Come tutte le cose grandi e complesse, il Texas si presta alle semplificazioni. Prima di ogni elezione, lo stato è ridotto a slogan contrapposti: roccaforte dei conservatori o laboratorio progressista, culla della cultura delle armi o patria della controcultura queer, frontiera patriottica o porta d’accesso per i migranti. Eppure, è proprio nella sua resistenza a ogni etichetta che il Texas rivela la sua natura più autentica: crocevia di tensioni politiche, sociali ed etniche che riflettono, spesso in forma esasperata, le fratture dell’intera società statunitense.

Questa complessità è resa in modo vivo ed efficace da Luca Santese e Marco P. Valli nel loro libro fotografico Texas trigger, pubblicato da Cesura. Un road trip visivo e narrativo che ha preso forma tra maggio e giugno del 2024, durante la campagna elettorale per le presidenziali vinte da Donald Trump. Il risultato è un racconto dissonante e teso, costruito come una sequenza di trigger, soglie visive e simboliche che mettono a nudo le contraddizioni più profonde del Texas.

Gli autori, che hanno percorso più di ottomila chilometri, partono dai margini, dai senza tetto nel centro di Dallas. I volti di Nina, Joe, un primo piano di mani sporche e pelle segnata hanno la forza di una denuncia silenziosa, raccontano ciò che spesso resta fuori dal mito texano: la povertà estrema, la crisi abitativa, la solitudine urbana. In uno stato che attira capitali e nuove aziende grazie a norme fiscali molto permissive, le disuguaglianze aumentano e chi resta indietro scompare nel paesaggio. Il Texas è anche in prima linea nella crisi climatica, come dimostrano le alluvioni del luglio 2025, che hanno causato più di cento morti e messo in ginocchio vaste aree dello stato.

Proseguendo si arriva a Sulphur Springs, dove si producono rifugi antiatomici e bunker sotterranei. Gli interni metallici, le serrature dorate, i lavoratori tatuati raccontano di una cultura ossessionata dalla minaccia incombente e dalla sopravvivenza. Una paranoia che trova la sua celebrazione nell’incontro annuale della National rifle association (Nra) a Dallas dove tutti, anche i bambini, maneggiano armi semiautomatiche, pistole rosa “Barbie” e fucili con inciso il nome di Trump. L’estetica bellica si sovrappone alla propaganda politica, e il confine fra intrattenimento e culto delle armi si fa sottile, pericolosamente normale.

Questa cultura armata è la porta d’ingresso al mondo politico della destra texana, sempre più radicale. Alla convention di San Antonio, inquietanti gadget contro l’aborto, cappelli “America First” e immagini di un Cristo che protegge Trump raccolgono l’essenza del trumpismo, che mescola culto della personalità, visioni messianiche, patriarcato e nazionalismo. L’estremismo diventa una sorta di parata di carnevale. Ma proprio nel cuore di questo paese così ostile emergono voci di resistenza. Le immagini delle drag queen nei bar di Austin ed El Paso – volti truccati, sorrisi sgargianti, parrucche – raccontano una comunità lgbt+ capace di esprimere una forza politica e culturale che scardina gli stereotipi appena visti qualche pagina prima.

Alla fine si arriva inevitabilmente al confine tra El Paso, Texas e Juárez (Messico), in un posto che in fondo racchiude la tensione degli Stati Uniti di oggi e chiama in causa la sua coscienza. Il muro, i tunnel, le pattuglie della polizia di frontiera e le immagini di Fernando e Maria – migranti in attesa di attraversare il fiume Rio Grande – parlano di frontiere reali e simboliche. Il confine non è solo geografico: è il punto in cui convergono razzismo, paura, disumanizzazione. È la ferita aperta degli Stati Uniti.

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