Davanti a lei, affaticandosi faticosamente a salire le scale, c’era una donna con un passeggino carico di borse e un bambino che strillava. I lavoratori diretti a casa le passavano accanto come salmoni senza darle una mano, accecati da visioni di cena o riposo. Il personale comatoso della metropolitana di Londra non pensava certo ad aiutarla. Neanche lei. Dieci anni prima, quando si era appena trasferita a Londra, l’avrebbe fatto. Impercettibilmente ma percettibilmente la città t’intossicava. Parcheggiare nei vialetti d’accesso degli sconosciuti, non ringraziare quando ti aprivano una porta, un omicidio. In qualche modo ti entrava dentro. Londra t’informava che non ottenevi niente in cambio di una vita da persona perbene, neppure un bicchiere d’acqua.
Non che comportarsi bene ti servisse a qualcosa, ma di solito era più facile e più divertente; e dopotutto qualunque criminale albanese o genocida ruandese di passaggio per Londra riceveva la tua stessa assistenza medica e aveva la precedenza nell’assegnazione di un alloggio.
Il personale della metropolitana di Londra non pensava certo ad aiutare la donna. Neanche lei. Dieci anni prima, quando si era appena trasferita a Londra, l’avrebbe fatto
Non volevi diventare il tipo di persona che non aiuta una madre esausta, però lo diventavi. Nessuno l’aveva aiutata quando ne aveva avuto bisogno. E ora i suoi muscoli di aiuto si erano atrofizzati. Le ragazze madri erano particolarmente irritanti per la loro disonestà. Pochissime di loro riuscivano a cavarsela. Spremevano amici e parenti come sanguisughe risucchiando favori e quattrini oppure si arrabattavano alla meno peggio, ma sostenevano di farcela.
Fuori, un tossico portoghese si era inginocchiato sul marciapiede, mentre un esorcista paffuto armato di Bibbia cantilenava insieme a due supplici di rinforzo e lo spruzzava di acqua santa. Schivando la cerimonia, lei si fece largo tra il nugolo di mendicanti, spacciatori, malviventi e pendolari rabbiosi di cui era fatta Brixton. Correva camminando. Tornare a casa era tutto quello che voleva. La forza del desiderio era quasi allarmante.
Aveva pensato di andarsene. Non aveva pensato quasi a nient’altro. E non ci aveva solo pensato. Domande di lavoro. Era convinta di aver mandato più domande di lavoro di qualunque altro essere umano. Un fiasco. Ne aveva scritte altre. Un fiasco.
Del resto, mentre lei sarebbe stata felice di lasciare Londra, il suo ragazzo non poteva. Harun lavorava come funzionario dell’informazione all’ambasciata turca, e proprio mentre si stava avvicinando alla fine del suo periodo di servizio, dopo tre anni, quando lei contava di fuggire, insegnare inglese, farsi una tintarella e una famiglia, avevano rotto. Sapeva che non si può avere tutto. Harun scoreggiava parecchio e doveva sempre essere infallibile sulle vicende internazionali, ma aveva senso dell’umorismo ed era puntuale. Ora lei era di nuovo alla mercé della vita notturna di Londra.
Cosa significava uscire di sera a Londra? Supplicare per essere ammessa in un locale da un imbecille con l’auricolare. Una volta dentro dovevi lottare per farti servire, e poi i tuoi soldi se ne andavano come se li stessi consegnando a dei banditi. Era riuscita a mettere insieme il deposito per il suo appartamento solo grazie all’eredità di sua nonna. Sua nonna non era ricca, ma non beveva, non fumava o non mangiava granché, non comprava granché, non andava al cinema e neppure da qualche altra parte. Giocava a bridge con dei vecchi amici e apparteneva a una generazione che lavorava oppure moriva di fame.
Ovunque andasse, in vacanza o per lavoro, era meglio. Dublino, Copenaghen, Istanbul, St Ives, San Pietroburgo, Palermo, un posto a caso. Era comunque meglio. Entravi in un negozio e il proprietario ti salutava invece di squadrarti per calcolare quanto avresti cercato di rubare. Tutti quelli che conosceva parlavano di lasciare Londra. Per un posto più calmo. Un posto più verde. Un posto con più sole. Un altro posto.
Avvicinandosi a casa sua, vide le luci nell’appartamento di Gloria al piano terra. Gloria, che aveva un dottorato sui quartieri poveri nei paesi poveri e un appartamento che rispecchiava la sua specializzazione. I suoi genitori pagavano le bollette, e Gloria faceva sesso rumorosamente con uomini imbarazzati che non si vedevano mai più di due volte.
Nell’appartamento al seminterrato c’erano i Cooks, una coppia anziana che viveva in quella casa da quarant’anni e annientava con disinvoltura tutti i miti sulla nobiltà della classe operaia bianca. Erano cupi, maleodoranti, sostenitori di ogni manifestazione di bruttezza. Vivere nella merda evidentemente non era un problema per loro, dato che non facevano nulla per l’immondizia alta fino alle caviglie ammucchiata davanti al loro portone. Il primo anno li aveva salutati ed era stata ignorata. Due volte, clandestinamente, disgustata dal lerciume, aveva raccolto i rifiuti intorno alla loro porta. Ma poi si era arresa. Londrizzata.
Il primo piano era Rolf. Un vecchio attore fallito che viveva da solo e non aveva amici che andavano a trovarlo perché era un miserabilista sgarbato costretto a letto; un miserabilista sgarbato costretto a letto, però, che era stato un miserabilista sgarbato molto prima di essere costretto a letto. Eppure non sarebbe mai stato uno di quei pensionati scoperti parecchio tempo dopo l’inizio della decomposizione, perché era troppo antipatico. Una processione di assistenti sociali saliva svogliatamente fino al suo appartamento, ghignanti ma affidabili.
Quando si era trasferita in quella casa aveva ascoltato educatamente Rolf che raccontava come era rimasto bloccato in Etiopia e aveva interpretato il lacchè in un film interrotto per mancanza di finanziamenti o che spiegava perché doveva tenere un tavolo da biliardo sul pianerottolo, un tavolo da biliardo di grandezza standard che ostacolava il passaggio degli altri condomini.
A suo favore va detto che Rolf almeno abitava al piano di sotto. Il suo bagno allagava sistematicamente l’appartamento di Gloria, ma lui non faceva niente per risolvere il problema. Era affascinante vedere come uno poteva non occuparsi affatto degli altri eppure avere qualcuno che si occupava di lui. Un’estate in cui aveva lavorato in un gigantesco campeggio in Normandia si era accorta che ai clienti perbene capitavano gli animatori da incubo e agli animatori perbene capitavano i clienti da incubo. Invariabilmente agli animatori da incubo non capitavano mai i clienti da incubo proprio come agli animatori perbene non capitavano mai i clienti perbene.
Poi, al secondo piano, vide barlumi di luce nel suo appartamento. Pensò che la mattina uscendo doveva aver lasciato una luce accesa, ma non riuscì a reprimere un moto di ansia.
Quella era una città dove si faceva di tutto per garantire la libertà degli scassinatori.
Anche se nessuno la stava guardando o sarebbe riuscito a scorgerla nell’oscurità, si sentì ridicola mentre armeggiava con le chiavi nella serratura in alto del portone. La serratura non le aveva mai dato problemi prima, ma per quanto cercasse d’infilarla, la chiave si rifiutava di girare. Dopo aver tentato inutilmente per vari minuti le venne in mente che dovevano aver cambiato le serrature, visto quanto la chiave si ostinava a non girare. C’era stato un furto durante il giorno? Se le serrature erano state cambiate perché non c’era un avviso? Decise di suonare al campanello di Gloria per capire cosa stava succedendo. Al citofono rispose una voce maschile.
“Buonasera”, disse. “C’è Gloria, per favore?”
“Non c’è nessuna Gloria qui”.
Si era trasferita? Gloria viveva già in quella casa quando era arrivata lei, ma non erano mai andate d’accordo. Aveva conosciuto Gloria un quarto d’ora dopo aver colpito con una rivista un grande ragno peloso e aver fatto assaggiare a un altro ragno peloso incredibilmente grande le novecentosessantasei pagine dell’elenco telefonico. Era molto agitata perché erano troppo grandi per essere ragni di Londra.
“Sono Gloria. Non hai visto due ragni grandini, vero?”. Gloria, emerse, allevava ragni. Lei aveva sempre pensato che fossero i maschi vuoti a collezionare creature esotiche o velenose per rendersi più interessanti o sentirsi potenti perché sotto il letto avevano una delle uniche cinque rane corazzate esistenti al mondo, come le aveva raccontato un corteggiatore in un pub.
Lei aveva indicato a Gloria la poltiglia di ragno. “Kelvin. Melvin”, era stato il necrologio di Gloria. “Li faccio uscire per fargli fare un po’ di movimento”, aveva spiegato quando le aveva chiesto come erano scappati. L’odio che Gloria le aveva scagliato addosso era stato del tutto ingiustificato e squilibrato, e i loro rapporti non erano molto migliorati.
“Hanno cambiato le serrature?”, chiese. “Abito nell’appartamento al secondo piano e non riesco a entrare”.
“Nessuno ha cambiato le serrature”, ribadì la voce maschile.
“Può farmi entrare per favore?”.
“Non la conosco”.
Il citofono fece un clic da cornetta riattaccata e conversazione finita. Lei premette gli altri pulsanti, ma non rispose nessuno. Nel buio riusciva solo a intuire che i nomi sui campanelli del citofono sembravano diversi, ma non riusciva a distinguere le lettere. Si chiese che fare. Aspettare che entrasse o uscisse qualcuno? Chiamare un fabbro? Faceva freddo.
Mentre gironzolava sul vialetto d’accesso, si voltò verso il suo appartamento e vide una donna alla finestra che la guardava. Sconvolta, non seppe neppure come reagire. L’intrusa era una donna oltre la mezza età, difficilmente una ladra ma molto verosimilmente malata di mente. L’intrusa era imperturbabile, e la osservò per qualche attimo prima di ritirarsi lentamente nelle distese interiori dell’appartamento.
Lei suonò il suo citofono: “Chi è lei?”.
“Scusi?”.
“Cosa ci fa nel mio appartamento?”.
“Non so chi sta cercando, ma questo è l’appartamento del secondo piano”.
“Lo so. Ci vivo da sette anni”.
“No. Ci vivo io da sette anni”.
“Se non mi fa entrare, chiamo la polizia”.
“Se non se ne va, chiamo io la polizia”.
“Questa storia è durata anche troppo”.
“Questa storia è durata anche troppo. Se è il suo appartamento, perché io sono qui dentro e lei è là fuori?”. Un altro clic di conversazione finita.
Era uno scherzo ben congegnato? Un magheggio della televisione? Si guardò intorno per individuare persone nascoste e sghignazzanti. Se era uno scherzo avrebbe architettato una vendetta terribile. Tirò fuori il telefono dalla borsa ma, come se non bastasse, non funzionava.
Schiumando di rabbia, si diresse a grandi passi verso il telefono a pagamento più vicino e chiamò la polizia. Dopo aver aspettato per diversi minuti, spiegò che c’era qualcuno nel suo appartamento. Poi andò avanti e indietro sul vialetto d’accesso per venti minuti, accanto alla vasca da bagno arancione che stava lì da mesi e sicuramente sarebbe rimasta lì per altri mesi. Alla fine la polizia le sfrecciò davanti a sirene spiegate. Qualche minuto dopo tornarono indietro e si fermarono nel suo vialetto. Due agenti emersero dall’auto con la cautela che gli agenti dimostrano nel caso qualcuno cominci a sparargli addosso. Uno era una donna che doveva essere il risultato di qualche mania per le pari opportunità, quasi una nana, grassoccia e con uno sguardo che diceva che non riusciva a capacitarsi di essere stata accettata per quel lavoro. L’altro era un veterano torreggiante largo come un muro a cui lei spiegò nuovamente la situazione.
I poliziotti fecero scendere la donna dal suo appartamento. Si chiamava signora Gardiner. C’era il suo nome scritto sul campanello. La signora Gardiner esibì rapidamente la corrispondenza delle aziende di servizi pubblici che la insediavano come legittima occupante. L’uomo misterioso dell’appartamento al piano terra sostenne che la signora Gardiner viveva nel palazzo da anni. Salirono nell’appartamento – il biliardo di Rolf era svanito – dove la sua affermazione che le tende nella stanza da letto sul retro erano rosse si rivelò sbagliata. Tutte le sue cose erano scomparse. L’appartamento era stato completamente rinnovato e ristrutturato. Le chiesero di fornire una prova qualunque del fatto che quella era la sua abitazione. Lei avrebbe potuto giurare di avere una lettera della sua banca nella borsa, ma era sparita. La signora Gardiner ora la studiava con la compassione riservata ai malati di mente che hanno appena fatto qualcosa di terribile contro se stessi. Il poliziotto non avrebbe potuto essere più comprensivo quando le si riempirono gli occhi di lacrime.
“Vorrei aiutarla”, disse il poliziotto. “Ma vede anche lei la situazione. Questa signora può dimostrare che abita qui. Lei no. Le sue chiavi non aprono nessuna delle serrature. I vicini dicono di non averla mai vista. Prende dei farmaci?”. La signora Gardiner commentò: “Ha bisogno di aiuto”.
La rabbia e la stanchezza la spinsero ad andarsene. Non riusciva a sopportare come la guardavano. Non sapeva cosa fare. Andò all’edicola poco lontano. Era gestita da una donna asiatica alta sì e no quanto il bancone, che la salutò.
“Lei mi conosce, vero?”.
“Certo”, replicò l’edicolante, ma appena rispose lei si rese conto che avrebbe detto la stessa cosa a un perfetto sconosciuto.
“Sa cosa sta succedendo in questa strada?”.
“Cosa sta succedendo in questa strada? Succede sempre qualcosa qui”.
Cominciò meccanicamente a camminare verso la metropolitana. Ci avrebbe pensato il giorno dopo. Avrebbe passato la notte da qualcuno e si sarebbe occupata della questione il giorno dopo, ma nessuno dei suoi amici viveva nella zona. Provò di nuovo il suo telefono: continuava a non funzionare. Raggiunto l’unico telefono a pagamento funzionante, provò con i suoi amici. Al primo tentativo non ottenne risposta. Poi quando chiamò Don, che era quasi l’ultima persona sul cui divano avrebbe voluto dormire, rispose una voce che non era di Don. “Potrei parlare con Don?”.
“Ha sbagliato numero”.
Fece di nuovo il numero, lentissimamente per essere sicura di fare quello giusto, ma ottenne solo la voce che non era di Don. Riprese la metropolitana per Victoria e andò nel primo alberghetto che sembrava decente. Voleva solo raggomitolarsi. La receptionist fece passare la sua carta di credito e poi disse che non funzionava. Aveva solo poche sterline in contanti, perciò andò al bancomat all’angolo, provò a digitare il codice e al terzo tentativo la macchina ingoiò la sua carta. Ormai erano passate le undici e si rese conto che puzzava molto. Fece un altro giro di telefonate. I numeri non erano raggiungibili, non c’era nessuno oppure una voce sgarbata negava l’esistenza della persona che stava cercando. Finalmente tornò in ufficio sperando di poterci passare la notte, ma quando la chiave si spezzò nella serratura non si stupì.
C’era solo un’ultima telefonata da fare, quella che temeva di più. Quando una strana voce rispose al numero dei suoi genitori, capì che erano scomparsi anche loro.
Prese l’ultimo treno per tornare a Brixton, e nel sottopassaggio tra i due binari si afflosciò e dette sfogo alle lacrime. ◆ gc
Tibor Fischer è uno scrittore britannico di origine ungherese. Il suo libro Come governare il mondo uscirà in Italia il 24 febbraio (Marcos y Marcos, traduzione di Marco Rossari). Questo racconto è uscito sull’antologia London, city of disappearances con il titolo Crushed mexican spiders.
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Questo articolo è uscito sul numero 1397 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati