Il traduttore è uno scrittore, lo scrittore è un traduttore. Quante volte mi sono imbattuto in queste affermazioni? Per esempio in un forum di traduttori che protestano perché non figurano nell’elenco degli autori di una casa editrice, o nei testi di teorici della letteratura, perfino di poeti: “Ogni testo è unico”, osservava Octavio Paz, “e allo stesso tempo è la traduzione di un altro testo”. Secondo altri, poiché la lingua ha una funzione prevalentemente referenziale, ogni testo scritto è una traduzione del mondo a cui si riferisce.

Negli ultimi tempi la mia giornata lavorativa si divide in scrittura la mattina e traduzione il pomeriggio. Forse un confronto tra queste due attività può essere utile per verificare l’equazione scrittore-traduttore.

Negli ultimi tempi la mia giornata lavorativa si divide in scrittura la mattina e traduzione il pomeriggio. Forse un confronto tra queste due attività può essere utile

Sto scrivendo un romanzo. È entrato nella sfera delle possibilità un annetto prima che cominciassi a lavorarci. Due idee vaghe che erano nell’aria da qualche tempo si sono mescolate e hanno assunto un abbozzo di forma. La prima: un uomo anziano che in passato aveva un ruolo di spicco nel mondo della cultura ha deciso di perdere i contatti con il suo ambiente e smettere di seguire le notizie o in generale i mezzi d’informazione; vive come una specie di eremita metropolitano, un acuto osservatore ma, per così dire, disinformato. La seconda: qualcuno riceve un invito a partecipare al funerale, in un paese straniero, di quello che molti anni prima era stato un suo insigne collega, amico e rivale.

Fare del mio attempato eremita il destinatario dell’invito sembrava interessante, ma non abbastanza. Un’idea da indagare. Poi, durante il lockdown per il covid-19, si è accesa la lampadina: e se il funerale fosse in concomitanza con un’emergenza di cui il nostro canuto eroe, che schiva attentamente ogni notizia, fosse del tutto all’oscuro? Questo era uno sviluppo incoraggiante. Sentivo che c’era un corpus di esperienze da poter sviscerare con un certo divertimento, e ho provato a metterle nero su bianco.

Nel frattempo sto traducendo un’opera di Roberto Calasso intitolata Il libro di tutti i libri. Questo progetto ha avuto un avvio ben diverso. Prima una telefonata per invogliarmi ad accettare il lavoro. Poi un momento di riflessione, perché il libro è lungo 473 pagine e la prosa di Calasso non è facile. Avevo tradotto alcuni suoi libri anni fa ed era stata una bella fatica.

Ne avevo l’energia? Volevo davvero impiegare il mio tempo in questo modo? Ho letto le prime cento pagine; dal momento che il libro consiste in un’esplorazione affascinante del Vecchio testamento e io sono cresciuto in una famiglia religiosissima in cui si leggeva la Bibbia mattina, mezzogiorno e sera, sembrava potesse integrarsi fruttuosamente con il mio passato e con le mie conoscenze. Dopodiché c’è stato un lungo negoziato sui termini del contratto, fino al momento della firma. Ora so esattamente quanto devo tradurre ogni settimana per rispettare la mia scadenza; quanto verrò pagato e quando. È rassicurante.

Per il romanzo non ho nessun contratto. Nessuna scadenza. Nessuna certezza di finirlo o di pubblicarlo. Nessuna idea di quanto verrò pagato se sarà pubblicato. Nessuna precisa consapevolezza di ciò che conterrà o di quanto sarà lungo. È un’esplorazione, un rischio. Il che è esaltante, ma non rassicurante. Certi giorni temo che possa mancarmi il coraggio. Se non scrivo io questo romanzo, non lo scriverà nessun altro. Nessuno conoscerà ciò che non è stato scritto. Se non traduco Calasso, qualcun altro lo farà al posto mio.

Quando traduco, mi siedo a un grande tavolo di fronte alla mia compagna, italiana, anche lei intenta a tradurre. Lavoriamo al computer, ogni tanto uno fa una domanda all’altro su qualche parola delle rispettive lingue, ci facciamo un caffè o un tè, scambiamo qualche battuta. Una piacevole intimità accompagna lo scorrere delle ore. Ma per scrivere mi ritiro nella camera degli ospiti, lontano dal telefono e da internet, e scrivo a mano su un quaderno. Questo crea un’atmosfera di silenziosa urgenza. Con la possibilità di un profondo assorbimento, in cui magari scrivo molto velocemente, ma anche di vuoto e frustra­zione, quando le cose non funzionano. Perfino di noia.

gabriella giandelli

Anche Calasso scrive a mano, con una calligrafia pressoché indecifrabile. Un capitolo per volta, commenta la mia traduzione, a mano, a margine di pagine a stampa che la sua segretaria m’invia per email in pdf. È una buona soluzione: Calasso conosce bene l’inglese, sa distinguere tra uno slittamento semantico e una questione di stile, e le sue annotazioni, quando riesco a decifrarle, mi aiutano con le parti successive. I problemi riguardano i riferimenti biblici, ma anche il tono e il registro, perché Calasso ha una voce netta e particolare, di cui devo trovare la mia versione in inglese: intellettuale senza essere pomposa, con inflessioni dell’oralità ma non colloquiale. Devo trovare un modo per ricorrere a un lessico sofisticato ma anche accessibile al lettore. Salvo poche eccezioni, l’autore si rimette al mio giudizio per le scelte stilistiche e io al suo per tutte le questioni semantiche.

Nessuno vede il mio romanzo un capitolo per volta. Potrei inviarne qualche estratto agli amici, come faccio quando scrivo un saggio. Ma sento che sarebbe un errore. Non voglio un input o un riscontro. Solo io conosco il potenziale che ho intravisto in quei primi nuclei di idee. Devo fare tutto da me.

A proposito di riferimenti, Calasso ha stabilito quale traduzione inglese della Bibbia devo adottare per i nomi propri e i toponimi. Tengo aperto il testo in versione Kindle sullo sfondo, insieme a un dizionario bilingue, un monolingue italiano e un dizionario inglese dei sinonimi. Accanto a me c’è una pila di forse trecento fotocopie di testi citati da Calasso. Ho tutto quello che mi serve.

Per il mio romanzo di tanto in tanto faccio qualche ricerca su internet: immagini degli interni di un hotel di lusso, per esempio, che sfoglio in cerca di un dettaglio da poter usare, senza avere la minima idea di quale possa essere. Ma è veramente possibile, mi chiedo una mattina, volare da questo a quell’aeroporto la sera tardi? Google dice di no. Ma è importante? Questo è o non è un romanzo? Rifletto, ci gioco. Perdo un sacco di tempo.

Quando traduco non ne perdo affatto. Apro l’originale di Calasso in pdf. Copio e incollo un paio di paragrafi, poi comincio a comporre la mia versione inglese subito sopra la sua italiana, spostandomi di continuo tra un testo di riferimento e l’altro, e cancellando le sue frasi via via che le sostituisco con le mie. È un lavoro scrupoloso, che mette a dura prova sia il mio italiano sia il mio inglese. Devo mantenere la freschezza perentoria e gli arabeschi della sua voce pur controllando costantemente l’ortografia di nomi come Achia di Silo, Rabba bar Abbahu, re Manasse e suo nipote Giosia. Devo cogliere perfettamente ogni sfumatura. Questa è la lettura della Bibbia di Calasso, non la mia. Ci ha riflettuto a fondo, e ha elaborato riflessioni precise e provocatorie. “Evitiamo la parola opinion”, commenta a margine del capitolo che gli ho mandato. Ha ragione: i faraoni non hanno opinioni.

E io non ho l’energia per lavorare a questa traduzione più di un paio d’ore per volta. È come donare il sangue. D’altro canto, quelle due ore posso sempre farle. Anzi, devo farle per rispettare la scadenza. La data di pubblicazione è fissata, la macchina editoriale è in attesa.

gabriella giandelli

Quando scrivo il mio romanzo, a volte smetto dopo mezz’ora. Non va da nessuna parte, è troppo frustrante. Oppure tiro dritto per tre, quattro, cinque ore, finché la mia compagna non viene a chiedermi quando ho intenzione di mangiare. Il tempo è volato senza che me ne rendessi conto.

Spesso è solo dopo aver smesso di scrivere – per disperazione o per un richiamo alla realtà, mentre faccio la fila al supermercato o magari mentre inserisco la retromarcia per uscire dal garage – che arriva l’intuizione cruciale: e se il collega di cui si tiene il funerale fosse stato l’amante della sua ex moglie? O sospettato erroneamente di esserlo? È questa la direzione da seguire? È un romanzo sulla rivalità?

Quando smetto di tradurre, smetto e basta. Il lavoro è concluso. Ma la traduzione può arricchire il romanzo. Calasso fa notare che Abramo e Mosè avviarono la loro carriera di patriarchi, rispettivamente, dopo i settantacinque e gli ottant’anni. Prima di allora sappiamo pochissimo di loro. Il mio eroe ha superato i settanta. È possibile che la fase cruciale della sua vita stia per cominciare?

Il romanzo non arricchisce in nessun modo la traduzione.

Scrivo di mattina perché le prime ore dopo la colazione hanno un senso di possibilità e di apertura. La giornata è lì che mi aspetta. Può succedere di tutto. La mia mente non è ingombra di email, telefonate o simili. La pagina che ho davanti è vuota, il prossimo passo mi sfugge e sarebbe fin troppo facile lasciarsi distrarre da un impegno concreto: una lettera da scrivere o un modulo da compilare, qualche attività che dia un immediato senso di controllo e appagamento. Ho bisogno di queste ore sgombre.

La traduzione, per quanto impegnativa, non è così incerta. Anzi, pone proprio il tipo di problema concreto che s’impadronisce della mia mente con facilità. Quest’allitterazione, quella dislocazione. Rileggendo il paragrafo che ho appena tradotto, la mia autostima sale. Calasso è un narratore raffinato, ha idee e osservazioni acute. Imbastisci una traduzione appena decente e sentirai di aver prodotto un testo brillante. Per di più dopo il notiziario desolante dell’una, la pasta e piselli, e il caffè con i savoiardi.

Quando traduco, lavoro prima di tutto sull’espressione, sullo stile. Il contenuto c’è già. Quando scrivo, penso a cosa scrivere, che viene già con il suo stile.

Poi è il momento della revisione. Nel tardo pomeriggio leggo da cima a fondo quello che ho tradotto e faccio qualche correzione. Alla fine di ogni capitolo (lungo una cinquantina di pagine) apro la mia versione sul lato sinistro dello schermo e l’originale sulla destra, e li confronto parola per parola, riga per riga, per controllare di non aver saltato niente e di aver afferrato il senso in ogni punto. C’è sempre un avverbio che ho saltato, un congiuntivo che non ho colto. Poi metto da parte l’originale e rileggo la mia versione per rivederne lo stile, modificando qualche aspetto della sintassi, i ritmi, i suoni, il registro.

Dopo aver scritto qualche pagina del romanzo – una scena, una sequenza narrativa (non ho ancora fissato i capitoli) – trasferisco quel che ho scritto dalla carta al computer. Per così dire. Lascio fuori le parti che non mi piacciono. Ne introduco di nuove, taglio, modifico, riscrivo. A volte mi ritrovo a trascrivere un testo del tutto diverso dalla mia prima versione. Una specie di testo parallelo. I dialoghi prendono piste diverse. Altre volte cestino tutto. O lo tengo esattamente com’era. La mattina dopo, prima di cominciare a scrivere, rileggo quello che ho trasferito sul computer il giorno prima, immergendomi nel ritmo e nel flusso del tutto, cercando lo slancio che mi porterà alle pagine ignote davanti a me. Magari nel frattempo introduco un cambiamento che rivoluziona tutto.

Perciò se il mio romanzo, come sostiene Paz, sarà inevitabilmente una traduzione di altri testi o, come dicono altri, una traduzione del mondo, mentre lo elaboro non ho idea di quali siano questi testi o di quale mondo ne scaturirà. James Joyce dichiarò di non aver creato nulla con la sua scrittura, di aver preso tutto dalla vita; eppure neanche chi faceva parte del suo mondo e della sua vita avrebbe mai potuto prevedere la straordinaria creazione che è l’Ulisse. Per contro, è piuttosto chiaro cosa conterrà la mia traduzione del Libro di tutti i libri. Indipendentemente dalla qualità del mio lavoro.

A metà dell’opera, scrivo all’editore di Calasso per rassicurarlo che sono in linea con i tempi. La sera stessa, bevendo uno spritz Aperol in un bar dei Navigli, vedo camminare fianco a fianco, spingendo il passeggino, la giovane coppia e il bambino malaticcio che cambieranno la vita del mio protagonista.

Ecco la soluzione! Forse. ◆ eg

Tim Parks

è uno scrittore e traduttore britannico. Vive in Italia. Il suo ultimo libro pubblicato in italiano è _In extremis _(Bompiani 2008).

Questo articolo è uscito sulla New York Review of Books con il titolo The writer-translator equation.

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Questo articolo è uscito sul numero 1381 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati