Norbert Zajac si è reso conto di aver raggiunto il limite del possibile la scorsa primavera. Scuole e asili erano chiusi, e il ministero degli esteri raccomandava ai cittadini di non uscire dal paese. Zajac è proprietario di un enorme negozio di animali a Duisburg, nel nordovest della Germania, che era rimasto aperto grazie a un permesso speciale. Potevano entrare nel locale duecento persone alla volta. E i clienti non mancavano.
Zajac descrive le lunghe file che dall’ingresso si snodavano nel parcheggio e giravano tutt’intorno all’edificio. C’era chi aspettava più di due ore per entrare. Un giorno una dipendente gli ha comunicato che erano stati venduti tutti i cani. “Quando ne arrivano altri?”, ha chiesto Zajac. Lei ha fatto spallucce: aveva già contattato tutti gli allevatori e neanche loro avevano più animali.
Pochi giorni dopo sono andati esauriti i gatti. Dopo dieci giorni, i conigli. Poi i porcellini d’India. I topi. I pappagallini. Ben presto si sono ritrovati con gabbie, acquari e terrari deserti. A quel punto Norbert Zajac ha intuito quali livelli di follia si sarebbero raggiunti nei mesi a venire.
Il negozio di Zajac si trova nella parte settentrionale di Duisburg, in mezzo a una zona industriale. Nel 2005 è entrato nel Guinness dei primati come il più grande negozio di animali del mondo. L’attestato è appeso proprio all’entrata. I cinque capannoni, per una superficie complessiva di tredicimila metri quadrati, ricordano il terminal di un aeroporto. Secondo Zajac ci sono più di duecentomila animali, di tremila specie diverse: sono più numerosi di quelli dello zoo di Berlino. Prima della pandemia aveva più di un milione di clienti all’anno.
Sugli animali domestici Norbert Zajac, 66 anni, ha costruito un impero. Recentemente l’azienda, che ha 195 dipendenti, ha festeggiato i 45 anni di attività. Vende il caimano jacarè a 499 euro e la Pseudoglomeris magnifica, una blatta ornamentale, a 9,99 euro. Ha anche delle razze d’acqua dolce perlate, anguille elettriche, topolini della varietà Dumbo, criceti dorati, conigli e furetti.
Nell’aprile del 2020 Zajac correva da un reparto all’altro per contattare ogni allevatore con cui l’azienda avesse mai lavorato. Poi ha ingaggiato un collaboratore nell’ex Germania Est per passare in rassegna tutti gli allevatori della regione. Parola d’ordine: comprare, comprare, comprare. Pappagallini, fringuelli, cavie. Ogni due settimane a Duisburg arrivava un nuovo carico. Oggi Zajac chiede ai fornitori venti volte più criceti rispetto a prima della pandemia. E tre volte più conigli. Di recente ha preso da un allevatore dodici gattini di razza british shorthair. Li ha venduti in un solo giorno. C’è una vera mania per gli animali domestici, dice.
Come ogni crisi, anche la pandemia di covid-19 ha avuto i suoi effetti collaterali: scaffali di carta igienica saccheggiati, smartworking sul tavolo della cucina, serate di videogiochi al computer e sprazzi di socialità in videochiamata. Ma le persone hanno avvertito la mancanza di qualcos’altro. Molte hanno cominciato a sentire il desiderio di compagnia, di avere qualcuno con cui condividere la casa. Qualcuno capace di regalare un po’ di leggerezza in mezzo a tante notizie drammatiche.
Il rifugio per animali di Lipsia ha registrato il minimo storico di cani presenti in struttura (anche perché ne sono stati abbandonati meno del solito). In primavera gli assicuratori di animali domestici hanno ricevuto un numero di richieste record. Il quotidiano Die Welt ha titolato: “Gli animali che ci consolano e ci aiutano vanno a ruba”.
Un debole per gli animali
In base alle stime dell’Associazione cinofila tedesca, che parla di “drammatica crescita”, sembra che nel 2020 la vendita di cani in Germania abbia registrato un’impennata del 20 per cento. Per soddisfare questa domanda sta crescendo anche il traffico illegale di cuccioli, che porta con sé i maltrattamenti degli animali, avverte la Lega tedesca per la protezione degli animali. Spesso questi esemplari vengono dall’Europa orientale. L’organizzazione animalista Tasso li chiama “cuccioli in liquidazione”.
In questi tempi di distanziamento forzato, l’essere umano cerca istintivamente la vicinanza con gli animali. Che sono in grado di offrire più di quanto i proprietari possano immaginare. Diversi studi mostrano che fanno bene non solo allo spirito, ma anche al corpo.
Si stima che in Germania ci siano circa 34 milioni di animali domestici, undici milioni in più di dieci anni fa. Si tratta in gran parte di gatti: più o meno 14,7 milioni. Poi ci sono una decina di milioni di cani e cinque milioni di animali di piccola taglia come criceti, conigli e topi. Gli uccelli ornamentali sono quasi quattro milioni. Quasi una famiglia tedesca su due ha almeno un animale.
Ma da dove viene l’esigenza di condividere la casa con un animale? Questa convivenza può ispirare, a seconda dei casi, tenerezza o perplessità. Cosa danno gli animali alle persone e alla società più in generale? E dove può condurci un amore esagerato per gli animali o un’idea sbagliata su cosa significhi prendersi cura di un animale domestico?
Per Joshua Hellmessen, 22 anni, e Daniel Rick, 32, di Colonia, prendere un cane era un pensiero fisso da prima della pandemia. Entrambi sono cresciuti con dei cani in casa. Hellmessen ha trascorso un anno negli Stati Uniti per uno scambio scolastico ed era capitato in una famiglia con molti cani. Da allora è convinto che ogni famiglia debba avere un animale domestico. Hellmessen e Rick stanno insieme da due anni. Sapendo che un cane richiede molte attenzioni, volevano aspettare che Hellmessen si laureasse. Con la pandemia, però, le università hanno chiuso e le lezioni si svolgono a distanza, per cui Hellmessen è sempre a casa. Quando hanno trovato un allevatore che vendeva un incrocio tra un pastore tedesco e un husky, hanno detto subito di sì. Qualche settimana dopo è arrivato Kleo.
Di giorno Hellmessen lo portava a fare la sua passeggiata, inizialmente ogni due ore. Metteva una sveglia apposta. Di notte invece era Rick ad alzarsi. Hellmessen racconta che Kleo era talmente abituato a stare sempre con lui, che quando si chiudeva alle spalle la porta del bagno cominciava a ululare forte. Rick invece racconta quanto gli faccia bene l’affetto di Kleo. In casi come il loro, la pandemia è stata l’occasione per realizzare un sogno coltivato da tempo. C’è invece chi prende un animale per superare le difficoltà del momento. Lydia T. viene dalla zona nord di Amburgo e durante la pandemia desiderava un cane perché l’avrebbe costretta a passare più tempo all’aria aperta, anche in autunno e in inverno. E poi voleva regalare un po’ di felicità alla figlia di tre anni. Nel 2019 alla bambina è stata diagnosticata la leucemia. La terapia ha funzionato ma il suo sistema immunitario era debole, e bisognava prendere tutte le cautele di fronte al rischio di contagio da covid-19. Per questo motivo gli amichetti andavano raramente a giocare da lei.
Ad agosto T. si è messa alla ricerca di un cucciolo, rivolgendosi a rifugi per animali e perfino a un’associazione per la protezione degli animali greca. Alcuni allevatori le hanno spiegato che per i cani di certe razze bisognava aspettare un anno e mezzo. Su internet gli annunci di vendita di cuccioli venivano visualizzati da un migliaio di potenziali acquirenti nel giro di poche ore.
A Zajac non servono i sondaggi per capire quanto le persone tengano agli animali
Dopo quattro settimane, la soluzione è arrivata grazie a un’organizzazione spagnola che si occupa di portare cani randagi dalla Spagna alla Germania. Il 3 ottobre le hanno portato Luna, una cagnolina piccola e timida di quattro mesi. Lydia T. racconta che la prima cosa che la figlia le chiede quando la va a prendere dall’asilo è come sta Luna. La bambina sta sempre abbracciata all’animale e passa ore a giocarci in giardino. Dice che vuole molto bene a Luna. Una bambina piccola e una cucciola sono una bella faticaccia, ammette T., ma la sensazione di aver donato un po’ di gioia alla figlia “ha fatto molto bene anche a me”.
Un animale domestico può aiutare a sopportare meglio il dolore o la lontananza dagli amici, e regala allegria. Qualcuno riesce perfino a ritrovare la voglia di vivere dopo una disgrazia. A maggio Beate Sanders, 58 anni, ha avuto un’esperienza che oggi definisce “un improvviso shock positivo”. Da due giorni cercava un gatto su internet. Voleva un persiano, perché si dice che siano teneri e affettuosi. È entrata in contatto con una donna di Brema a cui era rimasto un gattino di una cucciolata. La donna le ha inviato una foto di un bel gattino dal pelo folto marrone chiaro, con la bocca socchiusa. Sanders si è quasi messa a piangere e ha subito chiamato il compagno: “Stiamo per diventare genitori di un gattino”.
Poi è stata assalita dai sensi di colpa. Era giusto essere contenta, tornare a sorridere? Nove mesi prima, nell’agosto del 2019, Sanders aveva perso all’improvviso la figlia Verena, 32 anni, per un arresto cardiaco. Dopo quell’evento si era messa in malattia per un anno.
Oggi Sanders è seduta sul divano del suo bilocale a Lipsia, dove vive da sola. Lei e il compagno si vedono solo nei fine settimana. Pochi giorni dopo aver ricevuto la foto, hanno percorso insieme i 375 chilometri che li separano da Brema. Il gattino era il più piccolo della cucciolata, racconta Sanders, ma anche il più sfrontato e coraggioso. Da qualche settimana Sanders è tornata al lavoro, in una residenza per anziani. Lavora in amministrazione, spesso collegandosi da casa, perché non è più in grado di reggere il contatto con gli ospiti e il confronto con la morte.
Si è anche accorta di quanto sia difficile riprendere le attività quotidiane. Ma, se non avesse avuto il gattino Cleo, oggi non sarebbe ancora pronta. Quei pochi compiti che è costretta a svolgere per accudirlo le danno forza. Ogni mattina Cleo la raggiunge di corsa in bagno e lei gli pulisce gli occhi con un fazzoletto bagnato e gli liscia il pelo. Certe sere Sanders si sorprende nel rendersi conto di non aver pensato alla figlia per tutta la giornata.
Alla domanda se ci sia una cosa in cui Cleo si rivela più di aiuto delle persone, Sanders rimane un attimo in silenzio, poi risponde: “Con lui non mi vergogno quando mi viene da piangere”.
La biologa Cornelia Drees, 64 anni, ha coniato un’espressione per descrivere quello che gli animali riescono a dare agli esseri umani. Secondo lei con gli animali facciamo “il pieno di energia”.
In una giornata d’autunno Drees parcheggia davanti a una clinica psichiatrica di Brema. Sono anni che va lì una volta alla settimana. Dall’auto saltano giù i suoi due cani, mentre lei tira fuori dal bagagliaio vari trasportini con dieci porcellini d’India e quattro galline; prende anche un cesto di erbe aromatiche e rami d’abete, ed entra in clinica. Gli animali contribuiscono a regalare qualche momento di serenità a chi soffre d’ansia o di depressione.
Drees è di una cordialità disarmante. Nello studio veterinario del marito ha imparato a calmare cani e conigli, ma soprattutto a rassicurare i padroni, e poi ha deciso di farne una professione. Così vent’anni fa ha seguito un corso per praticare la pet therapy. In questo tipo di terapia si usa il contatto con gli animali per rilassarsi, riflettere e sconfiggere le ansie. Drees però non si definisce una terapeuta, ma piuttosto un’interprete, una mediatrice tra esseri umani e animali.
Nel suo lavoro Drees fa leva su quella che potrebbe essere un’antichissima inclinazione umana: la biofilia. La parola significa più o meno “amore per la vita”. Nel 1984 il biologo di Harvard Edward O. Wilson sviluppò questa teoria intorno all’idea che l’essere umano abbia una spinta innata, sviluppatasi nel corso di centinaia di migliaia di anni, verso il mondo vegetale e quello degli altri esseri viventi.
Alcuni ricercatori hanno riscontrato un interesse precoce dei neonati per gli animali. Per intrattenere i bambini, la Disney generalmente sceglie degli animali come protagonisti dei film. E gli animali sono in grado di esercitare un’influenza. Secondo alcuni studi, bambini e ragazzi che crescono insieme a un animale hanno più autostima e perfino maggiori capacità cognitive dei loro coetanei che in casa non hanno cani o gatti.
Gli animali hanno un effetto positivo anche sugli adulti. Nel 1980 una scienziata pubblicò una ricerca pionieristica: aveva scoperto che i pazienti reduci da un infarto avevano maggiore probabilità di cavarsela se avevano un cane. Questo studio viene citato molto spesso ancora oggi e ha preparato il terreno a successive ricerche. Nel 2017 in Svezia un gruppo di studiosi ha comparato i dati relativi a più di 3,4 milioni di donne e uomini, dimostrando che con un cane si riduce il rischio di malattie cardiovascolari, in particolare tra chi vive da solo. Si riduce inoltre il rischio di morte prematura. Chi ha un cane va meno spesso dal medico e spende meno per la salute.
Qualche anno prima, nel 2001, alcune psicologhe della State university di New York avevano coinvolto in uno studio 48 persone che soffrivano di pressione alta e facevano lavori stressanti. Le ricercatrici divisero i soggetti in due gruppi: a un gruppo prescrissero solo un medicinale contro l’ipertensione, mentre ai componenti dell’altro gruppo dissero che, oltre al farmaco, avrebbero dovuto prendere un cane o un gatto. Dopo sei mesi i volontari si sottoposero a una seconda visita: tutti avevano la pressione più bassa. Poi li coinvolsero in due esperimenti che prevedevano situazioni di stress, misurando nuovamente pressione e frequenza cardiaca. Chi viveva con un animale reagiva meglio allo stress. Esperimenti simili hanno dato conclusioni concordanti: gli animali sono degli utili antistress.
“Gli animali ci aiutano a sviluppare resistenza”, scrivono Bettina Mutschler, specialista di pet therapy, e Rainer Wohlfarth, psicoterapeuta, nel libro Die heilkraft der tiere (Il potere terapeutico degli animali). Accarezzare un cane o un gatto fa bene al corpo e alla mente.
Gli scienziati individuano il possibile meccanismo causale in un neurotrasmettitore prodotto da quasi tutti i mammiferi: l’ossitocina. È una sostanza che riduce l’ansia e allevia lo stress. È nota come ormone dell’attaccamento e viene prodotta, per esempio, durante l’allattamento. Alcune ricerche dimostrano che accarezzare il cane e guardarlo negli occhi produce una reazione simile. E non solo negli esseri umani, a quanto pare: anche il cane produce la stessa sostanza. Qualche mese fa lo stilista Wolfgang Joop ha raccontato in un articolo quanto il suo cane gli sia stato d’aiuto durante la pandemia. “Quant’è consolante accarezzare un cane o prenderne il muso tra le mani”, scrive. “Ci guardiamo negli occhi e mi sento già molto meglio”.
Misteriosa simbiosi
Da secoli gli esseri umani sono consapevoli del potere degli animali. Già nel nono secolo, nella cittadina belga di Geel, gli animali erano impiegati nelle terapie per le persone disabili. A York, in Inghilterra, alla fine del settecento, galline e conigli erano usati per curare chi soffriva di problemi psichici.
Sessant’anni fa lo psicoterapeuta statunitense Boris Levinson fece una scoperta per la quale fu inizialmente schernito: notò che alcuni bambini e ragazzi, con i quali nel suo studio di New York non riusciva a stabilire un contatto, si aprivano solo quando si mettevano a giocare con il suo cane Jingles. Questa scoperta è stata una pietra miliare nello sviluppo della pet therapy.
Da allora molte ricerche hanno confermato gli effetti positivi del rapporto con gli animali sulla salute mentale, effetti di un’efficacia quasi comparabile a quella degli antidepressivi. Oggi gli animali lavorano nelle residenze per anziani e nei reparti dedicati a chi soffre di demenza, nelle scuole e negli asili. Da tre anni anche il carcere di Heinsberg impiega una cagnolina a scopi terapeutici.
Nella clinica psichiatrica di Brema Cornelia Drees incontra cinque pazienti. Nella stanza dispone alcune coperte e monta delle piccole tende. Distribuisce per terra i rami e ci appoggia di fianco peperoni e cetrioli. Poi fa uscire i porcellini d’India dalle gabbie: scattano verso le tende e cominciano a mangiare. Le galline invece corrono su e giù per la stanza, saltano in braccio ai pazienti, si appollaiano sulle loro spalle.
Se gli animali sono tranquilli, anche noi lo siamo, spiega Drees. Attraverso il contatto con gli animali le persone acquistano fiducia in se stesse. Dopo un po’ Drees mette una cavia in braccio a ogni paziente, a cui consegna un mazzolino di erbette e odori. Gli animaletti restano un po’ a osservare i pazienti, ma passato qualche minuto gli voltano le spalle.
“Non gli piaccio?”, chiede un paziente. “Al contrario, si fida di lei”, risponde Drees. “Perché lei è una persona buona e le cavie lo sentono”. Secondo la biologa gli animali sono sinceri: non sanno mentire né fingere affetto.
Poco dopo un’infermiera ci racconta che spesso i pazienti continuano a parlare degli animali per giorni e giorni. Recentemente ha accompagnato alla seduta un paziente con disturbi d’ansia che inizialmente non voleva proprio saperne: temeva che le galline lo beccassero e che i cani lo mordessero. Alla fine della seduta teneva tranquillamente in braccio un porcellino d’India, accarezzandolo.
Non è facile stabilire con esattezza quando sia nata la simbiosi tra esseri umani e animali. Si stima che il rapporto con il cane, probabilmente il legame più stretto tra il mondo umano e quello animale, sia cominciato tra i ventimila e i quarantamila anni fa. All’inizio c’erano i lupi. Ma, in un momento imprecisato della storia, gli esseri umani cominciarono ad allevare i lupacchiotti riuscendo a cancellare dalla natura di quei predatori l’elemento più selvaggio. Alcuni ricercatori ipotizzano che i lupi si siano praticamente addomesticati da soli: già prima che intervenissero gli esseri umani, gruppi di esemplari dal carattere meno schivo si erano separati dagli altri lupi acquisendo caratteristiche nuove attraverso un processo di selezione.
Nei cani gli esseri umani trovarono dei compagni per la caccia; successivamente gli affidarono la sorveglianza delle greggi e dei primi insediamenti. Avevano creato un compagno perfetto. Sono passati millenni prima che i nostri antenati abbiano addomesticato altri animali: bovini e maiali, cavalli e galline, conigli.
In passato si badava soprattutto all’utilità: i buoi tiravano l’aratro, i gatti davano la caccia ai topi e in groppa al cavallo si andava in guerra. Gli esseri umani volevano latte, carne e cuoio. Al contempo però si gettavano le basi di un fenomeno che oggi è sotto gli occhi di tutti: gli esseri umani stringevano dei legami con gli animali che addomesticavano.
Già migliaia di anni fa i defunti venivano sepolti con gli animali. Più di 2.700 anni fa, nell’Odissea, Omero descriveva la commozione di Ulisse quando il cane lo riconosce a distanza di vent’anni. Le camere funerarie dell’antico Egitto erano decorate da statue di gatti. Intorno al 1480 Leonardo da Vinci disegnò la Madonna del gatto.
Il pittore inglese Sir Edwin Landseer, noto per le scene di animali, diede il suo nome a una razza canina. Un suo dipinto del 1831 raffigura un landseer disteso su un molo con il muso sollevato.
Tuttavia l’idea di attribuire un valore agli animali è rimasta a lungo un’eccezione. Secondo Mieke Roscher, docente di storia sociale e culturale dell’università di Kassel, che studia il ruolo degli animali nella storia, sostiene che “il fatto che la maggioranza delle persone tenga animali domestici con l’unico scopo di godere della loro compagnia è un fenomeno relativamente nuovo”. Cent’anni fa ad avere gatti e cani da salotto erano solo aristocratici e borghesi. “Questi modelli sono stati superati dopo la seconda guerra mondiale”. E il parlamento tedesco ha vietato la macellazione di cani e gatti solo nel 1986.
Con il passare del tempo il ruolo attribuito agli animali è cambiato. Dal 2007 la Lega tedesca per la protezione degli animali organizza una giornata dedicata al “collega cane”: i dipendenti sono incoraggiati a portare in ufficio i loro amici a quattro zampe. Le aziende che aderiscono all’iniziativa sono più di mille. Negli Stati Uniti, per i dipendenti di Google, Amazon e Mars, è normale portare i cani in ufficio.
L’animale si è trasformato in compagno, alleato, confidente. C’è chi lo vede come un amico e chi come qualcuno che ci aiuta, magari anche a guarire. E di conseguenza c’è anche chi è disposto a spendere un bel po’ di soldi.
Quattordici anni fa Renate Ohr decise di salvare la reputazione del cane. Si era stancata di leggere sui giornali storie di cani da combattimento che azzannano le persone o del problema degli escrementi dei cani per strada.
All’epoca Ohr insegnava economia politica all’università di Gottinga. Voleva dimostrare che i cani hanno un effetto positivo sulla collettività, non solo dal punto di vista sociale, ma anche economico. Secondo Ohr, infatti “come animale domestico, il cane genera pil e posti di lavoro”.
In questi casi i medici devono chiedersi chi beneficia dell’intervento
Il suo primo studio sull’argomento s’intitola “Valutazione economica complessiva del cane come animale domestico in Germania”. Nel 2014 ne ha pubblicato un secondo che prende in considerazione diversi tipi di animali domestici.
Renate Ohr ha 67 anni e anche lei ha un cane, Jonny Boy. È il sesto e, come i precedenti, è un boxer. Quando lavorava all’università lo portava sempre in ufficio e dopo essere andata in pensione ha proseguito la sua ricerca sui cani. Ha intervistato veterinari e direttori di cliniche veterinarie, titolari di agenzie funebri per animali domestici, pensioni e rifugi per cani. Ha raccolto informazioni presso le associazioni di allevatori, le compagnie assicurative per animali domestici, i centri di addestramento per cani. Ha analizzato i dati forniti dall’organizzazione degli imprenditori del settore degli articoli per animali domestici e ha intervistato online più di cinquemila proprietari di cani e gatti per i suoi sondaggi.
Alla fine, sommando tutti i dati, Ohr ha ottenuto la cifra di 10,7 miliardi di euro. È quanto spendono ogni anno i tedeschi per i loro animali domestici. Più della metà della somma riguarda i cani. I posti di lavoro a tempo pieno creati in questo settore sono 210mila. Nel 2017 un sondaggio della scuola di medicina veterinaria di Hannover ha rilevato che più del 90 per cento dei proprietari di cani e gatti considera l’animale domestico “un componente della famiglia a tutti gli effetti”. Per quasi la metà è “una specie di figlio”. Negli Stati Uniti circa il 70 per cento dei proprietari di animali li fa dormire, a volte, nel letto.
Necessario e superfluo
A Norbert Zajac non servono i sondaggi per capire quanto le persone tengano agli animali: lo vede ogni giorno nel suo negozio. Secondo lui una volta ci si limitava a comprare un animale, oggi invece lo si adotta. È proprio così che dicono i suoi clienti: adottare. Ormai non si parla più di vendita. “Per alcuni è come se parlassi di traffico di esseri umani”, spiega.
Il commerciante ha in catalogo più di 120mila prodotti, alcuni assurdi, altri improbabili. Ci sono calendari dell’avvento per conigli, pinzette che brillano al buio per dar da mangiare alle lucertole, abbeveratoi per ragni, gilet catarifrangenti per galline (se dovessero correre in mezzo alla strada).
Un tempo un cliente tipo comprava un coniglio, con la sua gabbietta e la lettiera. Oggi si spendono tra i 500 e gli 800 euro in accessori. Una situazione vantaggiosa per tutti, dice Zajac: “Arricchisce l’esistenza del coniglio e quella del cliente, che pensa di aver fatto un buon acquisto. E arricchisce noi, perché i clienti non si limitano a comprare una gabbietta ma prendono un intero parco divertimenti”.
Ma le cose stanno davvero così? Martin Rütter, probabilmente il più noto addestratore di cani in Germania, è critico verso questo proliferare di articoli per animali, che lui considera superflui. In Germania più di 120 centri di addestramento seguono la sua filosofia. Rütter organizza anche esibizioni, che finora hanno attirato due milioni di spettatori, e in tv è noto come “l’esperto di cani”. Al termine di uno spettacolo, Rütter ha mostrato al pubblico alcuni prodotti: una ciotola ad altezza regolabile, un mangime a base di erbe di Provenza e una sedia per il cane. Secondo lui sono una follia. “Se qualcuno ha voglia di comprare un collier di diamanti da decine di migliaia di euro al cane, e se al cane non dà fastidio, faccia pure”, dice. “Ma se un cane è costretto a indossare un costume tradizionale della Baviera per otto ore e a sopportare una banda di ottoni, be’, di certo non sono d’accordo”. Con tutte le belle cose che la gente gli compra, gli animali stanno davvero meglio?
Poco prima di mezzogiorno la cagnolina Kira entra in clinica. Attraversa la sala d’attesa, percorre il corridoio superando gli ambulatori di dermatologia e gastroenterologia. Ad accompagnarla, due dottoresse. È la sua quarta visita. Dodici settimane fa non era in grado di fare il tragitto dal taxi all’ambulatorio senza fermarsi a riprendere fiato. Si stendeva a terra incurante di tutto, raccontano le veterinarie. Kira è una carlina dal pelo nero. Ha sette anni e il suo veterinario l’ha mandata all’ambulatorio Peso forma per cani e gatti, gestito dalla collega Petra Kölle, presso la clinica veterinaria per animali di piccola taglia di Monaco. “Pazzesco, è diventata proprio una sportiva”, commenta Kölle.
La nuova padrona di Kira è la figlia di una donna anziana che ama molto i cani ma soffre di demenza senile, e per questo non riesce più a occuparsene. Dimenticava di averle già dato da mangiare “e quindi la nutriva di continuo”, spiega la figlia. Quando Kira si è ammalata, la figlia dell’anziana l’ha presa con sé. Prima diagnosi: collasso tracheale, una condizione che causa gravi difficoltà respiratorie. A peggiorare la situazione, Kira aveva una ciambella di grasso intorno al collo. Pesava più di undici chili, e doveva assolutamente dimagrire. Kölle ha calcolato l’apporto calorico giornaliero di cui aveva bisogno – 269 chilocalorie – e le ha prescritto 450 grammi al giorno di alimenti dietetici a base di pollo, tacchino e manzo. Niente leccornie. Sei settimane dopo Kira è scesa a 8,4 chili.
Tra tutte le attività economiche che riguardano gli animali, nessuna è cresciuta quanto la medicina veterinaria. A Monaco, in Veterinärstraße, sorge la clinica veterinaria dell’Università Ludwig-Maximilian, con la sua sfilza di reparti: ginecologia, oncologia, chirurgia e medicina interna, dove ci si occupa di malattie gastrointestinali, endocrine e infettive. E di consulenza nutrizionale.
Secondo l’economista Renate Ohr i proprietari di cani spendono in media circa 227 euro all’anno per il veterinario, mentre i proprietari di gatti 121, più di quanto aveva riscontrato nel 2014.
Oggi i veterinari fanno la radioterapia ai gatti malati di tumore. Se un cavallo si ammala di cataratta, possono asportare il cristallino e sostituirlo con una lente artificiale. Se un gatto soffre di un’infezione gastrointestinale i medici lo sottopongono a un trapianto di feci, come si fa nel caso di alcune infezioni gastrointestinali umane. Insomma tutto quello che è possibile trattare viene trattato. Possiamo chiamarlo progresso. O follia.
Salto di specie
Petra Kölle offre consulenze ai padroni di cani e gatti dal 2010, di solito a proposito di alimentazione. Nel suo ambulatorio ogni anno passano centinaia di animali, in gran parte cani. Molti sono malati e hanno bisogno di diete specifiche, ma Kölle ha notato che si stanno diffondendo nuove preoccupazioni rispetto all’alimentazione degli animali domestici: si discute di veganismo, vegetarianismo e paleodiete. Le tendenze umane hanno fatto un salto di specie.
Come si comporta Kölle in questi casi? “Mah, se è quello che vogliono, perché non provarci?”, risponde la veterinaria. “Sono tante le cose che si possono fare, ma di certo non è possibile garantire un’alimentazione completamente vegana ai gatti. Chi non vuole rinunciare dovrebbe piuttosto pensare a prendere un coniglio. Senza dubbio la maggior parte della gente ha buone intenzioni. Al momento di metterle in pratica però molti sbagliano”.
Kölle ha visto proprietari di animali che cucinano per loro come se cucinassero per se stessi. Ma cani e gatti mangiano tutto: ossa, pelo, cervello, occhi. Se si nutrono solo di muscoli e verdure non riescono a coprire il proprio fabbisogno e sviluppano carenze di calcio. In poche settimane i cuccioli si ammalano.
Kölle ha visto anche persone che si curano con le medicine alternative portare gli alimenti destinati agli animali domestici al naturopata perché li sottoponesse alla prova del pendolo. Parla anche di gatti con problemi renali trattati con granuli omeopatici, finché non arrivano da lei gravemente malati. “A quel punto neanch’io posso fare più nulla”, spiega.
La sua collega Anna-Lena Ziese, specialista nel trattamento dell’obesità, pensa che alcuni padroni dovrebbero mettersi una mano sulla coscienza. Un gatto artritico può trarre beneficio dagli antidolorifici. Le operazioni all’anca sono comuni nei cani, perché molte razze presentano una tendenza alle deformazioni articolari. Ma quando si arriva all’accanimento terapeutico per allungare la vita di un cane, bisogna mettere dei paletti: non va mai persa di vista la qualità della vita dell’animale.
In questi casi i medici devono chiedersi chi beneficia dell’intervento: l’animale o il padrone, che vuole tenerlo con sé ancora un po’? In realtà questa logica non funziona: ne escono tutti sconfitti.
Per quanto riguarda la carlina Kira, però, la terapia sembra aver avuto successo. Palpandole la pancia Kölle sente ancora un piccolo strato di adipe, ma al di sotto spuntano le costole. Kira può salire sulla bilancia: 7,8 chili. “Evviva”, esclama la padrona, “ce l’abbiamo quasi fatta!”. Mancano solo cento grammi al peso forma.
C’è un altro fatto, di cui si è parlato molto negli ultimi mesi e che suscita preoccupazione. Sembra che alcuni non abbiano considerato fino in fondo cosa significa tenere un animale domestico: quanta cura, quanto addestramento e quanto tempo richiede. E alla fine si accorgono che la coppia essere umano-animale non è necessariamente felice.
Hal Herzog della Western Carolina university, negli Stati Uniti, è considerato uno dei massimi esperti del rapporto tra esseri umani e animali. È cofondatore di una nuova disciplina, l’antrozoologia. Nel 2010 ha pubblicato Amati, odiati, mangiati. Perché è così difficile agire bene con gli animali (Bollati Boringhieri 2012), in cui ci mette in guardia dall’esaltare la simbiosi tra essere umano e animale: “Vent’anni di ricerca antrozoologica hanno appurato che vivere con un animale domestico comporta vantaggi ma anche diversi svantaggi”. Cosa succede se manca il tempo per occuparsi dell’animale? Stress. Cosa succede se mancano i soldi per nutrire il cane o il gatto? Stress. E se l’animale si ammala o muore? Stress. Alcuni studi arrivano ad attribuire agli animali un effetto negativo.
E quando finalmente la pandemia finirà e le persone lavoreranno di meno da casa? Quando torneranno in ufficio per molte ore al giorno e la sera saranno troppo stanche per giocare? Cosa succederà se il desiderio di avere accanto un amico peloso si rivelerà solo una reazione mal ponderata a circostanze particolari? Nei rifugi per animali si teme proprio questo.
Il rifugio per animali di Berlino sorge su un terreno di sedici ettari. Con circa 1.300 animali, è il più grande d’Europa. Qui si sono accorti da tempo che le persone oggi sentono il desiderio di un animale perché le aiuta ad affrontare meglio la pandemia. Annette Rost, la portavoce, sostiene che molti avrebbero voluto prendere un animale temporaneamente, per superare la crisi. Ma nessuna associazione per la protezione degli animali seria permetterebbe una cosa simile.
Possiamo considerare i rifugi per animali dei luoghi dove ogni animale può trovare aiuto, ma anche l’espressione di un fallimento, con gli animali nel ruolo degli sconfitti, finiti lì perché i padroni faticavano a stargli dietro. Un rifugio per animali pieno non depone a favore della società.
A Berlino raccontano che sempre più spesso arrivano al rifugio animali con disturbi comportamentali. “Sono molto più numerosi di dieci anni fa”, dice Rost. Per esempio, gatti che erano abituati ad andarsene in giro liberamente e che all’improvviso si sono trovati rinchiusi tra quattro mura, o cani da caccia senza più uno scopo. Se lo stile di vita non è adeguato alla specie, gli animali tendono a sviluppare comportamenti anomali. Kerstin Stahlberg, che gestisce il punto di raccolta del rifugio, si lamenta del fatto che molte persone non s’informano abbastanza. Nelle ultime settimane a Berlino si sono moltiplicate le chiamate al rifugio di persone che dicevano di non farcela più a occuparsi dei cani e che stanno pensando di riportare indietro i loro animali. ◆ sk
Gli autori di questo articolo sono Birte Bredow, Simon Langemann, Carola Padtberg e Christopher Piltz.
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Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati