I delegati che parteciperanno alla conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop30) che si aprirà il 10 novembre a Belém, in Brasile, non dovranno fare molta strada per trovare il vuoto che ha sostituito la foresta amazzonica. Dirigendosi a sud lungo l’autostrada Br-010 verso l’interno dello stato del Pará, incontreranno presto vasti spazi aperti circondati da una densa foresta tropicale, dove mandrie di zebù pascolano tra gli arbusti o si stringono all’ombra dei pochi alberi rimasti.

In teoria fermare la deforestazione dell’Amazzonia sarebbe una delle soluzioni più convenienti per limitare il cambiamento climatico. Nel 2018 l’“Amazzonia legale”, come il Brasile chiama la regione amzzonica, che comprende nove dei suoi stati e il 60 per cento dell’intera foresta (il resto si trova in Perù, in Colombia e in altri paesi confinanti), ha emesso gas serra equivalenti a 33 tonnellate di CO2 per ognuno dei 28 milioni di abitanti della regione. Quasi tutte le emissioni sono state provocate dalla distruzione della foresta per fare spazio all’allevamento e all’agricoltura. Il livello pro capite è paragonabile a quello del Qatar, un paese reso ricco dalla produzione di enormi quantità di petrolio e gas.

I residenti dell’Amazzonia legale, invece, traggono scarsi benefici dalle emissioni. Il pil pro capite della regione non supera i 5.900 dollari, mentre in Qatar raggiunge i 76mila dollari. “Nessun paese ha prodotto così tante emissioni pro capite creando così poca ricchezza”, sottolinea Beto Veríssimo, del centro studi Imazon, con sede a Belém. Distruggere l’Amazzonia non è soltanto dannoso per l’ambiente, ma anche poco redditizio sul piano economico.

Questo suggerisce uno scambio. L’Amazzonia, da cui gli abitanti della zona ricavano a mala pena ciò che serve per sopravvivere, ha un valore incalcolabile per il resto del mondo, dato che trattiene l’equivalente di cinque anni di emissioni globali di CO2. È utile anche al Brasile. Gli alberi prelevano l’acqua attraverso le radici, la usano per far circolare le sostanze nutrienti e poi la lasciano evaporare nell’atmosfera attraverso le foglie. Grazie ai venti da sudovest, i quattrocento miliardi di alberi dell’Amazzonia creano correnti cariche di umidità che dopo aver toccato le Ande virano verso sud e scaricano pioggia sulle aree agricole del paese. Senza questo meccanismo di trasporto dell’acqua, molti dei terreni più fertili del Brasile e del Sudamerica sarebbero aridi.

Se la foresta fosse distrutta, svanirebbe qualsiasi possibilità di raggiungere gli obiettivi fissati dall’accordo di Parigi del 2015, che prevedono di tenere l’aumento delle temperature globali sotto i due gradi rispetto alla media dell’epoca preindustriale. Anche il settore agroalimentare brasiliano, che è la parte più importante di un’economia basata sulle esportazioni, appassirebbe senza questo acquedotto atmosferico gratuito. Per prevedere se e quando la foresta sparirà non basta considerare il tasso di deforestazione attuale. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto circa un quinto dell’Amazzonia, ma gli scienziati temono che si stia per raggiungere un punto di non ritorno, oltre il quale il sistema di trasporto dell’acqua non sarà più in grado di sostenere la foresta né tantomeno gli agricoltori brasiliani.

Pagati per non tagliare

Valutare la foresta come un bene economico, trattando l’immagazzinamento del carbonio, la regolazione del ciclo dell’acqua e la biodiversità come servizi resi invece che come regali, potrebbe rendere la sua conservazione più razionale e i suoi abitanti più ricchi. I benefici sono enormemente preziosi. Secondo uno studio recente l’Amazzonia genera un valore di 40mila dollari per chilometro quadrato ogni anno, con un valore di mercato stimato in tremila miliardi di dollari, circa il 50 per cento in più rispetto al gigante del commercio online con cui condivide il nome, Amazon. Mantenerla intatta costa molto meno.

Gli economisti Juliano Assunção e José Alexandre Scheinkman sostengono che un prezzo di 25 dollari per ogni tonnellata di CO2 immagazzinata sarebbe sufficiente a eliminare l’allevamento, dato che i proprietari guadagnerebbero di più riforestando le loro terre. In confronto agli sforzi dei paesi ricchi per contrastare il cambiamento climatico sarebbe un affare. Nel sistema europeo di scambio delle emissioni, per esempio, il permesso di emettere una tonnellata di CO2 costa 80 dollari.

Alla conferenza di Belém il Brasile presenterà una versione di questo sistema, la Tropical forests forever facility (Tfff). Il fondo dovrebbe essere finanziato da governi, fondi sovrani e organizzazioni filantropiche con una cifra prevista di 25 miliardi di dollari (il governo brasiliano ha promesso di versarne uno). Il capitale dovrebbe essere usato come leva per raccogliere fondi sui mercati internazionali e investirli in titoli aziendali e di paesi emergenti ad alto rendimento, per ottenere 125 miliardi con cui ricompensare gli stati che limiteranno la deforestazione a meno dello 0,5 per cento all’anno. Il rispetto di questa condizione sarà verificato attraverso le immagini satellitari. Se la copertura arborea scomparirà più velocemente, gli stati non riceveranno nulla. Un quinto dei versamenti dovrebbe andare alle popolazioni indigene o alle “comunità tradizionali”. Secondo il Brasile, se tutto andrà bene la Tfff pagherà circa quattrocento dollari per chilometro quadrato di foresta ogni anno.

Un’area disboscata nello stato del Pará, in Brasile, 13 giugno 2025  (Carlos Fabal, Afp/Getty)

Probabilmente queste stime sono troppo ottimistiche. I paesi ricchi stanno tagliando gli aiuti allo sviluppo e sono minacciati dall’ascesa della destra antiecologista. Ai vertici sul clima sono già stati lanciati nuovi fondi che sono poi rimasti impantanati in problemi di gestione e messa in atto. Si fanno delle promesse, ma poi i fondi non arrivano. I capitali della Tfff dipendono da investimenti rischiosi. Alcuni titoli nel suo portafoglio andranno in insolvenza.

E anche se dovesse essere un grande successo, la Tfff non basterà a coprire il costo di proteggere l’Amazzonia. La regione ha bisogno di un modello economico che possa tutelare la foresta e allo stesso tempo portare prosperità ai suoi abitanti.

La frontiera verde

Vista dallo spazio, la deforestazione sembra una lisca di pesce. Le autostrade sono la spina dorsale. Prima dell’inaugurazione dell’autostrada transamazzonica nel 1972, meno dell’1 per cento dell’Amazzonia era stato disboscato. L’infrastruttura faceva parte di una precisa strategia della dittatura militare per cambiare le cose. Il generale Emilio Médici, allora presidente, partecipò all’inaugurazione, durante la quale fu cerimoniosamente abbattuto un albero di noce amazzonico. Una targa posizionata accanto al ceppo descrive l’opera come “una rampa di lancio storica verso la conquista del gigantesco mondo verde”.

La dittatura considerava l’Amazzonia una frontiera indifesa e una landa improduttiva: garantirvi l’accesso avrebbe permesso al Brasile di diventare più sicuro e ricco. Lo slogan dell’epoca era: “Una terra senza persone per persone senza terra”. I coloni furono incoraggiati a trasferirsi e ricevettero sgravi fiscali, sussidi e altri incentivi per aprire allevamenti. Gli indigeni che abitavano già la foresta furono uccisi o allontanati con la forza.

Circa la metà delle terre deforestate è costituita da “pascoli degradati”, ovvero terre abbandonate dove il suolo è stato privato dei nutrienti

Le spine che si diramano dalla colonna vertebrale dipendono da meccanismi perversi. Sono opera di ladri di terra chiamati grileiros (da grilos, grilli), dalla pratica di mettere insetti in una scatola insieme alle concessioni false per “invecchiare” i documenti e renderli più credibili. Piazzare le mandrie sulle terre occupate ha un effetto simile, dato che la costituzione brasiliana prevede una protezione speciale per la “proprietà produttiva”. L’allevamento è solo un trucco. Nel Pará, storica frontiera della deforestazione, una tenuta produce meno di cento unità bovine (una misura standard della carne ricavata dal bestiame) per chilometro quadrato. Le migliori aziende brasiliane raggiungono le 400 unità bovine.

Gli economisti parlano di margini di produzione “estensivi” e “intensivi”. Si può pensare alla questione in termini di lavoro: un’azienda che assume nuovi dipendenti aumenta la produzione in modo estensivo, mentre una che ottiene di più dai dipendenti che ha già la aumenta in modo intensivo. Lo stesso vale per i terreni. L’allevamento in Amazzonia si basa sul modello estensivo: usa molta terra, ma in modo poco intensivo. Questo approccio è stato incoraggiato dalla dittatura militare, che puntava a occupare la maggiore quantità di foresta possibile, e dagli economisti, convinti che il vantaggio comparato del Brasile nel commercio stesse principalmente nella sua enorme superficie e non nella tecnologia o nelle competenze.

Eppure, fin dagli anni settanta e dalla fondazione dell’agenzia per la ricerca Embrapa (sotto il governo dello stesso generale Medici) il Brasile è diventato uno dei primi esportatori agricoli del mondo, applicando le conoscenze scientifiche per incrementare i margini intensivi del settore. I ricercatori dell’Embrapa hanno sviluppato varietà di soia, mais e cotone più adatte ai climi tropicali e sono riusciti a coltivare le terre acide del Cerrado (un ecosistema simile alla savana che confina con l’Amazzonia) spargendo roccia calcarea sul suolo. Oggi la maggior parte degli economisti brasiliani ritiene che l’aumento della produzione agricola, cresciuta di otto volte dagli anni settanta, ha richiesto il consumo di pochissima terra: i progressi sono stati ottenuti soprattutto riducendo la superficie necessaria per ogni unità di produzione agricola.

Intensificare l’allevamento nelle aree già deforestate dell’Amazzonia, usando tecniche moderne per migliorare la resa permetterebbe al Brasile di aumentare le esportazioni lasciando abbastanza spazio per far ricrescere la foresta. Flávio Carminati, allevatore e coltivatore di soia del Pará, sottolinea che un modello più intensivo richiede più manodopera. Sostiene che la sua azienda agricola, in cui usa erba geneticamente modificata proveniente dai Paesi Bassi per far crescere più rapidamente un numero maggiore di bovini, è più efficiente e dà lavoro a più persone rispetto a quelle vicine, meno attente alle innovazioni. In passato l’espansione agricola è stata così inefficiente e ha distrutto così tanta foresta che oggi nell’Amazzonia legale lo sviluppo non avverrebbe a spese della natura.

Attualmente circa la metà delle terre deforestate è costituita da “pascoli degradati”, ovvero terre abbandonate dove il suolo è stato privato dei suoi nutrienti. Un altro 28 per cento è usato per allevamenti inefficienti, mentre il resto è dedicato ad altre attività agricole. Tecniche più moderne per l’allevamento nei pascoli degradati permetterebbero al paese di aumentare le esportazioni di carne e lascerebbero terreni per la riforestazione. Per esempio la Mombak, una società del settore dei crediti di emissione che ha tra i suoi clienti la Microsoft e Google, ripristina la qualità del suolo nei pascoli degradati. Questo accelera la ricrescita della foresta e aumenta la quantità di carbonio sequestrata.

Bestiame riciclato

Tuttavia migliorare la produttività agricola non significa necessariamente salvare la foresta. Anche se i progressi tecnologici permettono di usare meno terra per produrre di più, a volte le forze della domanda e dell’offerta fanno in modo che l’aumento dell’efficienza generi semplicemente un aumento del consumo. Se è possibile produrre di più usando meno risorse, allora perché non produrre molto di più usando più risorse? Una maggiore resa per chilometro quadrato è un incentivo alla deforestazione. L’intensificazione riduce lo sfruttamento delle terre solo se le persone danno un valore al fatto che su quelle terre ci sia una foresta.

I diritti sulla proprietà e i meccanismi per farli rispettare possono aiutare. “Dove c’è un vuoto, si creano opportunità”, dice Jair Schmitt dell’Ibama, la polizia ambientale del Brasile. A causa delle dimensioni e dell’isolamento dell’Amazzonia legale, lo stato brasiliano non può essere fisicamente presente su tutto il territorio. Schmitt la paragona al Far west americano. Quindi per far rispettare la legge l’Ibama si affida non solo agli agenti, ma anche alle immagini satellitari, facendo controlli incrociati con le informazioni sulla proprietà terriera, le licenze forestali e altri documenti per stabilire se un appezzamento è stato deforestato illegalmente. Se la polizia stabilisce che è stato commesso un crimine ambientale, impone un “embargo”: quel terreno non può più beneficiare dei programmi che concedono agli agricoltori prestiti a tassi contenuti.

I brasiliani progressisti sono preoccupati perché Lula e Marina Silva stanno invecchiando, e nel 2026 sarà eletto un nuovo presidente

Imazon stima che non ci siano informazioni sulla proprietà del 28 per cento dell’Amazzonia brasiliana. Tra il 2008 e il 2012 il 40 per cento della deforestazione si è concentrato nelle aree non registrate, che di solito sono sottoposte alla giurisdizione dei governi statali e non di quello federale, a cui risponde l’Ibama. Altre agenzie federali si occupano delle riserve indigene e ambientali. E la polizia statale e quella municipale hanno priorità diverse. Le zone sottoposte a embargo possono riciclare il loro bestiame, vendendolo a intermediari che nascondono la proprietà prima di mandarlo negli allevamenti per l’ingrasso. I mattatoi hanno difficoltà a verificare tutti i passaggi della catena, che spesso coinvolge parecchie aziende.

Ma anche se non è perfetto, il sistema funziona. Tra il 2004 e il 2012, durante i primi due mandati dell’attuale presidente Luiz Inácio da Silva detto Lula, la deforestazione si è ridotta dell’80 per cento. Quando i politici hanno allentato la pressione, o hanno apertamente incoraggiato la deforestazione, come nel caso dell’ex presidente di estrema destra Jair Bolsonaro, i numeri sono tornati a salire, ma senza mai raggiungere i livelli della fine degli anni novanta, anche grazie alla proliferazione di aree protette e all’aumento di terre affidate alle comunità indigene.

Il World resources institute (Wri), un gruppo di pressione con sede a Washing­ton, calcola che l’area controllata dalle popolazioni indigene in Brasile è passata dai 75mila chilometri quadrati del 1985 agli 1,1 milioni del 2017, cioè da meno dell’1 per cento del paese a quasi il 13 per cento. Nello stesso periodo, le aree protette sono passate da 130mila chilometri quadrati a 1,3 milioni. In totale è un’area grande quando la Repubblica Democratica del Congo, che oggi ha chiari diritti di proprietà ed è priva delle ambiguità che facilitano l’accaparramento delle terre.

Formiche alla citronella

Ora che buona parte dell’Amazzonia è nelle mani delle persone che la abitano, il prossimo passo è permettergli di usarla in modo redditizio. Nel gergo dell’economia ambientalista si parla di “monetizzare i servizi dell’ecosistema”, un’espressione che si riferisce ai benefici economici che la natura offre gratuitamente all’umanità. Per quanto riguarda l’Amazzonia, questi benefici si dividono in tre categorie: il sequestro di miliardi di tonnellate di CO2, la regolazione di grandi flussi d’acqua e la funzione di serbatoio della biodiversità, cioè ospitare milioni di specie che non esistono in nessun altro luogo del pianeta.

Convincere il resto del mondo a pagare per la cattura di CO2 garantita dall’Amazzonia è piuttosto complicato. Anche se non riguarda esplicitamente la tassazione della CO2, la Tfff rappresenta il tentativo più promettente in questo senso. Monetizzare i servizi idrici dell’Amazzonia, invece, comporterebbe soprattutto pagamenti interni al Brasile. Il flusso d’acqua attraverso l’Amazzonia genera una quantità di energia idroelettrica sufficiente a coprire due terzi del fabbisogno del paese.

Secondo uno studio dell’economista Rafael Araujo in via di pubblicazione, questo permette ai brasiliani di risparmiare 660 milioni di dollari all’anno in costi per l’elettricità. Inoltre contribuisce a irrigare gratuitamente i terreni agricoli del paese, consentendo agli agricoltori di risparmiare una fortuna. Assegnare un prezzo equo a questi benefici indiretti permetterebbe di ricompensare le aree che proteggono la foresta. I costi potrebbero essere scaricati sui consumatori finali della soia brasiliana, molti dei quali sono in Cina.

“Ci stiamo concentrando sulla bioeconomia”, spiega la ministra dell’ambiente brasiliana Marina Silva. Questo termine si riferisce allo sfruttamento sostenibile della biodiversità della foresta, combinando la scienza moderna e le conoscenze tradizionali. I profitti derivati da prodotti come le bacche di açaí, il frutto di una palma usato nella cucina alla moda, dipendono dalla protezione della foresta. Altri alberi forniscono nutrienti e sostengono gli insetti impollinatori.

Alex Atala, uno chef di São Paulo, sottolinea che l’Amazzonia è grande il doppio dell’Unione europea e ospita una varietà di specie molto più ampia. Le caratteristiche delle vigne francesi producono sapori apprezzati dagli esperti, e lo stesso vale per i formaggi. Secondo Atala l’Amazzonia dovrebbe fare lo stesso. Nel suo ristorante, lo chef serve una specie di formica che ha un gusto simile alla citronella. La foresta pluviale ha regalato al mondo la cioccolata e il lattice. Quali altri piaceri nasconde?

Effetto Lula
Deforestazione nell’Amazzonia brasiliana, migliaia di chilometri quadrati all’anno (Prodes/Terra Brasilis)

L’Embrapa, che finora ha cercato soprattutto di massimizzare la resa di ogni unità di terra, sta cominciando ad abbinare la sostenibilità alla produttività. I suoi ricercatori promuovono nuove tecniche di agroforestazione e modelli di allevamento che preservano più alberi e ripristinano i nutrienti nel suolo. Questi metodi imitano la foresta pluviale, mescolando açaí, cacao, pepe nero e diverse varietà di alberi in modo che le colture che tollerano l’ombra possano prosperare sotto le chiome più alte, aggiungendo materia organica e sviluppando radici più profonde. Queste specie possono essere piantate anche nei pascoli degradati, incrementandone la produttività e la biodiversità e immagazzinando molto più carbonio rispetto agli allevamenti. Ma i nuovi metodi richiedono forti investimenti iniziali, che sono difficili da sostenere per i piccoli agricoltori in un paese dove i tassi di interesse sono molto alti. Potrebbero volerci parecchi anni prima che mettano radici.

Due economie

La foresta ha due economie distinte, dice Eduardo Amaral Haddad dell’università di São Paulo. Una si basa sulla produzione di alimenti come le bacche di açaí, l’altra sulla fornitura di servizi che portano benefici al mondo intero. In confronto a questi servizi, il valore della bioeconomia sarà sempre irrisorio. I delegati della Cop30 mangeranno frutti tropicali tra un incontro e l’altro e sorseggeranno una birra all’açaí nei bar alla moda nei vecchi magazzini portuali ristrutturati, ma il resto del mondo è interessato all’Amazzonia soprattutto per il sequestro delle emissioni. Nel 2020 il Wri stimava che la bioeconomia dell’Amazzonia valesse due miliardi di dollari, un’inezia rispetto ai 120 miliardi all’anno che la foresta genera assorbendo carbonio. Ma le due economie possono coesistere, e i profitti dell’açaí potrebbero colmare il divario tra il prezzo necessario di 25 dollari per tonnellata di carbonio e i fondi che la foresta riceverà dalla Tfff, che probabilmente saranno inferiori.

Assunção e Scheinkman ritengono che il Brasile storicamente abbia assegnato alla foresta un valore di sei dollari per tonnellata di CO2 immagazzinata ogni anno. La stima è basata sul fatto che il paese non ha deforestato quanto avrebbe potuto prima del 2008, quando Norvegia e Germania hanno cominciato a pagare il governo brasiliano attraverso l’Amazon fund perché non lo facesse. Il valore che i brasiliani assegnano oggi all’Amazzonia è probabilmente più alto. Il governo ha dichiarato che eliminerà del tutto la deforestazione entro il 2030.

I brasiliani progressisti sono preoccupati perché Lula e Marina Silva stanno invecchiando, e perché devono fare affidamento su un parlamento dominato dai loro avversari. Nel 2026 il Brasile eleggerà un nuovo presidente. Nessun altro governo ha ottenuto risultati anche lontanamente paragonabili a quelli di Lula e Silva, che è stata ministra dell’ambiente anche durante i primi due mandati del presidente. Che il resto del mondo si decida a pagare per proteggere l’Amazzonia o no, solo i brasiliani hanno il potere di conservare il loro gigantesco mondo verde. ◆ as

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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati