in Nagorno Karabakh, il 26 giugno 2020  (Alexis Pazoumian)

Nell’aprile 2023 l’esercito azero ha istituito illegalmente un posto di blocco sul corridoio di Laçın e ha chiuso le strade alternative per “motivi di sicurezza”, sostenendo che erano usate per consegnare armi ai separatisti del Karabakh. Così Stepanakert ha smesso di ricevere viveri e medicinali. Gli armeni hanno denunciato il rischio di una crisi umanitaria, mentre la diaspora, particolarmente influente in Francia e negli Stati Uniti, chiedeva (senza successo) d’imporre sanzioni a Baku. Con la guerra in Ucraina in corso, il Caucaso era finito in secondo piano, tanto più che l’Armenia rimaneva formalmente alleata militare di Mosca. Il presidente azero Ilham Aliyev si sentiva sempre più forte: la comunità internazionale non aveva nessuna intenzione di opporsi alle sue azioni.

Quando il corridoio di Laçın è stato chiuso, molti armeni del Karabakh si trovavano fuori dal territorio. Tornando da Dilijan, dove studiava, Marija si era fermata dalla sorella a Erevan. L’ho conosciuta grazie a un’amica comune, che nella fase più acuta della crisi, l’autunno 2023, lavorava come fixer per i giornali e le tv occidentali. “Ho saputo del blocco mentre ero a Erevan. Quasi tutta la mia famiglia era rimasta nell’Artsakh. I miei genitori non hanno potuto nemmeno assistere alla cerimonia della mia laurea. Alla fine sono stati costretti a partire. Non immaginavo che li avrei rivisti in una situazione simile”, racconta Maria. Erano rimasti separati per più di nove mesi.

Poi Aliyev ha fatto il passo successivo. E il 19 settembre 2023 è cominciata “l’operazione antiterrorismo nel territorio del Karabakh”, per usare l’espressione coniata dagli azeri. L’obiettivo era neutralizzare le autorità separatiste. “La sera stessa Stepanakert era già circondata dalle truppe azere. Nella capitale dell’Artsakh cominciavano ad arrivare le persone in fuga dai villaggi conquistati dalle forze di Baku. Raccontavano storie di crudeltà, brutalità e torture”, racconta Meri Asatryan, specialista in relazioni internazionali e assistente di Gegham Stepanyan, l’ultimo difensore civico per i diritti umani della Repubblica dell’Artsakh.

I racconti erano intrisi di un terrore che era anche il frutto delle fobie inculcate per anni nella testa degli armeni del Karabakh, ma le organizzazioni internazionali come Amnesty international hanno confermato che durante l’operazione azera ci sono stati atti di violenza e omicidi. Secondo Meri Asatryan era un modo per fare pressione psicologica: l’esercito azero doveva far paura. E ci è riuscito. Quando Samvel Shahramanyan (presidente dell’Artsakh per pochi giorni dopo le dimissioni di Arayik Harutyunyan) ha annunciato la resa, a Stepanakert si è scatenato il panico. Ed è cominciato l’esodo. Secondo gli armeni si trattava di pulizia etnica; per l’Azerbaigian era un esodo volontario. Stando ai dati delle Nazioni Unite, dopo la vittoria azera nel Karabakh sono rimasti tra i cinquanta e i mille armeni. Il 1 gennaio 2024 tutte le istituzioni dello stato non riconosciuto hanno smesso di esistere. La Repubblica dell’Artsakh era scomparsa. La guerra del Nagorno Karabakh era finita.

“La fuga degli armeni del Karabakh ha sicuramente fatto comodo alle autorità di Baku”, osserva Przemysław Adam­czewski, storico e studioso del Caucaso. “Ma è stata davvero imposta con la forza? Oppure è stata dettata dalla paura di un nemico demonizzato per decenni, che aveva vinto in un confronto militare? Io propenderei per la seconda ipotesi”. Comunque sia, nel giro di pochi giorni nel settembre 2023 più di centomila armeni dell’Artsakh hanno perso le loro case e un posto dove vivere.

Le sfide dell’integrazione

Oggi nel Nagorno Karabakh sono rimaste solo incertezza e precarietà. Se ne parla in quasi tutte le conversazioni. E poi c’è la paura, che ha tormentato la popolazione armena mentre le truppe azere si avvicinavano, una paura che in seguito è arrivata anche in Armenia.

I profughi del Karabakh hanno avuto la fortuna di essere accolti in un paese culturalmente affine, dove si parla la loro lingua. Ma questo dettaglio è anche una potenziale minaccia, perché “i rifugiati temono di perdere la loro identità e la loro specificità culturale, oltre al loro dialetto”, spiega Gayane Shagoyan, antropologa dell’accademia armena delle scienze.

I cittadini armeni hanno accolto a braccia aperte gli sfollati del Karabakh. Nel villaggio di Kornidzor, subito dopo il confine, ad accoglierli c’erano attivisti e volontari. Una volta smistati nelle città armene, molti sono stati ospitati da famiglie che non conoscevano. Tuttavia, secondo Meri Asatryan la solidarietà dei cittadini non è stata sostenuta adeguatamente dalle autorità. Alcuni dei rifugi erano situati in località e villaggi vicinissimi al confine con l’Azerbaigian, quindi particolarmente vulnerabili in caso di un nuovo attacco. Inoltre, il sussidio concesso una tantum era davvero esiguo: centomila dram, poco più di 230 euro.

Maria è abbastanza critica con l’attegiamento dei cittadini armeni: “Forse non ci sono state manifestazioni d’odio, ma di certo ho visto reazioni ostili”, dice.

Wojciech Górecki, autore di reportage e analista del centro studi orientali di Varsavia, è convinto che in Armenia ci sia un certo risentimento, per quanto non esibito, verso gli armeni dell’Artsakh. “Sono sempre stati associati al cosiddetto clan del Karabakh, e poi l’esistenza stessa della repubblica non riconosciuta era diventata un peso per Erevan”, spiega. “Quella dei primi anni novanta fu una vittoria di Pirro per gli armeni: vinsero la guerra, ma persero la pace. Si trovarono isolati: i confini con la Turchia e l’Azerbaigian erano chiusi, e il paese era tagliato fuori dalle principali vie di comunicazione della regione. Lo stato non poteva svilupparsi. Anche se nessun armeno è disposto ad ammetterlo, il Karabakh rappresentava un fardello per il paese. Oggi forse c’è un certo sollievo, perché Erevan si è liberata di un problema. Ma si tratta comunque dell’ennesimo trauma nella martoriata storia del popolo armeno. Al di là del fatto che i cittadini armeni possano non amare particolarmente i loro connazionali del Karabakh, va detto che la fine del conflitto del Nagorno Karabakh potrebbe rivelarsi positiva per Erevan”.

Sullo status dei profughi interviene Alexander Iskandaryan, politologo armeno e direttore del Caucasus institute: “Secondo la legge armena sono persone sfollate forzatamente, con diritto alla protezione temporanea. Appena la situazione politica in Armenia si è stabilizzata dopo lo shock della sconfitta, tutti i nuovi arrivati hanno acquisito la cittadinanza”.

Areg Kochinyan, storico e analista di Erevan, sottolinea un’altra questione ancora irrisolta: “La situazione degli armeni del Karabakh”, osserva, “ricorda quella di molti palestinesi, che possono viaggiare con passaporti libanesi, ma non sono cittadini del Libano. Lo status delle persone provenienti dal Karabakh è simile anche a quello dei rifugiati bosniaci durante la guerra nell’ex Jugoslavia: sono cittadini di uno stato scomparso. Anche ai bosniaci inizialmente fu concessa la protezione temporanea”.

Le sfide da affrontare sono enormi. “Al momento è difficile individuare le soluzioni migliori. Serviranno interventi mirati per favorire l’integrazione e l’adattamento dei nuovi arrivati”, spiega Gayane Shagoyan. Secondo l’antropologa il problema dell’inserimento è complicato dalla questione del lavoro: molti armeni dell’Artsakh erano impiegati nel settore pubblico e oggi faticano a orientarsi in un sistema burocratico strutturato in modo diverso. Anche le differenze culturali giocano un ruolo importante. E poi ci sono i piccoli dettagli: “Per fare un esempio, nel Karabakh era normale lasciare la porta di casa aperta. Una delle prime cose da spiegare ai profughi è che in Armenia le porte vanno chiuse”, dice Shagoyan.

L’aeroporto di Zvartnots a Erevan, in Armenia, il 26 giugno 2020 (Alexis Pazoumian)

“Il processo di integrazione degli sfollati era già cominciato dopo il conflitto del 2020”, aggiunge l’antropologa Hranush Kharatyan. “Eppure, al livello amministrativo non è ancora stata elaborata una strategia complessiva. È fondamentale garantire che siano sistemati il più lontano possibile dal confine ed evitare la creazione di ghetti. Allo stesso tempo bisogna permettergli di restare accanto alla loro comunità. Sempre però lasciandogli la libertà di scelta”.

Kharatyan e Shagoyan fanno notare che la maggior parte degli sfollati con cui hanno parlato desidera vivere in gruppi coesi. Un atteggiamento che ha un precedente storico: dopo il genocidio del 1915 interi villaggi dell’Armenia occidentale furono trasferiti nell’Armenia orientale. L’obiettivo era ricreare la vecchia topografia e gli spazi condivisi in un luogo nuovo.

Prospettive di ritorno

Oggi la crisi dei rifugiati ha conseguenze non solo umanitarie, ma anche politiche. E potrebbe destabilizzare il paese. Quando ho parlato con Kochinyan, nel novembre 2023, mi ha detto che la situazione politica era tesa. “Chiunque potrebbe cercare di sfruttare l’instabilità dell’Armenia. Molto dipenderà anche dagli sviluppi internazionali. E anche dall’ambizione di Aliyev di controllare l’intero Caucaso. Un altro elemento in grado di minacciare la stabilità dell’Armenia potrebbe essere il tentativo di far fuori il primo ministro Nikol Pashinyan. Ma questo sarebbe possibile solo con un intervento della Russia”.

Per adesso prevale un senso di immobilismo intriso di rassegnazione. Di recente il panorama politico è stato ravvivato solo dalla comparsa dell’arcivescovo Bagrat Galstanyan, che con il suo movimento Tavush per la patria avrebbe voluto spazzare via Pashinyan. Il suo piano, però, non si è realizzato.

Górecki ritiene che quello che succederà a Erevan dipenderà anche dalle nuove ambizioni politiche e territoriali di Aliyev. “A Baku l’idea di prendere il controllo del cosiddetto Azerbaigian occidentale (così è indicata l’attuale Armenia nella propaganda azera) circola dalla metà degli anni duemila”, spiega. “È un concetto usato soprattutto per l’opinione pubblica interna, ma serve anche a fare pressione su Pashinyan. Fino a che punto sarà possibile realizzare simili progetti? Aliyev è un giocatore d’azzardo. E non si può escludere nulla”.

Meri Asatryan afferma che oggi la priorità è garantire che non sia dimenticato il diritto al ritorno degli armeni del Karabakh. Sarà davvero possibile? Asatryan crede di sì, a patto che siano soddisfatte tre condizioni. “In primo luogo, gli armeni non vorranno tornare nella regione finché ci sarà il rischio di dover fare il servizio militare nell’esercito azero”, dice. “In secondo luogo, serve la protezione da parte delle forze internazionali, per esempio le Nazioni Unite. Infine, occorre garantire che gli armeni non siano perseguiti per le azioni compiute prima del 2023”.

Conterà molto anche come gli azeri immagineranno questo ritorno. “Oggi la posizione ufficiale è chiarissima”, dice l’analista indipendente azero Shujaat Ahmadzada. “Gli armeni potranno tornare solo se anche agli azeri sarà consentito il ritorno in Armenia. Però l’atteggiamento di Baku è incoerente: Aliyev usa una retorica chiaramente antiarmena, ma allo stesso tempo dice che l’Azerbaigian è uno stato multiculturale dove tutti sono i benvenuti, inclusi gli armeni del Karabakh”.

La vera domanda, tuttavia, è un’altra: gli armeni del Karabakh vorranno davvero tornare a casa? “Non c’è neanche una famiglia del Karabakh che non abbia perso qualcuno in una delle guerre degli ultimi trent’anni”, osserva Meri Asatryan. “Come si può tornare a vivere sotto la bandiera azera, simbolo di tutto quello contro cui si è combattuto per una vita?”.

Oggi per gli armeni il genocidio è una metanarrazione della memoria

Ahmadzada analizza la questione da una prospettiva diversa: “La repubblica autoproclamata dell’Artsakh era uno dei territori più militarizzati di questa parte del mondo. Molti dei suoi abitanti erano nell’esercito. Oggi è difficile immaginare che possano tornare in Karabakh. La loro insicurezza individuale è diventata un sentimento collettivo, un carico psicologico ed emotivo condiviso da tutti gli armeni”. Immaginare un ritorno degli armeni nel Karabakh sembra quindi difficile. Eppure oggi i tutsi vivono accanto ai loro carnefici in Ruanda. E i bosniaci musulmani convivono con i serbobosniaci nella Repubblica Serba, in Bosnia Erzegovina.

Indietro nel tempo

La geopolitica suggerisce che sia stata la posizione geografica a segnare il destino degli armeni, che considerano la loro patria storica il territorio compreso tra i laghi di Urmia, di Van e il Sevan, sull’altopiano armeno, tra Anatolia, Caucaso e Mesopotamia. In questo spazio si scontrano da sempre diverse potenze imperiali. Nell’antichità furono la Grecia, Roma, poi Bisanzio, e la Persia. In seguito arrivarono le invasioni arabe, turche e mongole. Infine ci fu la rivalità tra l’Impero ottomano e quello persiano, e dal settecento, l’Impero russo. Gli armeni sono stati per millenni al centro di queste tensioni. Quando il potere degli imperi vacillava, riuscivano a formare stati indipendenti, anche se dalla vita breve. Gli armeni hanno avuto dodici capitali diverse e sono sempre stati in cerca di un posto dove vivere in pace e sono stati più volte spostati forzatamente da un luogo all’altro. Per questo la loro diaspora è presente in tutto il mondo.

L’esperienza ricorrente dell’esilio è legata al secolare conflitto tra armeni e azeri. Alcuni storici azeri revisionisti (impegnati più nella costruzione di narrazioni politiche che in un vero lavoro scientifico) attribuiscono le cause di questo conflitto a fattori esterni, da ricercare nelle politiche imperiali e coloniali attuate nel Caucaso a partire dagli anni trenta dell’ottocento. Dopo le guerre russo-persiane tutti i khanati del Caucaso passarono sotto il dominio dello zar. Il preludio a questi eventi fu l’ingerenza sempre più pressante dei russi (interessati all’accesso in Asia centrale) e dei britannici (che volevano controllare il golfo Persico) sull’Iran, durante tutto il settecento. Come spiega lo storico George Bournoutian, in un mondo dominato dalle identità confessionali quest’ingerenza fu considerata dalle élite persiane un’interferenza delle potenze cristiane negli affari dell’islam. Il clima di tolleranza che fino a quel momento aveva caratterizzato lo stato multietnico persiano cominciò a cambiare. Fu allora che tra i sudditi armeni dello scià si diffuse un’idea, portata a Isfahan dai mercanti armeni tornati da San Pietroburgo, che si sarebbe rivelata una maledizione: la convinzione che per un’Armenia libera e indipendente fosse necessaria un’alleanza con la Russia ortodossa. Quando nel 1828 fu tracciato il confine tra l’Impero russo e la Persia sul fiume Aras, migliaia di armeni decisero di trasferirsi a nord. I musulmani sciiti che temevano per il proprio futuro sotto lo zar fecero il percorso opposto. Volendo applicare categorie contemporanee, si potrebbe parlare di uno scambio forzato di popolazione.

Secondo lo storico Tadeusz Święto­chowski, invece, le cause del conflitto armeno-azero affondano nella rivoluzione russa del 1905 e nelle sue ricadute sul Caucaso. L’instabilità di quegli anni fece emergere un nuovo sentimento nazionale sia in Azerbaigian sia in Armenia. E la reciproca ostilità assunse per la prima volta una forma organizzata, intrecciandosi con le idee del nazionalismo moderno. Il risultato fu che centinaia di migliaia di armeni e azeri dovettero abbandonare le loro case. Questi eventi si potrebbero definire come scontri etnico-religiosi al limite della guerra civile. La scrittrice azera Banine li descrive così nel suo libro I miei giorni nel Caucaso: “Il 1905 trasformò la precedente ostilità confessionale tra armeni e azeri in un conflitto moderno basato sull’ideologia, in cui si inserì anche la questione del Nagorno Karabakh”.

Gli esodi degli armeni furono anche la conseguenza dei massacri che subirono nei territori dell’Impero ottomano a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Inizialmente le violenze erano di matrice religiosa, ma in seguito, con il massacro di Adana del 1909, gli armeni furono presi di mira per aver sostenuto la rivoluzione modernizzatrice dei Giovani turchi del 1908. Infine, tra il 1915 e il 1917 (con episodi di violenza che continuarono fino al 1923) ci fu il genocidio, l’atto finale del processo di radicalizzazione contro la comunità armena che accompagnò il declino dell’Impero ottomano. Oggi per gli armeni il genocidio è – per usare la definizione di Hranush Kharatyan – una “metanarrazione della memoria”, sulla quale si sono innestate altre storie, comprese quelle del Nagorno Karabakh. Gli armeni che sopravvissero ai massacri e alle “carovane della morte” o che furono salvati dai francesi e dai britannici diedero origine alla diaspora occidentale e mediorientale.

Gli storici di orientamento materialista, come Ronald Grigor Suny, ritengono invece che sia stato lo sviluppo dell’industria petrolifera nella penisola di Absheron a scatenare le tensioni interetniche. Secondo questa lettura, lo sviluppo industriale diede origine alla borghesia armena, che presto finì per dominare economicamente i musulmani.

Per spiegare il rancore tra i due popoli si può fare ricorso anche ad altri precedenti. Quando si fonda la propria identità sulla demonizzazione del vicino il conflitto è inevitabile. In questa logica le piccole differenze sono ingigantite e alimentano la diffidenza e l’odio verso chi ci somiglia e vive vicino a noi. È il concetto freudiano del narcisismo delle piccole differenze. Ci sono poi altri studiosi, come Arsène Saparov, convinti che il conflitto sia il risultato del divide et impera sovietico, combinato con l’emergere delle idee nazionali e con l’arbitraria definizione dei confini nelle periferie dell’Unione Sovietica.

Lo status del Karabakh e i confini interni dell’Unione Sovietica furono tracciati più o meno così. È l’inizio di luglio del 1921, e il sogno di georgiani, azeri e armeni di una Transcaucasia libera è appena svanito. I bolscevichi hanno ottenuto ciò che volevano, creando un nuovo impero nei confini del vecchio Impero russo. I nuovi governanti devono affrontare l’organizzazione amministrativa delle regioni meridionali. È un compito difficile, perché molti bolscevichi sono ancora mossi dal risentimento etnico, più che dagli ideali della lotta contro gli imperialisti e la borghesia. Inoltre gli interessi delle singole comunità sono in contrasto: qualunque forma prenderà la cartina definitiva, ci sarà sempre qualcuno che rimarrà scontento. I territori contesi sono molti, e tra loro c’è il Nagorno Karabakh. Nel caos post­rivoluzionario riemergono gli episodi di violenza che si verificavano già ai tempi dello zar, intrecciandosi con le ultime fasi della prima guerra mondiale. La sorte del Karabakh è decisa il 4 e 5 luglio 1921. Il primo documento prevede il trasferimento dei territori sotto il controllo dell’Armenia sovietica, ma il giorno seguente viene modificato. Perché sia successo non è chiaro nemmeno oggi. Ma il risultato è che la disputa territoriale e le tensioni etniche tra azeri e armeni sono sospese.

Secondo le statistiche zariste e sovietiche all’inizio degli anni venti del novecento gli armeni cominciarono ad abbandonare il territorio azero del Naxçıvan. Nel 1916 costituivano quasi il 40 per cento della popolazione locale, mentre nel 1926 erano appena il 10,8 per cento: 11.276 su circa 105mila abitanti. La situazione era diversa nella parte montuosa del Kara­bakh, dove gli armeni erano quasi il 90 per cento della popolazione: 111.694 su 125mila abitanti.

Il cessate il fuoco del 1994 è rimasto in vigore fino al 2020, almeno sulla carta

Le convinzioni ideologiche dei bolscevichi non riuscirono a cancellare i risentimenti nazionalistici e le dispute territoriali di ordine etnico-politico. A placare il conflitto fu soprattutto la politica centralista e oppressiva di Stalin. Il risveglio patriottico arrivò con la distensione di Nikita Chruščëv nella seconda metà degli anni cinquanta, quando ripresero i contrasti territoriali sul Karabakh. Il conflitto si intensificò a metà degli anni sessanta, con il nuovo leader sovietico Leonid Brežnev, che sostenne l’autonomia e le attività del partito al livello locale, convinto che le questioni nazionali non fossero più un potenziale motivo di tensioni. Non avrebbe potuto commettere errore più grave: la sua decisione finì infatti per alimentare il nazionalismo antisovietico.

In Armenia tutto ebbe inizio con l’attivismo di una serie di personalità del mondo della cultura, soprattutto scrittori, che sulle pagine della stampa sovietica e in una serie di lettere aperte misero in discussione le decisioni degli anni venti e trenta e criticarono la politica oppressiva di Baku nella regione autonoma del Nagorno Karabakh, soprattutto in tema di istruzione e lingua. Ignorando deliberatamente l’autorità di Baku, gli armeni inviavano le loro petizioni e rimostranze direttamente a Mosca. Così, alla fine degli anni settanta nel Caucaso cominciarono a emergere i movimenti dissidenti. E a metà degli anni ottanta la questione del Karabakh infiammava già le opinioni pubbliche di entrambe le repubbliche. Nel 1987 in Armenia scoppiarono le proteste del cosiddetto Movimento Karabakh. Erano coordinate dal Comitato Karabakh, che era stato fondato con l’obiettivo di annettere la regione all’Armenia, ma ben presto si trasformò in un gruppo dissidente antisovietico.

Il 20 febbraio 1988 il consiglio della regione autonoma del Nagorno Karabakh chiese l’annessione all’Armenia, e due giorni dopo nella piccola città di Askeran scoppiarono disordini di natura etnica. Alla fine di febbraio a Sumgait, città operaia non lontana da Baku, ci fu un pogrom contro la popolazione armena. Secondo le fonti azere morirono 32 persone, mentre alcune stime armene parlarono addirittura di 1.800 vittime. La spirale di violenza era di nuovo in moto. Gli azeri furono attaccati nella regione armena di Gugark nel marzo 1988. A settembre gli armeni furono espulsi da Shusha e gli azeri da Stepanakert. Nel mese di novembre ci fu un altro pogrom contro gli armeni a Kirovabad (oggi Ganja). Il 1989 fu segnato dall’espulsione degli armeni dall’Azerbaigian e degli azeri dall’Armenia, e anche il 1990 cominciò in modo sanguinoso. A gennaio a Baku furono uccisi tra i 48 e i 90 armeni. Nello stesso mese un intervento dell’esercito sovietico fece quasi 170 morti tra gli azeri.

Con il crollo dell’Unione Sovietica, le azioni di pulizia etnica diventarono un conflitto armato. La guerra continuò fino al 1994, quando nella capitale kirghisa di Bishkek i russi mediarono un cessate il fuoco, che però non impedì altre azioni di guerriglia e massacri di civili mai chiariti. Il conflitto provocò ulteriori trasferimenti collettivi. Gli azeri abbandonarono l’Armenia, il Nagorno Karabakh e i sette distretti dell’Azerbaigian che Erevan aveva occupato durante la guerra. A loro volta gli armeni lasciarono l’Azerbaigian.

Una donna armena nel villaggio di Talish, in Nagorno Karabakh, giugno 2020 (Alexis Pazoumian)

Le ultime guerre

Il cessate il fuoco del 1994 è rimasto in vigore fino al 2020, almeno sulla carta. In realtà lungo la linea del fronte, che coincideva con il confine tra Armenia e Azerbaigian, gli scontri non si sono mai interrotti e ci sono state diverse escalation di violenza. La più grave si è verificata nell’aprile 2016, quando è scoppiata una guerra di quattro giorni, costata la vita a circa 350 persone. Dopo una serie di contatti tra Mosca, Erevan e Baku i combattimenti si sono fermati e gli abitanti del Karabakh sono tornati alla loro vita in una condizione di emergenza permanente.

Poi c’è stata l’offensiva del 2020, cominciata la mattina del 27 settembre. Inizialmente le notizie erano, come sempre, contraddittorie: le parti si accusavano a vicenda di aver lanciato il primo attacco, che inevitabilmente avrebbe portato a una rappresaglia. Nulla faceva presagire che questo nuovo scoppio di violenza sarebbe stato diverso dai precedenti. Ma stavolta le condizioni erano cambiate, soprattutto nei rapporti tra Erevan e Mosca, che fino ad allora aveva sempre gestito il conflitto facendo i propri interessi e destreggiandosi tra le parti. In quel momento in Armenia erano in corso importanti cambiamenti politici. La rivoluzione di velluto del 2018 aveva portato al potere Nikol Pashinyan, cacciando il regime corrotto guidato dal cosiddetto clan del Karabakh, un gruppo di politici riuniti intorno a Robert Kocharyan e Serzh Sargsyan, all’epoca rispettivamente ex presidente e presidente in carica, entrambi originari dell’Artsakh. Tra le sue prime azioni, Pashinyan aveva fatto arrestare alcuni politici corrotti, politicamente vicini a Mosca. Anche se il primo ministro non ha mai davvero cercato un riallineamento geopolitico in direzione dell’occidente, era chiaro che non fosse il beniamino di Vladimir Putin.

Arrivato al governo, Pashinyan ha subito annunciato l’intenzione di sostenere la cosiddetta politica del miatsum, un concetto coniato alla fine degli anni ottanta che indica il movimento per l’unificazione tra Armenia e Nagorno Karabakh. Eppure molti armeni, soprattutto nel Karabakh e nella diaspora, l’hanno accusato di non aver capito la causa del Karabakh, se non addirittura di averla tradita.

In Azerbaigian Ilham Aliyev, un leader non esattamente democratico, stava invece scardinando le ultime roccaforti di potere ancora legate al padre Heydar, il primo presidente dell’Azerbaigian indipendente. In quel frangente ha consolidato il proprio potere scegliendo per gli incarichi più importanti una serie di persone non solo fedeli e della sua generazione, ma anche ben più radicali e pronte allo scontro sul tema della riconquista del Karabakh. Nella stessa fase la Turchia, legata all’Azerbaigian da un’alleanza basata sull’ideologia del panturchismo e sull’identità linguistica, stava cercando di rafforzare la sua posizione nel Caucaso. Il tutto mentre il mondo era concentrato sulla pandemia.

Così, dopo più di un mese di combattimenti, grazie all’avanzata tecnologia militare di provenienza turca, gli azeri hanno conquistato Shusha. La città occupa una posizione strategica, oltre ad avere un certo peso simbolico, in quanto è considerata la culla della cultura azera. Il 9 novembre 2020 Putin è tornato a ricoprire il ruolo di mediatore che la Russia aveva svolto dal 1991. In sua presenza Aliyev e Pashinyan hanno firmato un trattato di cessate il fuoco. Gli armeni hanno perso il controllo delle sette regioni che occupavano tra la Repubblica d’Armenia e il Nagorno Karabakh nonché di quasi un terzo dello stesso Karabakh. E circa cinquantamila armeni sono stati costretti ad abbandonare le zone controllate dagli azeri. Una clausola del trattato ha dato a Baku il via libera per la costruzione del “corridoio di Zangezur”, la strada che dovrebbe collegare l’Azerbaigian con la sua exclave del Naxçıvan. Ma l’accordo sembrava anche suggerire che la situazione fosse ancora irrisolta e che presto ci sarebbero stati altri cambiamenti. Era solo una questione di tempo.

Oggi in Armenia non ci sono più azeri e in Azerbaigian non ci sono più armeni. E in Karabakh non c’è più nessun conflitto. “La vittoria azera ha segnato la fine della guerra del Nagorno Karabakh”, spiega Górecki. “Al momento c’è solo un conflitto tra due stati: l’Armenia e l’Azerbaigian”. E non è chiaro per quanto continuerà. È plausibile che la fine della disputa sul Karabakh e la creazione di un Azerbaigian senza armeni e di un’Armenia senza azeri possano rappresentare un nuovo inizio?

“Per parlare di un nuovo inizio è necessario fare ordine nel passato”, osserva Kharatyan. “Tuttavia, perché questo succeda non ci deve essere spazio per la falsificazione della storia e l’armenofobia. Un altro aspetto problematico è il genocidio culturale, cioè la rimozione delle tracce della presenza armena in Karabakh”.

Il nemico esterno

L’atteggiamento degli armeni è improntato al pessimismo: c’è la netta sensazione che l’Azerbaigian sia insaziabile e che dopo il Karabakh continuerà la sua espansione con l’obiettivo di distruggere gli armeni. “Cos’altro ci si può aspettare”, chiede Shagoyan, “quando una delle prime decisioni dopo la conquista di Stepanakert è stata quella di intitolare una strada a Enver Pasha (uno degli artefici del genocidio del 1915)? Che in Azerbaigian ci siano persone contrarie a un’ulteriore escalation conta poco: alla fine sono le ragioni della geopolitica a decidere. L’occidente non è intervenuto durante il blocco del corridoio di Laçın. Come si può pensare che reagisca ai progetti per il corridoio di Zangezur, che tra le altre cose farebbe comodo anche alla Russia? E poi c’è il fatto che il governo azero ha sempre bisogno di un nemico esterno. Quindi è impossibile escludere un nuovo conflitto”.

In Armenia, tuttavia, ci sono anche voci più ottimiste. Secondo Areg Kochinyan interrompere il ciclo dell’odio, dei massacri e delle espulsioni è possibile. Gli armeni sono pronti a farlo, quindi – a suo avviso – tutto dipende da Baku. “Al momento ci sono tre possibili scenari”, aggiunge Shujaat Ahmadzada. “Primo: in Azerbaigian il potere alimenterà le mire irredentiste verso l’Iran (l’Azerbaigian storico comprende anche le province settentrionali dell’Iran a sud del fiume Aras; l’obiettivo dei nazionalisti più radicali è l’unificazione di tutti gli azeri su entrambi i lati del confine). Secondo: ci sarà una rivalità senza aggressioni militari. Terzo: la definizione dei confini sarà rinviata a data da destinarsi, con il rischio di nuovi conflitti”.

Anche Rahim Shaliyev, giornalista azero in esilio, pensa che la situazione attuale possa essere un’opportunità di pace. Ma poi sottolinea che né la Turchia né la Russia vogliono mettere fine alle ostilità. “Il presidente Aliyev non vuole che la guerra finisca davvero, ma valutare la sua politica è difficile, perché ci si può basare solo su congetture. Dal 2020 l’accesso alle informazioni è sempre più limitato. E poi c’è la propaganda. Però la situazione cambia rapidamente”, dice Shaliyev. “Va anche sottolineato che gli armeni sono, con il gruppo etnico iranico dei talisci, praticamente l’unica minoranza sopravvissuta al processo di ‘azerbaigianizzazione’ del paese. Per Baku sono un problema, perché non rientrano nel progetto identitario portato avanti prima da Heydar Aliyev e poi dal figlio Ilham”.

Trent’anni di conflitti

1991 Il 2 settembre la regione del Nagorno Karabakh, un’enclave a maggioranza armena in territorio azero, annuncia la secessione dall’Azerbaigian. Comincia la prima guerra del Nagorno Karabakh.

1994 Con il cessate il fuoco gli armeni prendono il controllo dell’enclave. Il bilancio della guerra è di trentamila morti e centinaia di migliaia di profughi, in maggioranza azeri.

1995-2015 Lungo la linea di contatto ci sono alcune sporadiche violazioni del cessate il fuoco.

2016 Tra il 2 e il 5 aprile scoppia la cosiddetta guerra dei quattro giorni. Un nuovo cessate il fuoco è negoziato con la mediazione di Mosca.

2020 Il 27 settembre un’offensiva azera dà il via alla seconda guerra del Nagorno Karabakh. L’Azerbaigian riconquista i terrori persi nel 1994 e diverse aree dell’Artsakh (come gli indipendentisti armeni chiamano il Nagorno Karabakh).

2023 A luglio l’Azerbaigian blocca il corridoio di Laçın, l’unica strada che collega l’enclave con l’Armenia. A settembre lo riapre. Il 19 settembre l’Azerbaigian attacca l’enclave. Il 20 settembre si raggiunge una tregua. L’Azerbaigian riprende il controllo di tutto il Nagorno Karabakh.

2024 La repubblica armena dell’Artsakh smette di esistere. Più di centomila persone lasciano la regione e si rifugiano in Armenia. Bbc


Gli analisti concordano comunque sul fatto che oggi c’è l’opportunità per avviare una vera trasformazione. “Si può immaginare un accordo che metta formalmente fine al conflitto e definisca i confini”, dice Górecki. “Ma la memoria delle guerre rimarrà viva per generazioni. Non si risolverà tutto con la firma di un trattato”.

Dello stesso avviso è Adamczewski. “Possiamo essere quasi certi che il conflitto tra armeni e azeri continuerà, magari a un livello culturale o simbolico. Per la sua conclusione definitiva servirà una riconciliazione simile a quella franco-tedesca o polacco-tedesca. E al momento non mi sembra una soluzione fattibile. Anche se non ci sono più armeni in Azerbaigian e azeri in Armenia, l’armenofobia e l’azerofobia rimangono fortemente radicate”.

“Prima del 2023 l’identità nazionale in Armenia e in Azerbaigian era fondata sulla questione del Nagorno Karabakh”, aggiunge Ahmadzada. “Ora in effetti c’è la possibilità che le cose cambino, ma non sarà un processo pacifico”.

Identità ed esclusione

Si può fondare la normalizzazione dei rapporti tra due stati su una lunga storia di reciproche pulizie etniche, durate più di un secolo? Per rispondere a questa domanda servirà qualche decennio. Dalla storia arrivano esempi divergenti. Da un lato ci sono i cosiddetti decreti Beneš, che con gli espropri e le espulsioni dei tedeschi dai Sudeti contribuirono a normalizzare le relazioni tra Germania e Cecoslovacchia dopo la seconda guerra mondiale. Dall’altro c’è il caso dello scambio forzato di popolazione tra la Repubblica di Turchia e il Regno di Grecia dopo la prima guerra mondiale, che ancora oggi è frutto di astio e rivalità. “La storia non è finita”, commenta Górecki. “Tendiamo a considerare definitive le soluzioni adottate ai nostri giorni, ma in realtà sono effimere. Non sappiamo se e quando un determinato conflitto rinascerà, né in quale forma. Detto questo, ritengo che oggi abbiamo un’opportunità storica per ricostruire i rapporti tra armeni e azeri”.

Rimane il fatto che l’identità nazionale e l’ideologia degli azeri sono costruite sul concetto di esclusione. E lo stesso si può dire per i rifugiati del Karabakh e per gli armeni. “La moderna nazione azera è in qualche modo ancora in corso di formazione, e parte integrante di questo processo è l’immagine degli armeni come ‘nemico storico’, ‘l’altro’ per eccellenza. In Armenia è lo stesso”, dice Adamczewski.

Per chiudere definitivamente il conflitto questo atteggiamento dovrà cambiare. Con il passare del tempo nuovi fantasmi sostituiranno quelli di oggi. Ma potrebbe anche non andare così. Chissà, magari i miti nazionali domineranno a tal punto la memoria collettiva da rendere il dolore del passato un’esperienza marginale. E forse alla fine tutto sarà dimenticato. ◆ sb

Bartłomiej Krysztan è un politologo e giornalista polacco. Nel 2025 ha pubblicato il libro O państwie, którego nie było. Historia Karabachu (Il paese che non c’era. Storia del Karabakh).

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Questo articolo è uscito sul numero 1619 di Internazionale, a pagina 50. Compra questo numero | Abbonati