Il 6 giugno, mentre era nel parcheggio di un negozio Home Depot a Los Angeles insieme a tanti altri lavoratori, Angel ha visto un furgone bianco avvicinarsi e ha capito subito che qualcosa non andava. Ha notato che il guidatore e la persona seduta al posto del passeggero indossavano qualcosa di simile a un giubbotto antiproiettile. Ha seguito il veicolo con lo sguardo fino a quando si è fermato vicino all’ingresso orientale del negozio, che si trova nella parte della città in cui si concentrano gli immigrati centroamericani.

Il suo sospetto si è trasformato in terrore quando le portiere del furgone si sono aperte e alcuni agenti dell’Immigration and customs enforcement (Ice, la polizia federale per il controllo delle frontiere) sono saltati fuori. Avevano il volto coperto.

“La migra!”, hanno urlato Angel e un altro lavoratore. Improvvisamente più di cento uomini e donne che erano in piedi nel parcheggio hanno cominciato a correre. Sei immigrati che dicono di aver assistito alla scena raccontano che gli agenti hanno ammanettato tutti quelli su cui riuscivano a mettere le mani, in una delle tante retate che hanno provocato un’ondata di proteste e hanno seminato il caos tra gli immigrati.

Le operazioni dell’Ice sono state criticate dai politici locali e dagli attivisti, in una città che ospita una delle più numerose comunità di immigrati senza documenti degli Stati Uniti. Mentre la notizia delle retate si diffondeva nei quartieri di Los Angeles, i manifestanti sono scesi in strada per sfidare la polizia e denunciare il suo intervento, visto come un attacco violento alle famiglie di immigrati. L’indignazione è cresciuta domenica 8 giugno, quando gli agenti hanno sparato candelotti lacrimogeni contro chi li contestava davanti a un edificio del centro. Sul posto erano presenti anche i soldati della guardia nazionale mandati dal presidente Donald Trump.

Nelle prime ventiquattr’ore dopo la retata, il parcheggio del negozio Home Depot è rimasto vuoto. I lavoratori a giornata, spaventati, hanno detto di non aver mai visto la polizia fare arresti in modo così arbitrario. Ma l’8 giugno alcuni sono tornati. Spiegano di dover rischiare perché hanno bisogno di lavorare. Hanno bollette da pagare e bocche da sfamare.

Verità e paranoia

Il 6 giugno Xochitl, una donna con due figli arrivata negli Stati Uniti dal Guatemala, era nel fast food McDonald’s che dà sullo stesso parcheggio di Home Depot, quando ha visto un gruppo di agenti rincorrere degli uomini che lei vede ogni giorno ma che conosce solo per soprannome. All’inizio è rimasta paralizzata, poi ha cominciato a camminare nella direzione opposta a quella dei poliziotti che stavano arrestando i venditori ambulanti sui marciapiedi.

“Prendevano gente a caso”, racconta. “Non facevano domande. Non sapevano quanti avevano una pratica in corso per mettersi in regola”.

Mentre raccontano la loro esperienza, le persone si guardano intorno con aria circospetta. Ogni volta che un furgone o una macchina si avvicina con i finestrini abbassati alla ricerca di lavoratori a giornata, studiano i volti di chi c’è dentro, e solo quando sono sicuri che non siano poliziotti fischiano per richiamare la loro attenzione. Le guardie giurate dei negozi percorrono il perimetro del parcheggio a bordo di golf-cart e ogni tanto chiedono agli immigrati di avvicinarsi al marciapiede e allontanarsi dalla proprietà privata. Sembrano comunque dalla loro parte. Uno consiglia a un lavoratore di andarsene perché stamattina gli agenti dell’Ice si sono presentati alle quattro, senza trovare nessuno (i più esperti sanno che nel fine settimana i furgoni che offrono lavoro arrivano più tardi). I corrieri di Amazon si fermano per avvertire gli immigrati quando vedono agenti di polizia nelle vicinanze. “Qualcuno ha detto che sono passati tra Ventura e la Sesta”, riferisce Angel al gruppo di uomini e donne in attesa di un lavoro, sotto un cielo nuvoloso. “Sembra che abbiano arrestato gente tra Figueroa e l’ottava”.

Quegli angoli di strada sono a pochi isolati da lì, ma in questa situazione è difficile distinguere tra la verità e la paranoia. I lavoratori raccontano che le proteste sono una buona cosa e che sono contenti di essere sostenuti dalla popolazione. Sanno che molti manifestanti sono figli di immigrati e sono felici che qualcuno abbia il coraggio di difenderli. Alcuni immaginano cosa sarebbero gli Stati Uniti se tutti gli stranieri di origine latinoamericana lasciassero il paese.

Angel, che è arrivato anni fa dall’Honduras, è pessimista. È convinto che le proteste alimenteranno la repressione di Trump ed è rassegnato all’idea che alla fine sarà espulso. Ma nel frattempo, come gli altri, deve lavorare per tirare avanti.

“Non sono sicuro che ne valga la pena, ormai”, spiega Abraham, l’uomo che il 6 giugno insieme ad Angel aveva urlato per avvertire dell’arrivo dell’Ice. Originario del Nicaragua, vorrebbe continuare a lavorare per mantenere suo figlio, ma la minaccia costante di essere arrestato ed espulso è un peso insopportabile. “Qui la vita non ha più molto senso”, dice.

La mattina in cui gli agenti hanno preso d’assalto uno dei posti più frequentati dagli immigrati senza documenti che cercano un lavoro, Josue è riuscito a scappare via. Aveva lasciato la macchina a pochi metri dall’unica entrata del parcheggio che non era stata bloccata dall’Ice. Ha avuto il tempo di mettersi al volante e allontanarsi lentamente senza destare sospetti.

La mattina dell’8 giugno la moglie lo ha implorato di non tornare là per non rischiare di essere arrestato. È padre di tre figli e stavolta avrebbe potuto non avere la stessa fortuna. “Le ho detto di non preoccuparsi e le ho promesso che sarei tornato”, racconta. Ma anche lui aveva paura.

Come a casa

Josue ha 45 anni e molto da perdere. La sua famiglia ha presentato richiesta di asilo dopo aver lasciato il Guatemala, sei anni fa. Il procedimento è ancora in corso. Nel suo paese subiva le estorsioni delle organizzazioni criminali, che imponevano il pizzo a chi voleva gestire un negozio nelle zone sotto il loro controllo. Ha assistito a omicidi ed è stato derubato. Alla fine non poteva più permettersi di pagare.

I pochi soldi che guadagna lavorando nei cantieri edili, dipingendo finestre o pulendo cortili servono a pagare gli avvocati che hanno presentato la richiesta d’asilo per la famiglia. È stata fissata un’udienza, e gli avvocati hanno ottenuto dal giudice che si tenesse in videoconferenza, visto che gli agenti dell’Ice hanno cominciato ad arrestare gli immigrati davanti ai tribunali.

Negli Stati Uniti Josue voleva fare qualcosa di più che lavorare. Voleva costruire un futuro per i figli, permettergli di studiare e crescere in pace lontano dalla violenza che ha vissuto da ragazzo. Ma ora non è più convinto.

“Ho una brutta sensazione”, racconta. “È un sentimento familiare, simile all’insicurezza che ho vissuto nel mio paese. È quasi la stessa paura, la percezione di un pericolo che può arrivare da un momento all’altro”.

Quando un suv fa una manovra strana nel parcheggio, Abraham richiama l’attenzione degli altri. Circa dieci uomini si sporgono per capire chi c’è alla guida.

“Andiamo!”, grida Xochitl. Abraham si mette lo zaino in spalla e si allontana. Angel scatta. Josue comincia a camminare all’indietro, lentamente.

Nell’arco di pochi secondi gli uomini che stavano in piedi nel parcheggio spariscono. Poi il suv imbocca la strada per ordinare da McDonald’s. Falso allarme. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1618 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati