Se la storia parla di un orso, dico io, tira fuori subito quel dannato orso. Dostoevskij sa bene di cosa parlo. Il settimo romanzo di Larry Watson, Sundown, yellow moon (il titolo è preso da un verso di Bob Dylan), tira fuori l’orso subito e ci regala un romanzo sul “dopo”, degno di Dostoevskij. Qui non c’è un’ascia come in Delitto e castigo e non siamo in Russia ma in South Dakota, dove in un gelido pomeriggio di gennaio del 1961, un uomo di nome Raymond Stoddard arriva nella capitale dello stato, spara e uccide un carismatico senatore, torna a casa in auto con calma, annoda un cappio intorno a una trave del suo garage e s’impicca. Il romanzo dunque comincia con una fine. Ma perché è successo tutto questo? Una persona arriva a una decisione che gli cambierà la vita, i pensieri nella sua mente si cristallizzano e prendono forma come respiro nell’aria gelida, qualcosa che una mano può solo illudersi di afferrare. Il nostro narratore – ex vicino di casa di Stoddard e oggi romanziere ossessionato da lui – insegue questo mistero per più di quarant’anni. Quel fatidico giorno è rimasto intrappolato nella sua coscienza come una vespa nell’ambra, una cosa spinosa che gli piace studiare con stupore. E così scrive storie che sono tutte, si rende conto, “parte di un’unica storia che si è trasformata e sviluppata nel tempo, ma che non si è mai allontanata dal suo nucleo”, una storia che comincia con le sirene che ululano nelle strade di Bismarck.
Benjamin Percy, Esquire
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Questo articolo è uscito sul numero 1611 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati