L’undicesimo album dei Mogwai comincia con un arpeggio elettronico avvolto nel riverbero, al di sotto del quale si sviluppano altri suoni più scuri. L’effetto è allo stesso tempo inquietante e cinematografico, forse perché il suono somiglia alle colonne sonore di John Carpenter. È un’apertura adeguatamente grandiosa per The bad fire, un album che coincide con il trentesimo anniversario della band scozzese. Se siete abbastanza vecchi da ricordare i Mogwai come adolescenti in tuta ai margini dell’alt-rock degli anni novanta – con le loro interviste oziose e le magliette con la scritta “Blur Are Shite” (i Blur sono una merda) – l’idea di vederli come una band solida, i cui album ora entrano in classifica sembra strana. Ma sono diventati un’istituzione, i più longevi esponenti britannici di quello che potremmo chiamare post-rock, nonostante l’avversione della band per questo termine. Il titolo di The bad fire, termine scozzese che indica l’inferno, è eloquente. È stato registrato in uno stato di agitazione personale, a causa di una malattia che ha messo in pericolo la vita della figlia di Barry Burns (nel frattempo si è ripresa). I Mogwai più giovani avrebbero incanalato queste emozioni in un rumore feroce, ma questo album si poggia più sulla melodia. Forse questo ci dice qualcosa sulla maturità che hanno raggiunto. O forse dice qualcosa sul fatto che a una certa età si considera la musica come una sorta di santuario. The bad fire è una delizia, una situazione cupa trasformata in musica aggraziata e perfino ottimista.
Alexis Petridis, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1598 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati