Quest’estate sono tornato al cinema dopo più di ventitré anni. O meglio, pur avendo visto in quel periodo più film di chiunque altro io conosca, lo avevo sempre fatto per lavoro, da critico cinematografico del New York Times. Anche quando andavo al cinema con la famiglia o gli amici, mi sentivo sempre in servizio. Con i miei compagni critici macinavamo film come operai in fabbrica, a volte alle anteprime, seduti in file riservate, altre volte ai festival, oppure in discrete sale di proiezione di qualche palazzo di uffici a Manhattan.
E poi un giorno, come un pistolero affaticato che ne ha viste troppe, ho deciso che era arrivato il momento di allontanarmi, nella luce del tramonto. Nel marzo 2023 ho pubblicato la mia ultima recensione e mi sono congedato. Dopo aver passato 21 settimane a leggere libri, studiare il meteo e tentare d’imparare a suonare un nuovo strumento, mi sono sentito abbastanza disintossicato per tornare al cinema come una persona normale. Il caso ha voluto che fosse l’estate in cui anche le altre persone normali avevano deciso di tornare al cinema. E così siamo andati tutti a vedere Barbie e Oppenheimer.
Andare al cinema sarebbe diventato come leggere poesia o ascoltare vinili con un giradischi: un’attività di nicchia, l’espressione di una presa di posizione culturale
Il cinema era tornato!
O almeno era quello che dicevano i giornali, grazie al fenomeno Barbenheimer: due lungometraggi attesissimi e molto pubblicizzati, usciti lo stesso giorno per una durata totale di quasi cinque ore, nel primo weekend hanno incassato insieme quasi 250 milioni di dollari in Nordamerica. In passato non avrebbe fatto notizia: un film di successo – anche due contemporaneamente – non era un evento. Quest’estate, invece, è sembrato speciale, perché era come se segnasse il ritorno della normalità in un mondo confuso e precario.
Barbie e Oppenheimer si sono scontrati con la tesi che il cinema fosse morto, o quanto meno che andare al cinema come facevamo una volta fosse ormai roba del passato. Già prima della pandemia, ci era stato detto che il futuro era lo streaming: un’ininterrotta utopia, comoda e accogliente, fatta di contenuti senza fine. Tutti i film che vuoi, quando vuoi, ovunque tu sia. Nel momento in cui, a causa del covid, le sale cinematografiche hanno chiuso, l’ultima innovazione tecnologica è cominciata a sembrare una manna dal cielo.
Devo ammettere che lo streaming aveva qualcosa di magico. Per via del mio lavoro, avevo sempre associato i film all’andare al cinema, anche quando gran parte del pubblico aveva adottato un approccio più eclettico. Durante i lockdown, isolato in uno spazio più piccolo con uno schermo più piccolo, mi sono ritrovato solo in una vasta cineteca digitale. Libero dal calendario delle nuove uscite e delle consegne di recensioni, guardavo tutto ciò che mi capitava sotto gli occhi. Una mattina mi sono calato due volte Essere John Malkovich, in una sorta di fuga psicogena dalle chiusure, convinto che il film di Spike Jonze racchiudesse la spiegazione di tutto ciò che era già accaduto e che doveva ancora accadere nella mia vita.
Durante il primo anno della pandemia, guardare film (che per me era sempre stata un’attività al tempo stesso solitaria e sociale e, soprattutto, un lavoro) è diventato un po’ come leggere, leggere come leggevo quando ero un bambino precoce e saccheggiavo gli scaffali dei miei genitori. Ero disordinato, ossessivo, impaziente, acritico.
Forse non c’era bisogno di tornare nelle grandi sale buie. Forse lì non c’era nulla da vedere. Quando l’emergenza covid-19 è cominciata a rientrare, le profezie sulla scomparsa delle sale cinematografiche non si sono fermate. Secondo l’opinione che si andava diffondendo, i grandi successi avrebbero anche continuato a riempire le sale cinematografiche, ma il futuro era chiaramente asincrono e casalingo. Andare al cinema sarebbe diventato come leggere poesia o ascoltare vinili con un giradischi: un’attività di nicchia, l’espressione di una presa di posizione culturale che combina un principio estetico, una protesta filosofica e un tocco di ricercatezza. Per riprendere un recente titolo del trimestrale Filmmaker, “il cinema è morto e siamo tutti i suoi fantasmi”.
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La morte del cinema è proclamata più o meno da quando è nato. Una lista parziale delle forze che da novant’anni minacciano la sua esistenza come forma artistica e come passatempo includerebbe: il sonoro; il colore; il comunismo; l’anticomunismo; il sesso; l’assenza di sesso; il sistema degli studios; il crollo del sistema degli studios; la televisione via cavo; internet; i videogiochi; i supereroi; i cinefili snob.
Nulla di tutto ciò ha mai distrutto il cinema, ma il timore che qualcosa prima o poi lo faccia, la certezza che qualcosa lo abbia già intaccato, spiega il tenace fatalismo che accompagna tutti i discorsi d’amore sul tema. Per oltre 125 anni i film si sono espansi e moltiplicati su schermi sempre più numerosi e grandi ma anche più piccoli, dalle vecchie sale dei nickelodeon al cinemascope, dall’iPhone al formato Imax. Però al tempo stesso i più appassionati e sofisticati sostenitori del cinema hanno avuto la sensazione che si stessero inaridendo e deteriorando. In Viale del tramonto, il cupo, cinico noir hollywoodiano firmato da Billy Wilder, la dea del cinema muto Norma Desmond (interpretata dalla dea del cinema muto Gloria Swanson) si lamenta perché il cinema è diventato piccolo. Era il 1950, nel pieno di quella che presto sarebbe stata ricordata come una straordinaria età dell’oro. Fateci caso: cominciate a parlare di cinema e poco dopo qualcuno dirà che non si fanno più i film di una volta.
In realtà non ci sono mai stati i film di una volta. La nostra memoria culturale seleziona la roba buona e cestina gli scarti. Rivede senza sosta i suoi giudizi, lasciando dei capolavori scivolare nell’oblio e scoprendo chicche perdute tra la spazzatura. I film stessi cambiano di decennio in decennio, generando un’immediata nostalgia. In ogni fase della loro esistenza mutano così drasticamente – cambiando dimensioni, forma e apparenza – da sottrarsi a ogni tentativo di definizione.
Un tempo pensavo che la tendenza a vedere epoche d’oro e periodi di decadenza fosse frutto della mia deformazione professionale. Un critico si sente in dovere non solo di valutare i meriti di questo o quel film, ma anche, di tanto in tanto, di esprimersi sul futuro del cinema. O forse era la mia ambivalenza che proiettava una luce rosea o crepuscolare su quel futuro. Vedere trecento, quattrocento film all’anno vuol dire vivere i più intensi accessi di amore cinefilo e sprofondare nella noia più vertiginosa, ed è facile scambiare le oscillazioni del proprio umore per scosse sismiche della storia. Ma niente di tutto questo spiega perché il cinema sia così meraviglioso e così orribile, così magico e così deprimente. La vera causa è qualcosa di cui parliamo poco volentieri: i soldi.
Nel suo saggio Hollywood: having fun, uscito nel 1973 sulla New York Review of Books, Joan Didion sostiene che nell’industria cinematografica esiste un’unica vera forma artistica: l’affare. Il sottinteso è che i film sono un prodotto derivato del lavoro creativo che consiste nel finanziarli e venderli. Quello che vediamo sullo schermo – le star, gli effetti speciali, il set, le riprese – è come l’immagine residua che risulta da una decisione economica.
Perché fingere che non sia così? Come ogni discorso prodotto nel ventunesimo secolo, la cinefilia moderna tende alla quantificazione, alla misurazione, alla matematica. I critici non dovrebbero interessarsi al costo o agli incassi di un film, ma la verità è che i soldi stanziati e i ricavi al botteghino sono una fonte d’informazioni molto utile.
Il cinema è sempre stato un’impresa ad alta intensità di capitale, e andare a vedere i film nelle sale è sempre stato un’attività consumistica. Prima dello streaming, quando parlavamo di grandi successi o di film emersi ai festival, di titoli in lizza per gli Oscar o adorati dal grande pubblico, i soldi erano un elemento implicito della conversazione. Erano usati come indice di successo o di flop, come parametro per valutare la reazione del pubblico e la rilevanza culturale di una pellicola.
E non solo dai critici. In una settimana qualsiasi, all’epoca, bastava dare un’occhiata alle classifiche del box office (e agli indici di popolarità televisiva) e sentivi di aver colto qualcosa dello stato dell’arte e dell’umore del pubblico. Non capivi tutto, e probabilmente non le cose più importanti, ma potevi trovare un modo di definire le cose più importanti contrapponendole a quei numeri. Le preferenze e le abitudini di ognuno di noi acquisivano un contesto: potevamo nuotare con o contro la corrente dell’entusiasmo, della pubblicità e del pensiero di gruppo. La vita sociale dei film era inseparabile da quella economica.
Lo streaming ha cambiato le cose. Come molte tecnologie digitali, ha sbatacchiato le leggi del capitalismo e cestinato i vecchi libri mastri. La transazione che lo distingue non è l’acquisto di un biglietto ma di un abbonamento. Oltre a pagare per accedere a dei contenuti, il consumatore accetta il tipo di sorveglianza che è ormai diventata la norma digitale. I nostri dati sono raccolti e inseriti in un algoritmo che sa cos’hai guardato, con quale frequenza e quanto a lungo, e che ti presenta nuove proposte basandosi sulle scelte precedenti. Netflix ci chiede sempre di accedere indicando “chi sta guardando?”, ma non ci dice chi sta guardando insieme a noi.
Questa alterazione minima nelle abitudini dei consumatori ha provocato una grande catastrofe culturale: non tanto la morte dei film, quanto l’eclissi del loro significato condiviso. Isolando e aggregando i suoi utenti, lo streaming dissolve i film trasformandoli in contenuto. Non appaiono sulle piattaforme, ma ci scompaiono dentro, tremolando in uno spazio silenzioso fuori dalla nostra conversazione. Possiamo vederli quando vogliamo. Possiamo guardare qualcos’altro. Non ha importanza.
Sicuramente non ha importanza per le piattaforme, il cui modello aziendale dipende da uno stato di attenzione indifferente paradossalmente chiamato coinvolgimento. Finché guardiamo Netflix, a Netflix non interessa cosa stiamo guardando o se al tempo stesso mandiamo messaggi, lavoriamo, schiacciamo un pisolino o ci stiamo rilassando. La qualità – drammi raffinati, film d’autore, vecchi programmi televisivi a cui siamo affezionati – sarà pure la ragione per cui ci abboniamo, ma è la quantità a tenerci lì, ognuno nel nostro bozzolo.
La produzione di questo contenuto ha scosso i vecchi modi di fare affari, l’arte di concludere accordi che ha incantato e sgomentato generazioni di osservatori di Hollywood.
L’industria del cinema non ha mai brillato per equità, trasparenza oppure onestà contabile, ma quel caos aveva una sua coerenza. Le star sapevano quanto valevano. Registi, registe, sceneggiatori e sceneggiatrici sapevano da dove provenivano i loro compensi. Una parte era versata in anticipo e, con un po’ di fortuna, un altro gruzzolo arrivava alla fine: una quota degli incassi al botteghino, una parte dei diritti legati alla distribuzione e alla vendita di videocassette o dvd, un compenso più alto al prossimo film. Con la televisione, c’erano i soldi legati alla trasmissione e, quando durava a lungo, la stabilità di un impiego sicuro.
È da questa nuova instabilità che sono nate le agitazioni sindacali che da luglio occupano l’attualità cinematografica insieme a Barbenheimer. Gli sceneggiatori e le sceneggiatrici, che hanno interrotto il loro sciopero a settembre dopo 148 giorni, vedono deteriorarsi il loro tenore di vita dopo l’iniziale boom dello streaming e sono preoccupati dai possibili abusi dell’intelligenza artificiale. Gli attori e le attrici, tuttora in sciopero, devono fare i conti con la stessa precarietà. La convergenza dell’intelligenza artificiale e di storie scritte con lo stampino lascia intravedere la possibilità di un mondo in cui sceneggiatrici e sceneggiatori, attrici e attori saranno sempre di meno, sempre meno cari, e alla fine forse semplicemente superflui.
Gli scioperi sono stati una forma di protesta contro questo futuro. Un’altra erano state le folle in fila per andare a vedere Barbie e Oppenheimer. Non mi faccio illusioni: comprare un biglietto per vedere un nuovo film della Warner Bros prodotto sotto gli auspici della Mattel non è esattamente un atto di resistenza anticapitalistica. Ma potrebbe essere un modo per riprendersi un po’ di quell’energia democratica che da sempre è parte della cultura di massa, per rivendicare la propria quota di partecipazione all’economia culturale.
Il cinema, ancora una volta, non è morto. Le forme artistiche somigliano ai virus più che alle specie animali. Non si estinguono: mutano, si ricombinano, diventano inattive e si diffondono nuovamente in modi nuovi e a volte irriconoscibili, portando nel proprio dna tracce di precedenti esistenze.
Andare al cinema non è sempre un’esperienza magica. Spesso, anzi, vuol dire lottare per il parcheggio, fare la fila al bar, sopportare la gente che parla e manda messaggini nella fila accanto, i pavimenti appiccicosi e proiezioni mediocri. Ma è stata a lungo un’esperienza sentimentale. Moltissimi film hanno scene indimenticabili di estasi cinematografica. Babylon, Empire of light ed È stata la mano di Dio sono tra i più recenti che mi vengono in mente: prodotti dell’era dello streaming che rimandano a epoche d’oro del passato. Elegie per il cinema e preghiere affinché torni.
Questa malinconia nasce in parte dall’idea che andare al cinema è uno dei tanti simboli della vita collettiva che – a quanto pare – avevamo prima del nostro presente atomizzato e polarizzato. Vi ricordate quante cose facevamo insieme? Pregare in chiesa, fare shopping, guardare le partite, andare al cinema?
La realtà era un po’ diversa. Eravamo polarizzati, divisi, alienati. In questo consiste essere moderni, essere umani. Ciò che rendeva il cinema importante – non alcuni film in particolare, ma il cinema in sé – era la sua impareggiabile capacità di cogliere e riflettere questa condizione. La sala cinematografica, con la sua apertura alla collettività, poteva anche ispirare una profonda solitudine, un anonimato liberatore. Se lo streaming è una forma di sorveglianza, il cinema è il suo opposto. Può essere vissuto come un segreto. Cosa ho pensato di Barbie? Di Oppenheimer? Non ve lo posso dire.
Andiamo al cinema per perderci, per esplorare un mondo che è parte della nostra realtà comune e al tempo stesso se ne distacca. “Nessun’altra arte narrativa si avvicina come il cinema alla varietà, alla fibra, alla pelle della vita quotidiana”, scriveva il critico John Berger nel 1990, qualche anno prima del centenario del cinema. “Ma il suo svelarsi, il suo nascere, la sua unione con l’Altrove, ricorda una nostalgia, una preghiera”.
Una preghiera è pronunciata da una comunità di fedeli. I film sono prodotti da grandi aziende – dagli sforzi congiunti di artisti, tecnici, finanziatori e negoziatori – e completati dal pubblico. Possono essere incredibili, mediocri, disonesti, visionari o stupidi, ma le loro qualità intrinseche contano meno di ciò che siamo in grado di farne. I film ci portano menzogne, miti, propaganda e idiozie, che poi noi trasformiamo in sogni e desideri.
In altre parole, sono beni che consumiamo con la nostra immaginazione (in questo senso, il film Barbie è molto simile alla bambola Barbie). Li usiamo per scoprire la nostra umanità, e così facendo li umanizziamo. Ci deludono perché noi ci deludiamo, e ci affascinano per la stessa ragione. La nostra perenne preoccupazione per la loro morte è la proiezione della paura per la nostra scomparsa. Il cinema è vivo perché noi siamo vivi, e forse è vero anche il contrario. ◆ fs
A.O. Scott è un giornalista statunitense. È stato critico cinematografico per il New York Times dal 2000 al marzo del 2023. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Elogio della critica (Il Saggiatore 2017). Questo articolo è uscito sul New York Times con il titolo Is it still worth going to the movies?
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Questo articolo è uscito sul numero 1537 di Internazionale, a pagina 112. Compra questo numero | Abbonati