Poggio Mirteto, Cantalupo, Casperia, Vacone, Configni, Stroncone. Borghi arroccati sui colli della Sabina, castelli e campanili che si chiamano l’un l’altro tra appezzamenti di vigneti e campi di mais seccati dal sole. Boschi, frutteti, uliveti. Tutti posti che si possono raggiungere in auto, ma arrivandoci a piedi appaiono diversi, più belli. Soprattutto d’estate. Per lanciarvi in una simile avventura dovete avere sempre con voi dell’acqua. Uno zaino leggero, con un cambio di vestiti. Scarpe da trekking, bastoncini, maglietta, pantaloncini e biancheria traspiranti. Un cappello a tesa larga, occhiali da sole e crema solare. Poi potete abbandonarvi al caldo e alle cicale.
La partenza è facile. Un’ora di treno seguendo il Tevere verso nordest, dalla stazione di Roma Tiburtina a Poggio Mirteto scalo. Poi sei chilometri in salita nei campi fino a Poggio Mirteto, così vi abituate all’idea che nei giorni successivi la destinazione sarà sempre in cima a un lungo pendio. Poggio, infatti, significa collinetta. Ricordo un sentiero tra cardi selvatici altissimi, con la lanugine che ci ondeggiava sopra la testa. Per entrare a Poggio Mirteto si passa sotto uno stretto arco di pietra a pochi metri da uno strapiombo. Basta guardare in basso per sentirsi soddisfatti.
Il segreto per camminare quando fa caldo è partire prima dell’alba e prendersela con calma. Perciò conviene arrivare a Poggio Mirteto di pomeriggio, fare un giro del borgo, andare a letto presto e regolare la sveglia alle cinque del mattino. Piazza Martiri della libertà, nella sua languida eleganza estiva, è più un lungo ovale alberato che una piazza vera e propria. Da un lato una chiesa barocca color panna, dall’altro un’austera cattedrale. Belle facciate e qualche chiazza di vegetazione. Da un muro quattrocentesco spunta un’imponente yucca. Ai tavolini del caffè Gentili potete assaggiare una cedrata, che è una bevanda a base di cedro calabrese, un agrume giallo, servita con ghiaccio. Un’estasi intensa e dissetante. Ne avrete bisogno.
Un’ultima cosa, indispensabile: una mappa dettagliata. Non è semplice trovarne in Italia e in campagna i sentieri sono poco segnalati. Per evitare le strade conviene scaricare una delle app per escursionisti in cui sono indicati i sentieri. Inoltre è meglio programmare la sera il tratto iniziale del percorso che farete il giorno successivo così, dopo la levataccia, quando vi chiuderete alle spalle la porta del bed & breakfast saprete dove andare.
Il coro delle cicale
Sgattaiolare fuori dalle mura medievali quando è ancora notte crea un senso d’intimità. Fortunatamente la giornata comincia in discesa. Le ombre lunghe degli alberi sono fresche e furtive, l’erba ancora bagnata di rugiada, l’aria rigenerante, e tra la vegetazione, che aspetta i raggi del sole, regna il silenzio. Raggi che non si fanno attendere. La luce delle sette del mattino taglia un canneto di bambù. Il caldo incalza. Un’enorme agave agita i suoi tentacoli verdastri. I girasoli alzano la testa. Nei frutteti le pesche cominciano ad accendersi.
Intorno alle 8.30, quasi fosse scattato un interruttore, partono le cicale. Una attacca con il suo stridulo frinire ritmico su un albero proprio sopra di noi, poi un’altra e un’altra ancora, finché l’assordante coro ipnotico si fonde nell’aria ormai rovente in un unico grande stordimento estivo. Camminiamo verso nord, in un’ampia valle ondulata, tra campi di stoppie bruciate, sorvegliati a vista dalle torri e dalle mura che spuntano sui versanti delle colline. Alla fine della valle c’è Terni, a due giorni di cammino, e da lì potete riprendere il treno per Roma. Ma se la voglia e l’energia non mancano, aggiungendo altri due giorni di cammino potete arrivare a Todi, passando per le rovine romane di Carsulae e la bella cittadina di Acquasparta. Aggiungendo altri due giorni e andando verso ovest arrivate a Orvieto. Oppure potete spingervi più a nord verso Perugia e l’alta valle del Tevere. Con la mia compagna abbiamo fatto questo percorso, tutto a piedi, in un lungo viaggio sulle orme di Giuseppe Garibaldi, che nel luglio del 1849, dopo la caduta della Repubblica romana, tentò con un’armata una marcia da Roma a Venezia. Questo tratto ci sembrava il più interessante e il meno noto.
La prima tappa mattutina è Cantalupo. Una massa confusa di pietre impilate che si erge in alto tra gli alberi nodosi. Il pendio è scandalosamente ripido. Ma il piacere di questi giorni sta proprio nell’intensità dei contrasti: prima il sudore e la fatica, poi il conforto offerto da ogni borgo, la fontana accanto alla porta antica, il fresco delle chiese e l’odore di resina sotto i pini. Per fortuna tra un paese e l’altro raramente bisogna camminare per più di tre ore. Si può arrivare nella piazza principale di Cantalupo in tempo per una spremuta, un cappuccino e un cornetto, sotto una tenda da sole, circondati da un tripudio di oleandri. Arrivando in auto non sarebbe stata la stessa cosa.
La nostra idea è di raggiungere Vacone, fermandoci per pranzo a Casperia, altra arrampicata tremenda verso un altro prodigio medievale, immobile nel bagliore azzurro della giornata. Poi la nostra app ci tradisce, portandoci su un sentiero che svanisce nel nulla. Torniamo sui nostri passi, ma è già sera quando ci inerepichiamo su una strada accidentata per i trecento metri di salita fino a Vacone. Lungo la salita c’è un abbeveratoio in pietra, incastonato nel dirupo vicino al sentiero, dove sono incise le parole di un’ode scritta più di duemila anni fa da Orazio per elogiare l’acqua zampillante dalla roccia: “O fons Bandusiae”. Quando passò Garibaldi, nel 1849, la fonte era secca e i suoi uomini, i muli e i cavalli impazzirono per la sete. Anche la nostra acqua è finita. Ma siamo quasi arrivati. La strada curva in vialetti di acciottolato, poi in un’ampia terrazza sotto un’antica torre dell’orologio: Vacone. Due donne sedute sul parapetto voltano le spalle a un panorama sterminato, stupendo. C’è un posto dove dormire?, chiediamo. No. C’è un bar? No. Davvero, neanche un bar? Un bar c’è, dicono, ma apre dopo cena. “Ci vanno gli uomini per giocare a carte”. C’è un piccolo negozio di alimentari.
Racconto questo episodio per avvertirvi che se arrivate a Vacone di sera dovete essere disposti a passare la notte all’aperto, a meno che non abbiate nello zaino una tenda leggera. Noi ne abbiamo una, ma Eleonora, la mia compagna, ha letto che queste colline sono abitate dai lupi, anche se in Italia da più di due secoli nessuno viene aggredito da un lupo. È più facile incontrare dei cani o dei cinghiali. Ma la fantasia gioca brutti scherzi. Ironiche e gentili, le due donne contattano amici e parenti. Qualcuno conosce qualcuno che ha un posto per la notte? Nel frattempo è tutto un viavai di bambini. L’alimentari offre birra e mozzarella. E finalmente si trova un bed & breakfast, ad altri quaranta minuti di cammino nella notte.
Ogni giorno, all’arrivo, vi conviene lavare subito i vestiti nel lavandino, così si asciugheranno durante la notte e all’alba saranno pronti. Alcune città offrono un intrattenimento serale. Carmina burana sui gradini del duomo. Un concorso di bellezza sotto un loggiato. Un mago. Un polistrumentista. E poi ci sono opere d’arte da ammirare lungo il cammino. Uno splendido san Sebastiano, rassegnato alle sue frecce, sopra l’altare di una chiesa in una stradina di acciottolato che porta a Configni. Ma questa non è una vacanza dedicata ad affreschi e monumenti. Ci si gode i cappellacci con radicchio e robiola dietro le tende a fili dell’unica osteria di Configni, e il profumo di lavanda e menta quando ci rituffiamo nella valle, l’eleganza dei giunchi e il blu dei fiordalisi, il raglio lontano di un asino.
Da Vacone a Terni, passando per Configni e la magnifica Stroncone, sono 27 chilometri sofferti e sudati, di una bellezza da togliere il fiato. C’è un ruscello da guadare, sotto i piedi si sentono le pietre limacciose. Nel caldo cocente di mezzogiorno, in una stradina che passa tra un ammasso di cespugli e rovi vicino a Coppe, potete imbattervi nel miraggio di un lavatoio, due lunghe vasche di pietra per lavare il bucato colme di acqua, freddissima. Se lo trovate, togliete calze e scarpe, sedetevi sul bordo e immergete i piedi. Una targa sul muro rivela che nel 1948 “per fatale disgrazia”, a diciott’anni, nel fiore della gioventù, qui morì Virgilio Giusti. Gli italiani amano queste tristi epigrafi commemorative. Un nome, una data, qualche parola. Epigrafi che tessono sopra il paesaggio una tela appiccicosa di sentimenti e ricordano, come dovrebbe fare l’intero viaggio, quanto si è fortunati a essere vivi in un mondo in cui ci sono l’Italia, l’estate e la libertà. ◆ eg
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Questo articolo è uscito sul numero 1374 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati