Il futuro del Regno Unito sarà al centro del dibattito politico britannico una volta finita la pandemia. Due massime possono aiutarci ad affrontare questa discussione. La prima è che in politica niente è impensabile. L’uscita della Scozia dal Regno Unito è certamente una possibilità. Sarebbe la fine di un esperimento che dura da secoli, e sarebbe probabilmente seguito dalla riunificazione dell’Irlanda.

La seconda massima – necessario correttivo della prima – è che in politica niente è inevitabile. Il futuro del regno, oggi, è una battaglia aperta tra elettorati instabili e leader politici imperfetti, intorno alla quale gravitano molti temi irrisolti. La questione non è chiusa.

Turisti, giugno 2017 (Charles Delcourt)

La discussione esistenziale sul Regno Unito è appena cominciata. Il governo di Londra ha fatto passare troppo tempo prima di cominciare a pensare seriamente al possibile scioglimento dello stato unitario. Per anni la politica si è tappata le orecchie e ha chiuso gli occhi, e se oggi il premier Boris Johnson e i suoi ministri si ritrovano ad affrontare un’emergenza che minaccia il futuro dello stato unitario, possiamo solo dire che si sono svegliati tardi. Le prime risposte – creare un nuovo comitato di gabinetto, organizzare riunioni dei ministri competenti e “visite proconsolari” a Edimburgo – certamente non hanno conquistato i cuori e le menti dei cittadini. Il fatto che due consiglieri scelti da Johnson per capire come tenere unito il paese si siano dimessi – a causa di lotte intestine nel Partito conservatore – fa pensare che a Downing street la strategia scarseggi. Il parlamento sembra vittima di un blocco psicologico che impedisce di osservare la realtà dei fatti.

Il paese, invece, ci vede benissimo. Secondo un sondaggio di YouGov pubblicato sul Sunday Times alla fine di gennaio, in tutte e quattro le nazioni del Regno Unito – in Inghilterra nelle stesse percentuali che in Scozia – gli elettori prevedono l’indipendenza della Scozia entro dieci anni (nel frattempo sta crescendo anche il sostegno alla riunificazione irlandese). Lo stesso sondaggio, tuttavia, rivela che questo non sconvolge gli elettori inglesi. Il quarantacinque per cento non è turbato, il 17 per cento dice che sarebbe contento se la Scozia se ne andasse, e il 28 per cento sostiene che “non gli importa”. Forse sottovalutano la situazione: i cambiamenti innescati da un’eventuale disintegrazione del Regno Unito sarebbero uno shock per molti elettori inglesi. Guardando avanti, le sorprese sembrano l’unica scommessa sicura. Ma una cosa è chiara: nonostante le tensioni nello Scottish national party (Snp), questa crisi politica comincerà solo dopo le elezioni parlamentari scozzesi del 6 maggio 2021.

Agosto 2018 (Charles Delcourt)

Tensioni

Le radici della crisi sono antiche e si snodano per gran parte del novecento. Quando l’impero scomparve e si affievolì il ricordo unificante della guerra, la britishness – l’orgoglio di essere britannici – smise di essere un valore pulsante, caldo e urgente, e si trasformò in un’astrazione ufficiale. Chiaramente per la politica è difficile invertire questa tendenza. I sondaggi confermano ciò che si sente ripetere nelle conversazioni di tutti i giorni: oggi essere scozzesi, gallesi o inglesi riscalda gli animi molto più che essere britannici. Per Londra il problema più urgente è la deriva indipendentista in Scozia, ma la preoccupazione più profonda è che il separatismo si rafforzi, a sorpresa, tra i giovani, anche perché non è facile trovare una controargomentazione emotiva. Tra gli elettori più giovani, quasi il 75 per cento è favorevole all’indipendenza. Gli ultimi sondaggi confermano una chiara maggioranza indipendentista in tutte le fasce di età. Niente è inevitabile. Ma di certo l’onda sta montando.

Va detto che le previsioni sulla disgregazione del Regno Unito non sono una novità. Una ventina d’anni fa realizzai una serie per la Bbc intitolata The day Britain died (il giorno in cui la Gran Bretagna è morta). In un libro dedicato allo stesso tema, descrivevo “quella sensazione indefinibile, immediatamente riconoscibile, che il paese si stia progressivamente staccando dal potere di Londra”.

E questo quando il Partito laburista era ancora una forza dominante in Scozia. L’unionismo di sinistra è stato come una grande facciata in pietra costruita
nell’East End di Glasgow, con davanzali intarsiati e colonne doriche ma senza una struttura solida per sostenerla. Alla fine la facciata è crollata in un boato improvviso e un’enorme nuvola di polvere rosa. In realtà già alla fine degli anni novanta molti politici di primo piano del Labour mi dicevano in privato che lo stato unitario non poteva durare.

Il matrimonio di Maddie e Keith, giugno 2017 (Charles Delcourt)

All’epoca mi ero trasferito a Londra. Quasi tutti i miei amici rimasti in Scozia si erano avvicinati al movimento indipendentista, se non proprio all’Snp. Provavano una certa pena per il mio autoesilio, e li capivo. Riflettendo sui possibili effetti della devolution (il provvedimento che garantiva maggiore autonomia alle nazioni britanniche), nel 1998 scrivevo: “Nella nuova costituzione ci sarà una tensione costante che logorerà e alla fine frantumerà lo stato unitario, a meno che entrambe le parti siano determinate a impedirlo. Non sembra che questa determinazione ci sia”.

Non lo scrivo per vantarmi, anche perché, visto quello che è successo nei vent’anni dopo, la previsione si è rivelata quanto meno prematura. Il crollo dell’egemonia del Labour in Scozia è stato accompagnato dalla rapida ascesa dell’Snp al nuovo parlamento di Edimburgo (e poi anche a Westminster). Questo partito offriva una forma di socialdemocrazia che, per molti scozzesi, corrispondeva all’ordine naturale delle cose. Tutti sapevano che un giorno l’Snp avrebbe chiesto l’indipendenza, e il referendum del 2014 è stato una battaglia aspra, che ha dato parecchio filo da torcere agli unionisti. Ma per un elettore scozzese moderatamente patriottico e a favore dello stato sociale, i governi di Alex Salmond e Nicola Sturgeon (entrambi dell’Snp) non sono sembrati un cambiamento rivoluzionario.

In più, c’era la promessa che il referendum si sarebbe tenuto “una volta ogni generazione”. Dopo le elezioni generali del 2015, quando l’egemonia dell’Snp si è consolidata, un secondo referendum sembrava improbabile. Una volta giunto al potere a Edimburgo, il partito si è abilmente posizionato come la voce familiare della Scozia, più che come una forza insurrezionale. Tra tutti i paesi che conosco, la Scozia è quello in cui la rispettabilità conta di più.

Niamh, gennaio 2017 (Charles Delcourt)

In tutto questo dall’Inghilterra è arrivato solo un silenzio inquietante. Dopo l’insediamento del parlamento scozzese nel 1999, non c’è voluto molto prima che il generoso piano di spesa pubblica scozzese cominciasse a irritare gli elettori inglesi. Con il senno di poi, non si può non notare la differenza tra i risultati del Labour in Inghilterra e Scozia alle elezioni del 2010: nella sua Scozia il leader Gordon Brown è riuscito a far crescere il partito e a conservare tutti i seggi, mentre in Inghilterra il Labour è crollato. E non bisogna dimenticare il famoso manifesto usato dal premier conservatore David Cameron alle elezioni del 2015, con il leader laburista Ed Miliband infilato nel taschino del leader scozzese Salmond.

Senza un movimento in grado di rivaleggiare con quelli di Scozia e Galles, il nazionalismo inglese è rimasto più o meno sommerso. Storicamente la poesia di G.K. Chesterton, la retorica di Enoch Powell e, a sinistra, figure diverse come George Orwell e Tony Benn hanno cercato di battere il tasto su tradizioni distintamente inglesi, sia pur nel quadro delle istituzioni britanniche. Questi istinti non sono mai completamente scomparsi. Per molto tempo l’arretramento della englishness (l’orgoglio di essere inglesi) è stato un dolore culturale, quasi privato. Ma il trasferimento di poteri alla Scozia e al Galles l’ha riportata alla luce.

Dietro il nazionalismo

Le cose sono cambiate ancora di più con la Brexit. L’Inghilterra ha votato per uscire dall’Unione europea, la Scozia per rimanerci. L’Inghilterra ha avuto la meglio. Quando dice che la Brexit è il “cambiamento materiale” che ha riaperto la questione del referendum del 2014, il governo scozzese parla per molti dei suoi elettori. Nell’estate del 2016, dopo il voto sulla Brexit, ero in Scozia. Mi sono ritrovato più volte a parlare con persone che un tempo erano contro l’indipendenza ma poi avevano cambiato idea. Molti convertiti della prima ora, negli anni novanta, erano stati spinti dall’avversione per il blairismo e per le politiche moderate della sinistra. Questa seconda ondata, invece, è composta da ex fedelissimi dei partiti unionisti disperati per il voto sulla Brexit, vista come il primo vero successo del nazionalismo inglese. Questi scozzesi desiderano essere europei più di quanto non desiderino essere britannici. Continuano a non amare l’Snp e prendono le distanze dagli anti-inglesi arrabbiati che gridano per le strade con le facce dipinte o fanno sparate su internet. Ma sono passati (loro direbbero di essere stati spinti) dalla parte dell’indipendenza. E sono ancora lì.

Quanto al nazionalismo inglese, dietro il voto sulla Brexit c’è molto altro: le motivazioni delle persone che hanno votato per uscire dall’Unione europea e sono complesse e varie, e vanno dagli aspetti di carattere costituzionale alla xenofobia. Ma in mezzo c’è anche il sentimento nazionale inglese ferito. La politica dell’Inghilterra è il punto meno discusso del futuro del Regno Unito. Uno studio sull’identità inglese di Ailsa Henderson e Richard Wyn Jones, basato sui sondaggi, mostra che il sentimento britannico è in declino anche in Inghilterra. Secondo Henderson, questo fenomeno è “legato a un senso di spaesamento e di alienazione in Inghilterra che semplicemente non vediamo in Scozia e in Galles”. In Inghilterra l’ansia (e l’invidia) per la devolution scozzese e l’ostilità verso l’Unione europea sono collegate. “L’elettorato inglese tende a pensare di essere trattato ingiustamente”, soprattutto dal punto di vista economico, concludono gli autori.

L’insoddisfazione inglese potrebbe manifestarsi in vari modi: per esempio incolpando l’Unione europea, invece che i politici nazionali, per eventuali delusioni legate all’accordo commerciale. E non è un caso, forse, se i ministri stanno discutendo di un nuovo assetto costituzionale che prevede maggiori poteri per le regioni e per le grandi aree urbane inglesi: l’obiettivo è dare più voce a tutti i territori d’Inghilterra a eccezione del nord di Londra. Anche ai vertici del Labour si parla di nuovo di federalismo.

L’ex primo ministro Gordon Brown ha detto che il Regno Unito deve scegliere tra uno stato riformato e uno stato fallito, e ha invitato Boris Johnson a creare una commissione sulla democrazia che porti a un “forum delle nazioni e delle regioni”. È una proposta che risale all’epoca edoardiana. Nel 1912 il primo ministro liberale Herbert Asquith, preoccupato per i disordini in Irlanda, propose una nuova struttura federale chiamata home rule all round, “autogoverno generale”. La Gran Bretagna, spiegò in un discorso alla Camera dei comuni, era congestionata al centro: “Partiamo da un’unione … che ha questa peculiarità: che mentre per gli scopi comuni tutti i suoi membri costituenti possono deliberare e agire insieme, nessuno di loro è libero di occuparsi di quelle questioni che sono particolarmente opportune e necessarie di per sé, senza il consenso comune di tutti”. Almeno per l’Inghilterra, sembra di stare nel 2021.

Se non fosse stato per la prima guerra mondiale, chissà cosa sarebbe successo. Da allora il federalismo è rimasto un tema politico minoritario, quasi eccentrico. In politica mai dire mai, ma convincere l’intera macchina di Westminster a riformarsi è un’impresa difficile. Non è per niente scontato, peraltro, che un nuovo regime di devolution per l’Inghilterra, che di fatto sarebbe la principale conseguenza pratica di qualsiasi nuovo accordo federale, spegnerebbe gli entusiasmi indipendentisti di tanti scozzesi. Per gli unionisti la notizia incoraggiante è che, per la prima volta, i conservatori e i laburisti stanno discutendo delle stesse cose (anche se con cautela). Entrambi i partiti oggi parlano di “salire di livello”. D’altra parte, non si capisce bene perché dare più poteri alle regioni inglesi, o la riforma della Camera dei lord, dovrebbero placare le richieste d’indipendenza degli scozzesi.

Facciamo i superiori

Da sempre l’indipendentismo scozzese va oltre la questione dell’assegnazione delle risorse. Gli stati nazione nacquero nella prima età moderna e la Scozia (a differenza del Galles) ebbe varie centinaia di anni di sviluppo nazionale, con un suo ordinamento religioso, giuridico e scolastico, un suo parlamento e una sua monarchia.

Arriva un punto in cui le elezioni e i sondaggi non possono più essere ignorati

Era una nazione, come l’Inghilterra. E dopo l’unione del 1707 i due paesi andarono più o meno a braccetto. Gli sforzi condivisi prevalsero sui diversi caratteri nazionali: Glasgow sfruttava avidamente i vantaggi di far parte dell’impero tanto quanto Birmingham o Manchester. Dai reggimenti ai banchieri, dagli ingegneri ai missionari, gli scozzesi parteciparono a pieno titolo agli anni gloriosi della britishness. Oggi, invece, sembra che Scozia e Inghilterra stiano procedendo lentamente in direzioni opposte. Gli inglesi continuano a eleggere governi di centrodestra. Gli scozzesi, dall’alto di un crescente senso di identità nazionale, fanno scelte opposte. Il voto sulla Brexit è stato un indicatore inequivocabile di questa divaricazione, con gli inglesi che hanno rifiutato le idee socialdemocratiche europee in cui molti scozzesi si riconoscono. Ovviamente i politici tory che hanno spinto per l’uscita dall’Unione europea mettendo l’accento sull’identità invece che sugli interessi economici oggi non sono nella posizione migliore per rinfacciare agli scozzesi di voler fare lo stesso.

Ma gli interessi economici hanno sempre un peso. Uno dei punti più controversi è il livello della spesa pubblica in Scozia, che gli elettori inglesi, secondo i sondaggi, vivono come un sussidio ingiustificato e provocatorio a una popolazione che adesso li disprezza. I dati sono oggetto di accese contestazioni, ma secondo le ultime stime (fatte prima della pandemia) la Scozia aveva un deficit pubblico pari all’8,6 per cento del pil, contro il 2,5 per cento complessivo del Regno Unito. Per dirla più semplicemente, gli scozzesi pagano 380 sterline (436 euro) in meno di tasse a testa rispetto alla media del Regno Unito e spendono 1.633 sterline (1.874 euro) in più per i servizi pubblici. La “socialdemocrazia in un solo paese” potrebbe essere costosa per gli scozzesi.

Il futuro è un altro paese

Dove ci portano tutti questi dati se proviamo a immaginare un possibile futuro? Temo ci conducano a scenari perversi, da entrambe le parti. I politici più accorti tengono sempre conto delle conseguenze più estreme delle proprie decisioni. Quando si parla del futuro del Regno Unito, purtroppo, questo tipo di sensibilità manca.

Libby, agosto 2016 (Charles Delcourt)

Prendiamo un tipico sostenitore della Brexit che vive nelle Home Counties (le contee intorno a Londra), conservatore per istinto, nostalgico e patriottico per carattere, con una certa idea dell’Inghilterra: un paese forte nel mondo come in passato, magari un po’ più bianco all’interno, meno vulnerabile alle interferenze esterne. Lo so, è solo una caricatura, e i sostenitori della Brexit non sono tutti uguali, ma credo che il ritratto non sia così lontano dalla realtà. Cosa ne sarà delle speranze di questo elettore? Se la Brexit dovesse portare all’indipendenza della Scozia, è molto probabile che l’Irlanda del Nord finirebbe per ricongiungersi alla Repubblica d’Irlanda: entrando nell’Unione europea, Belfast avrebbe maggiori vantaggi economici immediati rispetto a Glasgow e l’elettorato più giovane, come in Scozia, è molto più schierato su questi temi. Il Regno Unito ne uscirebbe drasticamente ridimensionato, sia dal punto di vista geografico sia in termini di potenza.

È difficile immaginare che l’Inghilterra e il Galles (ammesso che il Galles rimanga, altra questione aperta) potranno continuare a tenere i loro sottomarini nucleari a Faslane, a quaranta chilometri da Glas­gow, con la baldanza militare di un membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sicuramente il paese avrebbe molte più probabilità di cadere sotto l’influenza di potenze straniere. Sarebbe circondato a nord, a sud, a ovest e a est da stati dell’Ue. Senza contare che l’economia inglese ha bisogno di arrivi regolari di manodopera dall’estero. Se questi migranti smettessero di arrivare dal continente europeo, con ogni probabilità arriverebbero dall’Asia e dall’Africa.

Alistair, agosto 2018 (Charles Delcourt)

Mettiamo tutto insieme. Un paese meno militarizzato, più piccolo, meno assertivo, più vario e multiculturale. È per questo che il viceammiraglio Sir Percy Temeraire dell’Hampshire ha votato quando ha scelto la Brexit? A me sembra più l’Inghilterra ideale di Jeremy Corbyn.

Quello appena descritto è uno dei possibili sviluppi inattesi, ma non è l’unico. Prendiamo la Scozia indipendente. Molti di quelli che la vorrebbero se la immaginano come un paese con uno stato sociale forte e generoso, inserito in pianta stabile nell’Ue ma libero di commerciare attraverso un confine aperto con l’Inghilterra, il suo più grande mercato. Un’indipendenza ottimistica, dove la separazione politica va a braccetto con un’unione fondata su amicizia, famiglia e affari.

È un quadro fin troppo ottimistico, dicono Henderson e Wyn Jones. Secondo i sondaggi, gli elettori inglesi sarebbero per la linea dura contro la Scozia indipendente su quasi tutte le questioni tranne i viaggi senza passaporto. Il processo di divisione, molto probabilmente litigioso, si concluderebbe con la creazione di confini. I produttori alimentari scozzesi, già disperati per la burocrazia della Brexit, farebbero fatica a raggiungere i mercati dello Yorkshire o delle Midlands inglesi. E parlando già la lingua, le imprese scozzesi troverebbero fin troppo facile delocalizzare in Northumberland o in Cumbria pensando semplicemente all’accesso al mercato, prima ancora di arrivare alle questioni fiscali. Non è certo la liberazione promessa. E poi ci sono le questioni economiche. Ho il sospetto che alcuni gruppi in Scozia se la passerebbero molto bene. L’indipendenza sarebbe meravigliosa per i politici, i funzionari pubblici, gli avvocati, i giornalisti e gli accademici di Glasgow e di Edimburgo. La Scozia vivrebbe un momento elettrizzante. Ci sarebbe un ritrovato interesse globale, nuove ambasciate, seminari internazionali stimolanti e un aumento generale della rilevanza intellettuale del paese. La Scozia tenterebbe di rientrare nell’Ue, e non sarebbe facile, per ragioni valutarie e di deficit fiscale. Ma a Bruxelles c’è grande benevolenza nei confronti della Scozia e, dopo la Brexit, molti leader europei si farebbero in quattro per aiutare Edimburgo. Ma è molto meno probabile che accettino di versare gli stessi fondi che oggi arrivano da Londra.

Barbara, agosto 2016 (Charles Delcourt)

Lotte interne

Come per la Brexit, le previsioni di un collasso economico potrebbero essere esagerate: la Scozia è un paese ricco di risorse e competenze e non si trasformerebbe da un giorno all’altro in un deserto economico. Magari uscendo dal Regno Unito avrebbe dei vantaggi: se tornasse nell’Ue, alcune aziende potrebbero decidere di spostare le loro sedi dalla City di Londra a Edimburgo, portando con sé posti di lavoro e gettito fiscale. È possibile. Ma a meno che l’economia scozzese cominci a crescere a ritmi clamorosi – al momento un’eventualità molto lontana – ci sarebbe un aumento della pressione fiscale. Di conseguenza la classe operaia, che vive di posti di lavoro, sussidi e pensioni del settore pubblico, avrebbe vita più difficile.

Come gli elettori inglesi della Brexit che sperano in un paese più forte, gli elettori indipendentisti della classe operaia scozzese potrebbero restare delusi dalle conseguenze della loro decisione. Dopo l’indipendenza, i repubblicani socialisti dell’Snp si ritroverebbero a convivere con chi vorrebbe trasformare Edimburgo in un’accogliente piazza finanziaria continuando a omaggiare la monarchia tra una partita di golf e l’altra.

L’Snp, già oggi attraversato da lacerazioni evidenti – dovute allo scontro tra Sturgeon e Salmond – potrebbe entrare in una crisi permanente. E questo avrebbe un impatto devastante sulla reputazione del governo di Edimburgo.

Aprile 2014 (Charles Delcourt)

Ma gli unionisti farebbero meglio a non essere troppo entusiasti. Visti il potere e l’influenza dell’Snp e il sostegno per l’indipendenza, ormai radicato soprattutto tra i giovani elettori, è improbabile che lo scontro interno al partito basti a spostare i numeri a favore del Regno Unito. I problemi profondi nello schieramento nazionalista non fanno aumentare il sostegno nei confronti di Londra, non rendono la Brexit più popolare, non fanno sembrare più noiosa la parola “libertà”.

Le cose si complicano ulteriormente se consideriamo che molti dei ragionamenti sui problemi legati a un eventuale scioglimento del Regno Unito possono essere ribaltati. Il blocco dei trasferimenti da Londra a Edimburgo sarebbe ben visto da molti elettori in Inghilterra. Non è difficile immaginare che un leader politico favorevole alla Brexit decida di lanciarsi in una nuova campagna per “l’indipendenza dell’Inghilterra”.

Gli argomenti a disposizione non mancherebbero: potrebbe sostenere che, con il declino del petrolio nel mare del Nord, l’Inghilterra non avrebbe più motivi economici per rimanere nello stato unitario; che in effetti la perdita della flotta nucleare sarebbe un duro colpo, ma che i risparmi potrebbero essere usati per creare una difesa più agile, in linea con le esigenze del ventunesimo secolo. Questo ipotetico leader accoglierebbe con favore la prospettiva di un confine con l’Ue lungo il Northumberland e la Cumbria e spingerebbe per un grande rilancio del nord dell’Inghilterra per compensare la perdita della Scozia. Il passo successivo di questa grande campagna sarebbe chiedere un referendum sullo scioglimento del Regno Unito non in Scozia, ma in Inghilterra.

Agosto 2018 (Charles Delcourt)

Come sarebbe accolta quest’idea in Scozia? Dal punto di vista emotivo c’è una bella differenza tra dichiarare l’indipendenza dall’arcaico stato britannico e la minaccia di esserne sbattuti fuori. Se davvero una campagna per l’indipendenza inglese dovesse prendere piede, di certo non renderebbe più facili i rapporti tra Londra ed Edimburgo.

È solo un’ipotesi. Ma lo scioglimento del Regno Unito sarebbe un evento rivoluzionario, e momenti del genere tendono sempre ad avere conseguenze inattese.

Il molo di Eigg (Charles Delcourt)

Senza risposta

Torniamo al futuro prossimo. Ipotizziamo che l’Snp, nonostante le difficoltà, vinca le elezioni del 6 maggio e chieda un secondo referendum sull’indipendenza. Boris Johnson può semplicemente continuare a dire di no? Dal punto di vista legale può sicuramente farlo, e questo complica i piani di Sturgeon o del suo eventuale successore. Sturgeon si rivolgerebbe ai tribunali, ma probabilmente ne uscirebbe sconfitta. A quel punto si rivolgerebbe all’opinione pubblica, forse anche facendo ricorso alla piazza. Su questo terreno magari vincerebbe, ma a un prezzo che, da leader intelligente qual è, sa benissimo di non poter pagare. Per questo la leader scozzese vuole un referendum legalmente vincolante, e ha ragione. Senza uno strumento di questo tipo la Scozia si troverebbe nella stessa situazione della Catalogna: disobbedienza civile, grandi manifestazioni e provocazioni reciproche.

Non bisogna dimenticare che Stur­geon guida una coalizione in cui convivono sentimenti e punti di vista diversi. Ci sono gli spiriti ardenti, certo, ma ci sono anche tanti militanti moderati, rispettosi della legge, tranquilli, poco inclini a prendere rischi, che non farebbero mai la lotta dura. E più dura sarà la lotta, più gli elettori inglesi saranno indispettiti e più sarà difficile arrivare a un accordo di separazione amichevole e vantaggioso per entrambe le parti. La leader dell’Snp ha molto da perdere e credo che lo sappia.

Ma neanche Londra è in una situazione facile. È vero che Johnson ha la legge dalla sua parte, ma si trova in una situazione politica complicata. La decisione di consentire un referendum solo “una volta ogni generazione” è stata presa prima della Brexit, e arriva un punto in cui le elezioni e i sondaggi non possono più essere ignorati. Cosa succede se gli scozzesi favorevoli all’indipendenza arrivano al 70 o all’80 per cento?

Londra potrebbe schivare il colpo, per esempio stabilendo una soglia più alta del 50 per cento dei voti per l’indipendenza (ma allora perché nel 2016 è bastata la maggioranza semplice per decidere l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea?). Ma mentre il governo sarebbe impegnato a giocare con le procedure tecniche, in Europa e nel mondo l’interesse per la fine del Regno Unito sarebbe enorme. Sturgeon ha già firmato un accordo con le aziende cinesi. Di fronte ai leader stranieri che sfilano sorridenti a Edimburgo offrendo aiuto, il governo di Londra entrerebbe in fibrillazione. E se arrivasse in città una delegazione della Commissione europea? Se il presidente francese Emmanuel Macron si presentasse a Glasgow e facesse un discorso napoleonico a George square con la bandiera scozzese sullo sfondo?

Da sapere
Voglia d’indipendenza

◆ Il 6 maggio 2021 gli scozzesi voteranno per rinnovare il loro parlamento. Secondo gli ultimi sondaggi, lo Scottish national party, guidato dalla first minister Nicola Sturgeon, potrebbe ottenere la maggioranza dei seggi. In quel caso Edimburgo potrebbe chiedere al governo di Londra un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia. Secondo i sondaggi, in questo momento gli scozzesi sono divisi sull’indipendenza. Il 51 per cento è contrario, il 49 per cento è favorevole. Alle elezioni si presenta per la prima volta il partito indipendentista Alba, guidato da Alex Salmond, ex first minister ed ex leader dell’Snp. I sondaggi lo danno al 3 per cento.

◆ Di recente sono arrivati insoliti segnali di insofferenza anche dal Galles. A marzo il first minister laburista Mark Drakeford ha detto che il Regno Unito, per come lo conosciamo, “è finito”, e ha proposto una nuova struttura istituzionale che si basi “sulla volontaria associazione di quattro nazioni”. Il 6 maggio si vota anche per rinnovare il parlamento gallese. Bbc


È difficile valutare l’impatto di un “no” ripetuto, secco e imperturbabile di Londra ai tory scozzesi, che stanno combattendo una feroce battaglia di retroguardia. Di certo non sarebbe positivo. Forse Johnson non ha una grande considerazione della Scozia, ma non può fare a meno dei conservatori scozzesi.

Il governo britannico e i vertici dell’Snp si trovano quindi ad affrontare una serie di sfide di cui molti non hanno compreso la complessità e la portata. Il Partito laburista scozzese, indebolito, rischia di sparire se non supererà la prova. Sotto la guida di Ruth Davidson, il Partito conservatore ha dimostrato che in Scozia esistono ancora dei patrioti britannici. Ma c’è da dire che, anche se non sono scomparsi, questi patrioti rimangono marginali. Uno dei più acuti osservatori della politica scozzese sostiene che Londra dovrebbe accogliere la richiesta di un nuovo referendum perché non ha alternative. Propone però che tutte le questioni più delicate (la moneta, la spesa pubblica, i controlli alle frontiere dopo l’adesione all’Unione europea) siano affrontate pubblicamente prima del voto. Dopo sei mesi di discussioni dettagliate sugli aspetti pratici della separazione, secondo lui, il sostegno all’indipendenza crollerebbe.

È possibile. Quella che manca davvero, però, è un’argomentazione forte, convincente dal punto di vista emotivo, a favore dello stato unitario, che non riguardi solo gli interessi economici immediati. Dopo la Brexit abbiamo imparato che la visione del futuro può avere facilmente la meglio sulla contabilità. Il popolo scozzese, prima o poi, dovrà fare una scelta. E anche se molti elettori inglesi ancora non se ne rendono conto, questa scelta sta cominciando a condizionare anche loro. È una scelta che riguarda tutti i cittadini dello stato che, almeno per il momento, continuiamo a chiamare Regno Unito. ◆ fas

Andrew Marr è un giornalista scozzese e tra i principali commentatori politici britannici. Conduce The Andrew Marr show, sulla Bbc.

Le foto di questo articolo sono state scattate a Eigg, un’isola nell’ovest della Scozia. Nel 1997 gli abitanti dell’isola sono diventati proprietari dei terreni su cui vivono, e hanno creato un’amministrazione condivisa basata sulla tutela dell’ambiente

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Questo articolo è uscito sul numero 1407 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati