Il corpo umano oggi riesce a sopravvivere a danni spaventosi: schiacciamenti, bruciature, bombe, la rottura di un vaso sanguigno nel cervello, una lacerazione del colon, un infarto massivo, infezioni diffuse. Tutte queste situazioni un tempo erano fatali. Ora invece sopravvivere è normale, e gran parte del merito va a quella insostituibile specializzazione della medicina nota come terapia intensiva. È un termine oscuro.

Gli specialisti del settore preferiscono dire che fanno “medicina critica”, ma questo non chiarisce molto la questione. L’espressione “sostegno alla vita” rende meglio l’idea. Le unità di terapia intensiva assumono il controllo artificiale di corpi che non funzionano più. Di regola questo implica l’uso di molte tecnologie: un ventilatore meccanico e forse una cannula per tracheostomia nel caso di insufficienza polmonare, un contropulsatore per lo scompenso cardiaco, una macchina per la dialisi se i reni sono fuori uso.

Quando il paziente è incosciente e non riesce a mangiare, viene inserito chirurgicamente nello stomaco o nell’intestino un tubo di gomma per l’alimentazione artificiale, e se l’intestino è troppo danneggiato vengono somministrate per endovena delle soluzioni di amminoacidi, acidi grassi e glucosio.

Le difficoltà del sostegno alla vita sono considerevoli. Rianimare la vittima di un annegamento, per esempio, non è facile come appare nei telefilm. Spesso non bastano alcune compressioni sul petto e un po’ di respirazione bocca a bocca per far tornare alla vita, tra un rigurgito e un colpo di tosse, una persona in arresto cardiaco e con i polmoni pieni d’acqua. Prendiamo per esempio un caso riportato in The annals of thoracic surgery (Annali di chirurgia toracica): una bambina di tre anni cade nel laghetto ghiacciato di una cittadina austriaca sulle Alpi. La piccola rimane nascosta sotto la superficie gelata per trenta minuti prima che i genitori la trovino e riescano a tirarla fuori. Seguendo le istruzioni telefoniche di un medico del pronto soccorso, cominciano la rianimazione cardiopolmonare. La squadra di soccorso arriva otto minuti dopo. La temperatura corporea della bambina non arriva a 19 gradi e non c’è polso. Le pupille sono dilatate e non reagiscono alla luce, segno che il cervello non funziona più.

Ma i tecnici del pronto soccorso continuano la rianimazione cardiopolmonare. Un elicottero trasporta la bimba nell’ospedale più vicino, dove viene immediatamente portata in camera operatoria. Un’équipe di chirurghi la attacca a una macchina di bypass cardiopolmonare. Considerando il trasporto e il tempo necessario per attaccare le cannule di afflusso e deflusso nei vasi femorali della sua gamba destra, la piccola è rimasta senza vita per un’ora e mezza. Dopo due ore, tuttavia, la temperatura corporea è salita di quasi dieci gradi, e il cuore ricomincia a battere. È il primo organo a tornare in vita.

Dopo sei ore, la temperatura ha raggiunto i 36 gradi e mezzo. L’équipe cerca di attaccare la bimba a un respiratore, ma l’acqua ha danneggiato in modo molto grave i polmoni e l’ossigeno non riesce a raggiungere il sangue. Così la collegano a un polmone artificiale noto come Ecmo (ossigenatore extracorporeo a membrana). I chirurghi le aprono il torace a metà con una sega sternale e collegano le cannule dell’Ecmo all’aorta e al cuore che batte. Poi la trasferiscono in terapia intensiva, con il torace ancora aperto e coperto da una pellicola di plastica. Il giorno dopo i polmoni si sono ripresi: la bambina viene staccata dall’Ecmo, e collegata a un ventilatore meccanico. Il torace viene richiuso. Nei due giorni successivi tutti gli organi riprendono a funzionare tranne il cervello. La Tac evidenzia un edema cerebrale globale, che è indice di danni diffusi, ma nessuna zona realmente morta. Così l’équipe trapana il cranio della bambina, infila nel foro una sonda per monitorare la pressione cerebrale e la tiene sotto stretto controllo regolando costantemente i liquidi e i farmaci. Per più di una settimana la bambina rimane in coma. Poi, lentamente, torna alla vita. Prima le pupille cominciano a reagire alla luce. Poi inizia a respirare da sola. Finché un giorno si sveglia. Due settimane dopo l’incidente, torna a casa. Gamba destra e braccio sinistro sono parzialmente paralizzati. Fa fatica a parlare e farfuglia. Ma a cinque anni, dopo una lunga terapia ambulatoriale, ha completamente recuperato le sue facoltà. È di nuovo come tutte le altre bambine.

Quello che rende sbalorditivo il suo recupero non è solo l’idea che qualcuno possa tornare in vita dopo due ore passate in uno stato che un tempo si sarebbe definito morte. È anche l’idea che un gruppo di persone in un ospedale qualunque possa fare una cosa così straordinariamente complessa. Per salvare quella bambina, decine di persone hanno dovuto eseguire correttamente migliaia di operazioni: posizionare le cannule del bypass cardiopolmonare senza immettere bolle d’aria, assicurare la sterilità delle linee (i cateteri venosi), del torace aperto, del foro nel cranio, mantenere in funzione un capriccioso insieme di macchinari. Il grado di difficoltà di ognuna di queste operazioni è enorme. E poi bisogna aggiungere la difficoltà di organizzarle nella sequenza giusta, senza trascurare niente e lasciando un po’ di spazio, ma non troppo, all’improvvisazione.

Franco Matticchio

Per ogni bambino affogato e senza polso salvato dalla terapia intensiva ce ne sono molti altri che non ce la fanno, e non solo perché il loro fisico è troppo danneggiato. I macchinari si rompono, i medici non riescono ad arrivare in tempo, qualcuno dimentica una semplice operazione. Questi casi non vengono raccontati in The annals of thoracic surgery, ma sono la norma.La terapia intensiva è diventata l’arte di gestire situazioni estremamente complesse. Ma anche un test per verificare se questa complessità può essere umanamente gestibile.

Ogni giorno negli Stati Uniti ci sono circa 90mila persone in terapia intensiva. Nel corso di un anno si calcola che ci finiscano cinque milioni di americani e nell’arco di una normale vita umana quasi tutti finiscono per trovarsi dall’altra parte del vetro che delimita un’unità di terapia intensiva (Uti). Ampi settori della medicina dipendono oggi dai sistemi di supporto alla vita forniti da queste unità: l’assistenza ai neonati prematuri, quella alle vittime di traumi, ictus e attacchi cardiaci, e quella ai pazienti che hanno subìto interventi chirurgici al cervello, al cuore, ai polmoni o alle coronarie. La medicina critica diventa una componente sempre più importante del lavoro di un ospedale. Cinquant’anni fa le unità di terapia intensiva erano quasi inesistenti. Oggi, mentre scrivo questo articolo, 155 pazienti sui 700 del mio ospedale si trovano in terapia intensiva. La permanenza media di un paziente in questi reparti è quattro giorni, e il tasso di sopravvivenza è dell’86 per cento. Entrare in un reparto di terapia intensiva, essere collegati a un ventilatore meccanico, avere cannule e fili che entrano ed escono dal vostro corpo non è una condanna a morte. Ma saranno i giorni più rischiosi della vostra vita.

Dieci anni fa alcuni scienziati israeliani hanno pubblicato uno studio in cui degli ingegneri osservavano i trattamenti che vengono fatti nelle unità di terapia intensiva nell’arco di ventiquattr’ore. Hanno scoperto che in media un paziente richiede 178 interventi individuali al giorno, dalla somministrazione dei farmaci all’aspirazione dei polmoni, e ogni volta ci sono dei rischi. Incredibilmente, gli ingegneri hanno osservato che medici e infermieri commettono errori solo nell’1 per cento dei casi: ma questo significa ancora una media di due errori al giorno con ciascun paziente. La terapia intensiva ha successo solo quando le probabilità di fare del male sono molto più basse di quelle di fare del bene. E mantenere questo rapporto è difficile. Il solo fatto di restare sdraiati a letto per giorni fa aumentare i problemi. I muscoli si atrofizzano. Le ossa perdono massa. Si formano le piaghe da decubito. Le vene cominciano a ostruirsi. Bisogna distendere e muovere gli arti flaccidi dei pazienti ogni giorno per evitare contratture, fare iniezioni sottocutanee di anticoagulanti almeno due volte al giorno, girarli nel letto a intervalli di poche ore, lavarli e cambiare le lenzuola senza far cadere una cannula o una linea, lavare i denti due volte al giorno per evitare una polmonite da accumulo di batteri nel cavo orale. Aggiungete un ventilatore, una dialisi e delle piaghe aperte da curare, e le difficoltà aumentano.

Anthony DeFilippo ha 48 anni ed è un autista di limousine di Everett, nel Massachusetts. Ha avuto un’emorragia durante un’operazione di ernia e calcoli biliari nell’ospedale locale. L’emorragia viene bloccata, ma il suo fegato è seriamente danneggiato e nei giorni successivi le sue condizioni si aggravano troppo per le strutture dell’ospedale. Quando arriva nel nostro reparto di terapia intensiva, una domenica all’1,30 del mattino, ha i capelli incollati alla fronte sudata, trema tutto e il cuore gli corre a 114 battiti al minuto. Delira per la febbre, lo shock e il basso livello di ossigeno.

“Devo uscire! Devo uscire!”, grida cercando di strapparsi il camice, la maschera dell’ossigeno e i bendaggi che coprono la ferita sull’addome.

In media un paziente in terapia intensiva richiede 178 interventi individuali al giorno

“Tony, va tutto bene”, gli dice un’infermiera. “Vogliamo aiutarti. Sei in ospedale”.

Lui la allontana con una spinta e cerca di spostare le gambe per scendere dal letto. Aumentiamo il flusso d’ossigeno, gli blocchiamo i polsi e cerchiamo di farlo ragionare. Alla fine ci permette di fargli un prelievo di sangue e di somministrargli degli antibiotici.

I risultati del laboratorio rivelano un’insufficienza epatica e un numero di globuli bianchi incredibilmente alto, che indica un’infezione. Dato che la sua sacca di urina è vuota, è evidente che anche i reni non funzionano più. Nelle ore immediatamente successive la pressione del sangue scende bruscamente, la respirazione peggiora e Tony passa dall’agitazione a uno stato di quasi incoscienza. Tutti gli organi, compreso il cervello, si stanno bloccando. Chiamo la sorella, che è la sua parente più stretta, e le spiego la situazione. “Fate tutto quello che potete”, si raccomanda.

Ubbidiamo. Gli facciamo un’iniezione di anestetico e un assistente gli infila in gola un tubo per farlo respirare. Un’altra assistente gli inserisce una linea: infila un catetere sottile di circa cinque centimetri nel polso destro rivolto verso l’alto fino a raggiungere l’arteria radiale e cuce la cannula alla pelle con una sutura di seta. Poi inserisce una linea centrale: un catetere di trenta centimetri infilato nella vena giugulare, alla sinistra del collo. Dopo che è suturata anche questa, e quando i raggi x mostrano che la punta arriva proprio dove serve (nella vena cava all’ingresso del cuore), infila una terza linea per la dialisi, leggermente più spessa, a destra del petto e nella succlavia, in profondità sotto la clavicola. Agganciamo la cannula che ha in gola al tubo di un ventilatore e lo regoliamo in modo da dargli quattordici respiri forzati al minuto di ossigeno al cento per cento. Aumentiamo e diminuiamo la pressione del ventilatore e il flusso del gas come ingegneri davanti a un pannello di controllo fino a ottenere i livelli giusti di ossigeno e anidride carbonica nel sangue.

La linea arteriosa ci dà i valori della pressione arteriosa e ritocchiamo i farmaci per ottenere la pressione che vogliamo. Regoliamo i fluidi endovenosi secondo i valori pressori che arrivano dalla linea giugulare. Colleghiamo la linea succlavia ai tubi di una macchina per la dialisi: a intervalli di pochi minuti tutto il suo sangue viene ripulito da questo rene artificiale e torna nel suo corpo. Un piccolo ritocco qua e là, e possiamo modificare anche i livelli di potassio, bicarbonato e sodio. Fingiamo che Tony sia una semplice macchina nelle nostre mani.

Ma naturalmente non lo è. È come se avesse conquistato un volante e alcuni strumenti di controllo, ma viaggia su un tir impazzito che si sta schiantando giù da una montagna. Per mantenere normale la pressione consumiamo litri e litri di fluido endovenoso e un intero scaffale di farmaci. Il supporto del ventilatore è quasi al massimo. La temperatura sale a 40 gradi. Meno del cinque per cento dei pazienti con questo livello di collasso multiorgano riesce a tornare a casa. E un solo passo falso può facilmente cancellare queste esili speranze.

Ma per dieci giorni tutto va bene. Il problema principale sono i danni al fegato provocato dall’operazione. Il dotto epatico principale è lacerato e perde bile, una sostanza caustica che digerisce il grasso degli alimenti: lo sta sostanzialmente mangiando vivo dall’interno. Tony non è in condizioni di sopportare un intervento per riparare la lacerazione. Perciò tentiamo una soluzione temporanea: guidati dai raggi x i radiologi posizionano un drenaggio di plastica che attraversa la parete addominale e raggiunge il dotto lacerato per estrarre dal corpo la bile. Ne trovano così tanta che devono introdurre tre drenaggi, uno nel dotto e due intorno. Ma eliminando la bile la febbre scende. Il bisogno di ossigeno e fluidi diminuisce. La pressione del sangue torna normale. È in via di guarigione. Poi, l’undicesimo giorno, proprio quando ci stiamo preparando a staccarlo dal ventilatore meccanico, ha degli attacchi di febbre altissima, la pressione sanguigna crolla e i livelli di ossigeno nel sangue vanno di nuovo a picco. La pelle è imperlata di sudore e ha i brividi di freddo.

Non capiamo cosa possa essere successo. Sembra aver sviluppato un’infezione, ma i raggi x e le Tac non riescono a individuarne l’origine. Anche dopo quattro antibiotici continua ad avere attacchi di febbre. Durante uno di questi attacchi il cuore va in fibrillazione. Viene chiamato un codice blu. Una decina di medici e infermieri si affollano intorno al suo letto, gli attaccano al petto delle piastre elettriche e gli danno una serie di scosse. Il cuore fortunatamente risponde e riprende il ritmo normale. Ci mettiamo più di due giorni per capire cosa è andato storto. Pensiamo che forse una delle linee si è infettata, perciò gli infiliamo delle nuove linee e facciamo analizzare le vecchie in laboratorio. Quarantott’ore dopo arrivano i risultati: sono tutte infette. Probabilmente una linea è stata contaminata durante l’inserimento, e l’infezione si è diffusa alle altre attraverso il flusso sanguigno. Poi tutte insieme hanno cominciato a inondarlo di batteri, provocando la febbre e il rapido peggioramento delle condizioni.

Questa è la realtà della terapia intensiva: in qualsiasi momento possiamo fare del male a un paziente o guarirlo. Le infezioni delle linee sono talmente comuni da essere considerate complicazioni di routine. Le unità di terapia intensiva ogni anno inseriscono nei loro pazienti cinque milioni di linee, e le statistiche dimostrano che dopo dieci giorni il 4 per cento delle linee si infetta. Negli Stati Uniti le infezioni delle linee colpiscono 80mila pazienti all’anno, e le possibilità che siano fatali vanno dal 5 al 28 per cento, a seconda della gravità delle condizioni complessive del paziente. Chi sopravvive all’infezione delle linee in media passa una settimana di più in terapia intensiva. E questo è soltanto uno dei rischi. Dopo dieci giorni di catetere urinario, il quattro per cento dei pazienti americani sviluppa un’infezione alla vescica. Dopo dieci giorni di ventilatore, il sei per cento ha delle polmoniti batteriche che causano la morte nel 40-55 per cento dei casi. E complessivamente quasi la metà dei pazienti in terapia intensiva finisce per avere qualche grave complicazione, e in questi casi le speranze di sopravvivenza diminuiscono drasticamente.

Ci è voluta una settimana perché DeFilippo si riprendesse dalle infezioni e potesse essere staccato dal ventilatore, e ci sono voluti altri due mesi prima che fosse in grado di lasciare l’ospedale. Fragile e debilitato, ha perso la sua ditta di limousine e la casa, ed è stato costretto a trasferirsi dalla sorella. Ha ancora il tubo di drenaggio della bile appeso all’addome: deve recuperare le forze e poi lo opererò per ricostruire il dotto biliare principale. Ma è sopravvissuto. La maggior parte delle persone nelle sue condizioni non ce la fa. È questo il dilemma della terapia intensiva: hai un paziente disperatamente malato e per avere una possibilità di salvarlo devi accertarti che 178 interventi da fare ogni giorno siano compiuti correttamente malgrado tutto il resto: l’allarme del monitor che si spegne per Dio sa quale motivo, le urla del paziente nel letto accanto, l’infermiera che sporge la testa dalla tenda per chiedere se qualcuno può darle una mano “ad aprire il petto di questa signora”. Come si fa a gestire tutte queste complicazioni? La soluzione scelta dalla professione medica è la specializzazione.

Franco Matticchio

Racconto la storia di DeFilippo come se fossi stato io a seguirlo ora dopo ora. In realtà è stato Max Weinmann, un intensivista, come preferiscono farsi chiamare gli specialisti di terapia intensiva. Mi piace pensare che, come chirurgo generale, so gestire la maggior parte delle situazioni cliniche. Ma con l’aumentare delle difficoltà legate alla terapia intensiva, la responsabilità si è trasferita sempre di più su superspecialisti come Max. Negli ultimi dieci anni, in ogni grande città americana sono stati avviati dei programmi di formazione per la medicina critica, e oggi il cinquanta per cento delle unità di terapia intensiva si affida a dei superspecialisti.

Ormai viviamo nell’era dei superspecialisti: medici che hanno dedicato il loro tempo a perfezionarsi in un campo ristretto finché lo conoscono meglio di chiunque altro. I superspecialisti hanno due vantaggi rispetto agli altri: conoscono meglio i particolari che contano e sanno gestire le difficoltà del lavoro. Ma ci sono diversi livelli di complessità, e la terapia intensiva si è spinta talmente oltre la complessità ordinaria che evitare gli errori quotidiani sta diventando impossibile perfino per i superspecialisti. La terapia intensiva, con i suoi successi spettacolari e i suoi frequenti fallimenti, pone quindi una sfida particolare: cosa fare quando la competenza non basta?

Il 3 ottobre 1935, al Wright air field di Dayton, in Ohio, le Forze aeree dell’esercito americano organizzarono una gara di volo riservata ai costruttori di aerei che si contendevano un contratto per la realizzazione di un nuovo bombardiere a lunga gittata. Non ci si aspettava granché da quella gara. Nelle prime valutazioni, il Model 299 in lega di alluminio della Boeing Corporation aveva nettamente battuto i progetti di Martin e Douglas. L’aereo della Boeing poteva trasportare cinque volte più bombe di quelle richieste dall’esercito, poteva volare più velocemente dei bombardieri precedenti e quasi due volte più lontano. Un giornalista di Seattle che aveva dato un’occhiata all’aereo lo ribattezzò “fortezza volante”, e il nome ebbe successo. La gara di volo, secondo lo storico militare Phillip Meilinger, era considerata una formalità. L’esercito aveva già previsto di ordinare almeno 65 apparecchi.

Una piccola folla di alti ufficiali e dirigenti d’azienda osservò l’aereo di prova del Model 299 che rullava sulla pista. Era scintillante e imponente, con un’apertura alare di quasi 32 metri e quattro motori invece dei soliti due. L’apparecchio rombò sulla pista, decollò facilmente e raggiunse subito i cento metri di quota. Poi andò in stallo, si piegò su un’ala e si schiantò al suolo con un’esplosione spaventosa. Morirono due dei cinque membri dell’equipaggio, tra cui il pilota, il maggiore Ployer P. Hill.

L’inchiesta rivelò che non si era trattato di un guasto meccanico. L’incidente, sostenne il rapporto, era stato causato da un “errore del pilota”. Ben più complesso dei velivoli precedenti, il nuovo aereo imponeva al pilota di seguire contemporaneamente quattro motori, un carrello di atterraggio retrattile, flap di nuova concezione, alette correttrici di assetto che andavano regolate per mantenere il controllo a diverse velocità, propulsori per mantenere costante la velocità di crociera, la cui potenza massima andava tarata con controlli idraulici e una serie di altre caratteristiche. Per fare tutte queste cose, Hill aveva dimenticato di rimuovere i blocchi ai timoni di quota e di direzione. Nel modello della Boeing, disse un giornale, “c’era troppo aeroplano perché un solo uomo potesse farlo volare”. Le forze aeree dell’esercito assegnarono la vittoria al progetto più modesto della Douglas. La Boeing andò quasi in bancarotta.

Eppure l’esercito acquistò alcuni apparecchi dalla Boeing come aerei di prova, e alcuni militari rimasero convinti che si potesse guidare. Così un gruppo di piloti collaudatori decise di trovare il modo di riuscirci.

Fingiamo che Tony sia una semplice macchina nelle nostre mani. Ma naturalmente non lo è

Avrebbero potuto creare un apposito programma di formazione per i piloti del Modello 299, ma era difficile immaginare che si potesse avere più esperienza e competenza del maggiore Hill, il responsabile dei voli di prova delle Forze aeree dell’esercito statunitense. Invece, ebbero un’idea assolutamente geniale nella sua semplicità: crearono una checklist, una lista di controllo per il pilota con indicazioni da seguire punto per punto durante le procedure di decollo, volo, atterraggio e rullaggio. Questa lista dimostrava i progressi compiuti dall’aeronautica. Nei primi anni, mettere in aria un aeroplano poteva essere esasperante, ma non certo complicato. A un pilota non sarebbe mai passato per la testa di usare una checklist per il decollo, proprio come non verrebbe in mente a un autista che deve fare marcia indietro per uscire dal garage. Ma questo nuovo aereo era troppo complicato per affidarlo alla memoria di un pilota, per quanto esperto.

Con la checklist, i piloti riuscirono a far volare il Model 299 per un totale di un milione e 800mila miglia senza neppure un incidente, e l’esercito finì per ordinare quasi 13mila esemplari dell’apparecchio, ribattezzato B-17.

La medicina oggi è entrata nella sua fase B-17. Una grossa parte del lavoro degli ospedali, e soprattutto la terapia intensiva, è troppo complessa perché i medici possano lavorare affidandosi soltanto alla memoria. Nel sostegno alla vita dei reparti di terapia intensiva c’è troppa medicina perché una persona sola la possa gestire.

Che una cosa semplice come una checklist possa essere di grande aiuto nell’assistenza medica, tuttavia, non è affatto ovvio. I malati non sono tutti uguali come gli aeroplani. Esaminando le cartelle cliniche di 41mila pazienti che avevano subìto un trauma fisico, si è visto che le diagnosi associate alle ferite erano 1.224, con 32.261 combinazioni uniche. È come se ci fossero 32.261 tipi diversi di aeroplano da fare atterrare. È impossibile indicare in dettaglio i procedimenti necessari per ognuno di loro, e i dottori hanno reagito con scetticismo al suggerimento che un pezzo di carta con una serie di caselle da spuntare potesse migliorare sensibilmente le cose.

Ma nel 2001 uno specialista di medicina critica del Johns Hopkins hospital, Peter Pronovost, ha deciso di fare una prova. Non ha cercato di fare una lista che comprendesse tutto, l’ha progettata in modo da affrontare un solo problema, quello che aveva quasi ucciso Anthony DeFilippo: le infezioni delle linee. Ha buttato giù su un foglio le cose da fare per evitare di provocare un’infezione inserendo una linea. I dottori devono: 1) lavarsi le mani con il sapone; 2) pulire la pelle del paziente con un antisettico a base di clorexidina; 3) mettere teli sterili su tutto il corpo del paziente; 4) indossare maschera, cuffia, camice e guanti sterili; 5) mettere una benda sterile sul sito del catetere un volta inserita la linea. Controllare, controllare, controllare. Non sono cose complicate: si sanno e si insegnano da anni. Perciò sembrava stupido fare una lista per controllare solo questo. Eppure, Pronovost ha chiesto alle infermiere della sua unità di terapia intensiva di osservare per un mese i dottori che mettevano linee ai pazienti e annotare quante volte rispettavano la procedura per intero. In più di un terzo dei casi i medici saltavano almeno un passaggio.

Il mese successivo Pronovost e la sua équipe hanno convinto l’amministrazione dell’ospedale che le infermiere dovevano essere autorizzate a fermare i medici se saltavano un passaggio nella checklist. Le infermiere dovevano anche chiedere ogni giorno ai medici se bisognava togliere qualche linea, in modo da non lasciarle più a lungo del necessario. Era una rivoluzione. Le infermiere hanno sempre avuto dei loro sistemi per spingere i dottori a fare la cosa giusta, dal suggerimento cortese (“Uhm, si è dimenticato la maschera, dottore?”) a metodi più violenti (ho avuto un’infermiera che mi placcava letteralmente quando pensava che non avessi messo abbastanza teli su un paziente). Ma molte non sono sicure che questo sia il loro ruolo o che certe procedure meritino una discussione (è davvero importante che le gambe di un paziente siano coperte di teli se bisogna inserire una linea nel torace?). La nuova regola lo stabiliva esplicitamente: se i medici non seguivano tutti i passaggi della lista, le infermiere potevano intervenire contando sull’appoggio dell’amministrazione.

Pronovost e i suoi colleghi hanno controllato gli sviluppi dell’esperimento per un anno. I risultati erano così sensazionali che non riuscivano a crederci: il tasso d’infezione delle linee tenute per dieci giorni era passato dall’11 per cento a zero. Così hanno seguito i pazienti per altri quindici mesi: in tutto il periodo si sono verificate due sole infezioni. Hanno calcolato che solo in quell’ospedale la checklist ha evitato 43 infezioni e otto morti, e ha fatto risparmiare due milioni di dollari.

Allora Pronovost ha reclutato altri colleghi e ha steso qualche altra checklist. Una dava indicazioni alle infermiere per controllare il dolore dei pazienti almeno una volta ogni quattro ore e fornire terapie tempestive. La probabilità che il dolore venisse lasciato senza un adeguato trattamento si è ridotta dal 41 al 3 per cento. Poi è stata sperimentata una checklist per i pazienti in ventilazione meccanica: per esempio, bisognava accertarsi che la testa del letto di ciascun malato fosse sollevata di almeno 30 gradi, per impedire alle secrezioni orali di finire nella trachea, e che a tutti i pazienti venissero somministrati degli antiacidi per prevenire le ulcere gastriche. La percentuale di malati che non ricevevano l’assistenza necessaria è passata dal 70 al 4 per cento, le polmoniti si sono ridotte di un quarto e sono morti 21 pazienti in meno dell’anno precedente. I ricercatori hanno scoperto che, convincendo i medici e gli infermieri delle unità di terapia intensiva a prepararsi delle checklist personali per i loro compiti quotidiani, la qualità dell’assistenza migliorava a tal punto che, in poche settimane, la permanenza media dei pazienti nel reparto era diminuita della metà.

Pronovost si è accorto che le checklist assicurano due vantaggi. Innanzitutto aiutano la memoria, specialmente nelle questioni di ordinaria amministrazione che vengono facilmente trascurate quando i pazienti hanno problemi gravi. In secondo luogo rendono esplicite le misure minime da seguire nelle procedure complesse. Per Pronovost è stata una sorpresa scoprire che molto spesso perfino il personale più esperto non riesce a cogliere l’importanza di certe precauzioni. Svolgendo un sondaggio tra il personale di terapia intensiva prima di introdurre le checklist per il ventilatore, aveva scoperto che la metà degli addetti non si era resa conto dell’importanza dei gastroprotettori per i pazienti sottoposti a ventilazione. Le checklist, dunque, fissano standard superiori per le prestazioni di base.

La mia, senza dubbio, è una sintesi rozza. Pronovost viene sistematicamente descritto dai colleghi come una persona “brillante”, “geniale” e “che sa trasmettere entusiasmo”. È laureato in medicina, ha un dottorato in salute pubblica alla Johns Hopkins ed è specializzato in medicina d’emergenza, anestesiologia e medicina critica. Ma servono davvero tutti questi titoli per capire quello che traslocatori, organizzatori di matrimoni e commercialisti hanno intuito secoli fa?

Il morale era a terra e il carico di lavoro aumentava. Ci mancavano solo le checklist

Pronovost non è stato il primo in medicina a usare una checklist. Ma è stato uno dei primi a riconoscere che una lista delle cose da fare può salvare delle vite umane e ha approfittato di tutte le possibilità che offriva questa consapevolezza. Quarantadue anni, capelli cortissimi, l’aspetto e l’energia di un liceale, Pronovost è un miscuglio di fanatismo e messianesimo. Figlio di una maestra elementare e di un professore di matematica, è cresciuto a Waterbury, in Connecticut, e ha frequentato la vicina università di Fairfield. Quando, come tanti bravi studenti, ha deciso di dedicarsi alla medicina, ha scoperto che prendersi cura dei malati gli piaceva davvero. Odiava i laboratori, ma aveva la classica forma mentis scientifica: “Come posso risolvere questo problema irrisolto?”. Perciò dopo l’internato di anestesiologia e la borsa di studio in medicina critica, ha approfondito i metodi della ricerca clinica.

Per la tesi di dottorato ha esaminato le unità di terapia intensiva del Maryland e ha scoperto che la presenza di un intensivista nel personale riduceva di un terzo il tasso di mortalità. Era la prima volta che qualcuno dimostrava l’importanza di usare gli intensivisti per la sanità pubblica. Ma non si è accontentato di aver provato la sua tesi, voleva che gli ospedali si comportassero di conseguenza. Dopo la pubblicazione del suo studio, nel 1999, ha incontrato un gruppo di grandi aziende, il Leapfrog group, che comprendeva compagnie come la General Motors e la Verizon, impegnate a migliorare gli standard degli ospedali dove venivano curati i loro dipendenti. Nel giro di qualche settimana, il gruppo ha annunciato che gli ospedali con cui i suoi membri stipulavano contratti dovevano avere degli intensivisti nelle unità di terapia intensiva. Queste aziende pagano l’assistenza sanitaria di 37 milioni di lavoratori, pensionati e dipendenti in tutto il paese. Gli ospedali hanno protestato sostenendo che non c’erano abbastanza intensivisti e che il costo sarebbe stato proibitivo, ma l’idea di Pronovost di fatto è diventata uno standard nazionale.

Visti i risultati ottenuti con le checklist, Pronovost si è convinto che questo sistema può salvare un numero enorme di vite umane. Ha cominciato a far conoscere le sue ricerche a medici, infermieri, assicuratori, datori di lavoro, chiunque fosse disposto ad ascoltarlo. Ogni mese ha parlato in media in sette città continuando a lavorare a tempo pieno nelle Uti del Johns Hopkins. Ma ha trovato molte resistenze.

I motivi sono vari. Alcuni medici si sono offesi quando si sono sentiti dire che avevano bisogno di checklist. Altri avevano dubbi legittimi sulle prove offerte da Pronovost. Fino a quel momento aveva dimostrato solo che le checklist funzionavano in un ospedale, il Johns Hopkins, dove le unità di terapia intensiva hanno soldi, abbondanza di personale e un Peter Pronovost che va avanti e indietro nei corridoi per accertarsi che siano usate correttamente. Ma cosa poteva succedere nella vita reale, dove infermieri e medici di terapia intensiva lavorano sotto organico, hanno poco tempo, si sentono sommersi dai pazienti e non sono attratti dall’idea di dover compilare l’ennesimo pezzo di carta?

Nel 2003, tuttavia, la Michigan health and hospital association ha chiesto a Pronovost di provare tre delle sue checklist nelle Uti del Michigan. Era un impegno colossale. Non si trattava solo di convincere gli ospedali dello stato a introdurre le checklist, bisognava anche verificare se facevano realmente la differenza. Ma almeno Pronovost aveva l’opportunità di stabilire se la sua idea funzionava davvero.

Sono cose che si insegnano da anni. Perciò sembrava stupido fare una lista per controllare

L’estate scorsa ho visitato il Sinai-Grace hospital, un tipico ospedale cittadino nell’area più povera di Detroit, e ho visto con cosa deve fare i conti: 800 medici, 700 infermiere e altri duemila addetti si occupano di una popolazione con il reddito medio più basso di qualunque città degli Stati Uniti. I residenti senza assicurazione medica sono più di 250mila, mentre 300mila ricevono l’assistenza pubblica. Il titolo di ospedale più povero della città però spetta al Detroit receveing hospital, dove un quinto dei pazienti non ha i mezzi per pagarsi le cure.

Il Sinai-Grace ha cinque unità di terapia intensiva per gli adulti e una per i neonati. Hassan Makki, il responsabile di questi reparti, mi ha raccontato com’era la situazione nel 2004, quando Pronovost e l’associazione ospedaliera hanno cominciato a mandare messaggi e inviti alle conferenze in cui presentavano le checklist per le linee centrali e i pazienti in ventilazione. “Il morale era a terra”, racconta. “Avevamo perso molti collaboratori e le infermiere ancora con noi non erano sicure di voler restare”. Anche molti medici stavano pensando di andarsene. Contemporaneamente il carico di lavoro aumentava perché c’erano nuove norme che limitavano i turni degli assistenti. Ci mancava solo Pronovost con le sue checklist.

Ho accompagnato un’équipe che faceva il giro delle sette del mattino in una delle Uti chirurgiche. C’erano undici pazienti. Quattro avevano ferite d’arma da fuoco (uno era stato colpito al petto, un altro all’intestino, al rene e al fegato, due al collo ed erano rimasti tetraplegici). Cinque pazienti avevano emorragie cerebrali (tre avevano ottant’anni e si erano fatti male cadendo per le scale, uno era un uomo di mezza età con il cranio e il lobo temporale sinistro danneggiati da un colpo ricevuto in un’aggressione e l’ultimo era un operaio rimasto paralizzato dal collo in giù dopo aver battuto la testa cadendo da una scala di quasi otto metri). C’era un malato di cancro a cui era stato asportato un pezzo di polmone e un paziente operato alla testa per un aneurisma cerebrale.

I medici e le infermiere che facevano il giro cercavano di procedere metodicamente da una stanza all’altra, ma erano continuamente interrotti: un paziente che sembrava stabilizzato aveva una nuova emorragia, un altro che era stato tolto dal ventilatore doveva essere riattaccato. Era difficile immaginare che potessero alzare la testa dalla marea di disastri quotidiani per preoccuparsi di qualche minuzia su una checklist.

Eppure lo stavano facendo. Erano soprattutto le infermiere a tenere a posto le cose. Ogni mattina una capoinfermiera percorreva l’unità, appunti alla mano, accertandosi che ogni paziente attaccato al ventilatore avesse il letto rialzato all’angolo giusto, avesse preso le medicine necessarie e avesse fatto le analisi richieste. Ogni volta che i medici inserivano una linea centrale, un’infermiera si assicurava che la relativa checklist fosse stata compilata e messa nella cartella del paziente.

Pronovost è stato intelligente. Non ha imposto subito di introdurre le checklist. All’inizio si è limitato a chiedere di raccogliere dati sulla percentuale di infezioni. Nel gennaio del 2004 si è scoperto che il tasso di infezioni dei pazienti di terapia intensiva negli ospedali del Michigan era più alto della media nazionale, e in alcuni ospedali drammaticamente più alto. I casi di infezioni delle linee al Sinai-Grace erano più numerosi che nel 75 per cento degli ospedali statunitensi. Nel frattempo la Blue Cross Blue Shield, la principale compagnia assicurativa sanitaria del Michigan, si era impegnata ad assegnare un piccolo premio in denaro agli ospedali che partecipavano al programma di Pronovost. Improvvisamente provare a usare le checklist era sembrato facile e logico.

Con la cosiddetta Keystone initiative, ogni ospedale ha nominato un direttore del progetto che doveva stendere le checklist e partecipare due volte al mese a un incontro con Pronovost per individuare e risolvere eventuali difficoltà. Pronovost ha insistito anche per fare assegnare a ogni unità un dirigente incaricato di visitarla almeno una volta al mese, ascoltare le osservazioni del personale e collaborare alla soluzione dei problemi.

I dirigenti facevano resistenza. Normalmente la loro giornata era fatta di riunioni in cui discutevano di strategia e bilanci. Non erano abituati ad avventurarsi nel territorio dei pazienti e non si sentivano a loro agio. In alcuni posti sono stati accolti con ostilità. Ma il loro coinvolgimento si è dimostrato essenziale. Secondo Christine Goeschel, che all’epoca dirigeva la Keystone initiative, nel primo mese i dirigenti hanno scoperto che l’antisettico a base di clorexidina, efficace per ridurre le infezioni delle linee, era disponibile in meno di un terzo delle Uti. Era un problema che solo un dirigente era in grado di risolvere, e in poche settimane tutte le Uti dello stato hanno ricevuto una scorta di antisettico. Poi le équipe hanno riferito alle autorità ospedaliere che mancavano i teli sterili per coprire i pazienti quando venivano inserite le linee. I dirigenti hanno fatto rifornire le scorte e poi hanno persuaso la Arrow international, uno dei più grandi produttori di linee centrali, a realizzare un nuovo kit che contenesse il telo e la clorexidina.

A dicembre del 2006 la Keystone initiative ha pubblicato i suoi risultati in un fondamentale articolo sul New England Journal of Medicine. Nei primi tre mesi del progetto, il tasso d’infezione nelle unità di terapia intensiva del Michigan è diminuito del 66 per cento. Le Uti tipiche, comprese quelle del Sinai-Grace hospital, hanno ridotto il loro tasso d’infezione trimestrale a zero. I tassi d’infezione sono diminuiti talmente che in media le Uti del Michigan avevano risultati migliori del 90 per cento di quelle di tutti gli Stati Uniti. Nei primi 18 mesi del progetto, si calcola che gli ospedali abbiano risparmiato 175 milioni di dollari e oltre 1.500 vite umane. Il successo è stato confermato per quasi quattro anni: tutto grazie a una piccola e stupida checklist.

I risultati di Pronovost non sono stati ignorati. Da allora gli sono arrivate richieste di aiuto da Rhode Island, dal New Jersey e dalla Spagna. Nel Michigan, Pronovost e la Keystone initiative hanno cominciato a provare altre cinque o sei checklist per migliorare l’assistenza ai pazienti in terapia intensiva. Gli hanno anche chiesto di mettere a punto un programma per i pazienti dei reparti di chirurgia.

Ci sono centinaia o forse migliaia di cose fatte dai dottori che sono pericolose e a rischio di errori umani come inserire linee centrali nei pazienti delle Uti. Questo vale per l’assistenza cardiaca, il trattamento degli ictus, la cura dell’hiv e la chirurgia di ogni tipo. E anche per la diagnosi, che si tratti di individuare un tumore, un’infezione o un attacco di cuore. Tutte queste cose prevedono dei passaggi che vale la pena di appuntare in una checklist e verificare quotidianamente. La questione, ancora senza risposta, è se la cultura medica saprà cogliere questa opportunità.

Il problema è che non riusciamo a considerare l’assistenza sanitaria come una scienza

Abbiamo i mezzi per rendere alcuni dei compiti più complessi e pericolosi che svolgiamo – nella chirurgia, nella medicina d’emergenza e nella terapia intensiva – più efficaci di quanto si sia mai ritenuto possibile. Ma la prospettiva si scontra con la tradizione medica, con la convinzione fondamentale che in situazioni di alto rischio e complessità quello che occorre è una sorta di audacia unita a competenza: fare la cosa giusta. Le checklist e le procedure standard sembrano esattamente il contrario, ed è questo che fa irritare i medici. Ma è ridicolo pensare che le checklist possano sostituire il coraggio, l’intelligenza e la capacità d’improvvisazione. Il corpo umano è troppo complicato e particolare: la buona medicina non potrà fare a meno dell’audacia e della competenza. Ma dovrebbe anche essere pronta a riconoscere i meriti del metodo.

Lo scarso interessamento suscitato dal lavoro di Pronovost può essere facilmente spiegabile, ma è difficilmente giustificabile. Se qualcuno scoprisse un farmaco capace di combattere le infezioni con un’efficacia lontanamente paragonabile alle checklist, ci sarebbero campagne pubblicitarie per promuoverlo, informatori farmaceutici disposti a offrire il pranzo ai medici che lo prescrivono, programmi pubblici per studiarlo e aziende concorrenti pronte a migliorarlo. Peter Pronovost invece deve ancora capire se tra un anno o due gli ospedali di Rhode Island e del New Jersey saranno disposti a provare la sua checklist.

Poco tempo fa ho chiamato Pronovost al Johns Hopkins, dove era di servizio in una unità di terapia intensiva. Gli ho chiesto quanto tempo ci vorrà ancora perché nelle mani di dottori e infermiere la checklist diventi uno strumento comune quanto lo stetoscopio (che, a differenza delle checklist, non ha mai dimostrato di fare la differenza per la cura dei pazienti).

“Con questo ritmo non succederà mai”, mi ha risposto. “Il problema fondamentale per la qualità della medicina americana è che non riusciamo a considerare l’assistenza sanitaria come una scienza. I compiti della scienza medica si dividono in tre categorie. La prima è capire la biologia della malattia, la seconda è trovare terapie efficaci e la terza è assicurarsi che queste terapie siano somministrate in modo efficace. Quest’ultima categoria è stata quasi completamente ignorata da chi finanzia le ricerche, dal governo e dalle istituzioni accademiche. È considerata un’arte. Ma è un errore enorme. E dal punto di vista dei contribuenti è scandaloso”. Abbiamo un istituto nazionale di sanità che con 30 miliardi di dollari all’anno è stato una vera fucina di scoperte, ha aggiunto Pronovost. Ma non abbiamo un istituto per la qualità dell’assistenza sanitaria che studi come applicare al meglio queste scoperte nell’attività quotidiana. Gli ho chiesto quanto costerebbe fare in tutto il paese quello che ha fatto nel Michigan. Circa due milioni di dollari, ha risposto, forse tre. Ha già messo a punto un piano per la Spagna che costerà ancora meno.

“Potremmo introdurre le checklist in tutte le unità di terapia intensiva degli Stati Uniti nel giro di due anni, se il paese lo volesse”, ha aggiunto. Per il momento sembra che non voglia. Gli Stati Uniti potevano essere i primi ad adottare le checklist in tutto il paese, ma la Spagna ci batterà.

Qualche giorno fa ho parlato con Markus Thalmann, il cardiochirurgo dell’equipe che salvò la bambina austriaca affogata. E mi ha detto che la checklist aveva avuto un’importanza cruciale per la sua sopravvivenza. ◆ gc

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Questo articolo è uscito sul numero 740 di Internazionale, a pagina 30. Compra questo numero | Abbonati