Il 24 marzo 2020, la mattina dopo che in India era stato proclamato il lockdown nazionale, mi sono affacciata alla finestra: Mumbai, una delle città più ipercinetiche del pianeta, era trasformata dal silenzio. All’incrocio sempre intasato davanti al mio complesso residenziale non c’era la solita calca. La grande stazione della metropolitana in costruzione sembrava ancora più grande. Anche la rete ferroviaria suburbana, arteria vitale della città, era stata interrotta. In cielo non volava un aereo. Non si sentivano i rumori dei venditori ambulanti, le canzoni del cinema, i trapani, le campane, i clacson. Ogni tanto suonava la sirena di un’ambulanza. Forse la parte meno familiare del paesaggio era proprio il silenzio.
L’essere umano è affascinato dalle rovine, ma ciò che stavamo osservando durante il lockdown non era una città in rovina. Era soprattutto la nostra assenza. È stato così in tutto il mondo, ma a Mumbai, metropoli tentacolare e capitale finanziaria dell’India, la pandemia ha avuto un impatto del tutto particolare, con conseguenze enormi. Dobbiamo ancora capirne molte. Nelle tre settimane di durissimo confinamento, poi prolungate a tre mesi, milioni di residenti hanno guardato le ossa nude della megalopoli.
Il senso di vuoto che si è avvertito a Mumbai è unico al mondo. Per capirlo basta pensare a come erano piene le strade prima. All’ultimo censimento nazionale, pubblicato nel 2011, la città contava 12 milioni di abitanti, un numero che da allora si stima sia salito a quasi venti milioni. Le persone che compongono questa popolazione (189mila per chilometro quadrato) vivono strette le une alle altre in appartamenti di lusso e grattacieli, case unifamiliari e bassifondi. Queste forti disuguaglianze, unite a una densità di popolazione tra le più alte al mondo, si traducono in pochi spazi aperti (1,23 metri quadrati a persona): le strade, le vie, i marciapiedi e i vicoli della città assolvono a varie funzioni e subiscono continue trasformazioni durante il giorno e la notte.
A Mumbai le strade sono spazi per il lavoro e il tempo libero, per feste e raduni. Si prega nei templi lungo le strade, si leggono i giornali nelle biblioteche, si chiacchiera mentre ci si fa tagliare i capelli all’aperto o si beve il tè alle bancarelle. Le donne escono dalle loro piccole case per fare una pausa. I bambini giocano quando si ferma il traffico. Per i circa 57mila senzatetto in città (secondo stime non ufficiali sarebbero quasi 200mila), il marciapiede è casa. Milioni di pendolari passano – o meglio, passavano – ore per le strade soffocate dal traffico.
Quella mattina tutto questo mancava. Era come se le persone e le attività che popolavano le strade fossero semplicemente svanite. Ovviamente, non era così: erano semplicemente altrove.
L’India è entrata in lockdown con poche ore di preavviso, nonostante un tasso di contagio relativamente basso, con circa cinquecento casi segnalati a livello nazionale. Sono stati fermati autobus, treni e aerei. Praticamente siamo rimasti tutti bloccati dov’eravamo. Dopo due mesi di lockdown nel paese c’erano più di 5.400 morti e 190.600 contagiati, il 20 per cento dei quali erano a Mumbai. La città era il centro dell’epidemia. Il sistema sanitario pubblico della città, già fragile, era stato travolto.
Su internet si vedevano immagini idilliache della natura e di uccelli e altri animali che vagavano per le città. Dalla mia finestra, l’orizzonte ha cominciato a illuminarsi di tramonti abbaglianti. A volte, grazie all’aria relativamente priva di smog, riuscivo perfino a scorgere il baluginio del mare. Al telefono tutti mi mettevano in guardia dai pericoli dell’“esterno”. In quei primi giorni, ogni nuovo caso era motivo di preoccupazione. Un’amica di famiglia mi ha chiamato da Calcutta, a quasi duemila chilometri di distanza, per avvertirmi di non uscire: le avevano girato un messaggio su WhatsApp che parlava di un medico che era risultato positivo in una zona vicina.
In tutta la città ho visto aree transennate con barriere di bambù e striscioni sventolanti che le dichiaravano chiuse. Mumbai è una città di vicinanza forzata. Private del rumore di fondo, le divisioni socioeconomiche sono diventate più chiare, come i confini impliciti della città: i quartieri in cui le auto di pattuglia della polizia passano via o rallentano; i confini delle comunità recintate o i grandi complessi residenziali come il mio, costruiti per l’esclusività e l’autosegregazione, con alte mura e guardie di sicurezza che le circondano.
Dato il rigore del lockdown, uscire anche solo per procurarsi l’essenziale era un compito difficile. I negozi di alimentari avevano orari di apertura ridotti. Con il blocco delle catene di approvvigionamento, gli scaffali hanno cominciato a svuotarsi. Le code si sono allungate, serpeggiando tra i cerchi bianchi dipinti sui marciapiedi per assicurare il distanziamento sociale.
Abituata a ricevere regolarmente beni e servizi, Mumbai è stata svuotata anche della sua forza lavoro. I campanelli delle porte che di solito suonavano continuamente annunciando l’arrivo di domestici, fattorini e tecnici si sono ammutoliti. La gente che mandava avanti la città, quella che con i suoi muscoli la faceva muovere, se n’è andata via o è stata costretta all’immobilità.
Il lockdown ha lasciato milioni di lavoratori migranti senza mezzi di sostentamento. La conseguenza immediata è stata un esodo straziante, con famiglie che dopo aver radunato i loro averi hanno cercato di tornare a casa a piedi, spesso a centinaia di chilometri di distanza. Quasi duecento lavoratori sono morti in incidenti stradali, altri hanno affrontato enormi difficoltà. Sedici persone sono state falciate da un treno merci mentre dormivano sui binari della ferrovia, stremate dal viaggio. La gigantesca diaspora è stata accompagnata da immagini terribili e impossibili da dimenticare, che hanno svelato con chiarezza implacabile quanto queste persone fossero sacrificabili e quanto poco spazio ci fosse per loro nell’espansione incontrollata delle città in cui lavoravano. Oltre, ovviamente, alla fragilità delle loro vite, sconvolte in poche ore.
Camminando per il mio quartiere, ho percepito il senso di assenza. La desolazione delle strade ha messo in risalto lo sfondo della città, segnato in modo indelebile dai banchi degli alimentari deserti, dalla sedia davanti all’officina di un gommista, dal negozio di liquori chiuso e dallo spazio polveroso sotto un albero di baniano dove stazionava un venditore di giornali. L’unica superstite era una donna seduta sui gradini di un lussuoso negozio di alimentari: mentre faceva la fila per entrare la gente le formava intorno un cerchio per evitarla.
Camminando per queste strade vuote ho avvertito una sensazione insolita di rischio, non solo legata al contagio, ma anche alla sorveglianza e al pericolo. A Mumbai era stato ordinato il coprifuoco e le regole continuavano a cambiare in modo confuso. Potevano essere mandati via perfino i venditori ambulanti; una volta sono arrivata in un mercato pochi minuti dopo che la polizia aveva disperso una folla che si era radunata intorno a un banco di verdure. Nei quartieri ricchi, i residenti hanno alzato la voce, emanando ordini ed editti. In un complesso vicino al mio, un gruppo WhatsApp ha diffuso le foto di una giovane donna che camminava nell’area condominiale, chiedendo che fosse punita per la violazione.
Da donna, le strade di Mumbai mi sono sempre sembrate relativamente sicure. Anche in mezzo alla folla camminavo con un senso di sicurezza, fiduciosa che i corpi intorno a me avrebbero accolto il mio passaggio, come in una coreografia ben studiata. Durante il lockdown, invece, ho avvertito una sensazione di disagio fin troppo familiare per una donna. Gli uomini in scooter e in bicicletta si avvicinavano più del dovuto. Le auto di grandi dimensioni rallentavano. Ho cominciato a evitare le strade laterali più silenziose e non uscivo più dopo il tramonto.
L’unica occasione in cui potevo uscire senza sentirmi in pericolo era quando andavo a fare la spesa da un fruttivendolo che aveva piazzato la sua bancarella nel mio complesso residenziale, quattro palazzi per circa duecento famiglie. Mentre facevo la fila sentivo le mamme che parlavano di quanto era difficile tenere i bambini piccoli in casa e di quanto le coppie più anziane facevano fatica da sole. Sentivo di gente che aveva difficoltà a ricevere cure per disturbi non legati al covid-19 e di ambulanze che si rifiutavano di portare i casi sospetti in ospedale.
Ho guardato sui social network le immagini del lockdown in altre città: persone che passeggiavano nel parco o andavano al supermercato, oppure stavano sedute su terrazze e tetti. A Mumbai, invece, la vita è stata rigidamente confinata agli spazi domestici, e questo ha avuto un impatto sproporzionato sulla classe lavoratrice. Un giovane manovale mi ha raccontato di aver passato settimane chiuso con altre tre persone in una stanza, da cui usciva solo per usare il bagno in comune o per andare a comprare da mangiare. “Se provavamo a sederci fuori dalla porta arrivava la polizia e cominciava a gridare”, dice.
L’essere umano è affascinato dalle rovine, ma ciò che stavamo osservando durante il lockdown non era una città in rovina. Era soprattutto la nostra assenza
Quando sono ripresi i voli nazionali, alla fine di maggio, sono partita per andare a trovare la mia famiglia nel nord dell’India. Sono tornata a Mumbai a novembre, il nono mese della pandemia, nel pieno della festa di Diwali. Un messaggio su Twitter diceva: “Durante le festività, aggiungi un nuovo accessorio al tuo abbigliamento: la #mascherina”.
Dopo il lungo interludio, ho trovato la città di nuovo trasformata. Nel mio palazzo tre persone sono risultate positive al covid-19. Ogni tanto sento l’odore dei disinfettanti mentre i locali vengono sanificati. A parte un avviso all’ingresso del palazzo, però, la mia vita continua senza grandi interruzioni. Sembrano lontani i tempi delle transenne di bambù e delle rigide misure di distanziamento, ed è paradossale, dal momento che l’India conta il secondo maggior numero di casi di coronavirus al mondo, dietro solo agli Stati Uniti. Alla fine di luglio Delhi ha superato Mumbai come la città con il maggior numero di casi confermati.
Ho ricevuto diversi inviti per festeggiare il Diwali, ma ho rifiutato. Durante i fine settimana sentivo i petardi e la musica dei cortei nuziali che sfilavano per le strade. Sono stati riaperti anche i cinema e i luoghi di culto, sia pure con alcune limitazioni. Il lockdown è stato sostituito da uno strano limbo: ogni giorno ci sono nuovi compromessi, nuovi limiti da infrangere, nuove interpretazioni di cosa significhi stare al sicuro.
Superficialmente, la città sembra tornata alla sua vecchia vitalità. Alla stazione della metropolitana sono ricominciati i lavori, e la mia casa è piena di polvere e rumori. Camminando per il quartiere vedo le bancarelle di tè che hanno ripreso a lavorare, e anche il venditore di giornali è tornato al suo posto sotto l’albero di baniano. Dalle officine arriva il suono del vetro che viene tagliato e delle griglie metalliche che vengono modellate. La gente aspetta in fila con la mascherina alla fermata dell’autobus e i negozi espongono un adesivo con la scritta “non si entra senza mascherina”. Per la strada, però, quasi tutti mi dicono la stessa cosa: niente è più come prima.
Tanto per cominciare, c’è la cruda realtà delle vittime del covid-19. Spesso durante il picco della pandemia le famiglie hanno dovuto affrontare traumi profondi, con ospedali sovraffollati che respingevano i pazienti e crematori pieni di persone che aspettavano il loro turno per bruciare i resti dei propri cari. Poi c’è stata la recessione economica, che si è abbattuta sul centro nevralgico finanziario del paese. Con la pandemia l’economia si è fermata, e milioni di persone hanno perso il lavoro.
L’impatto di questi due fattori – il lockdown e la recessione economica – sulle fasce più povere si avverte chiaramente per le strade. Storie come quella di Gagan, che stira abiti a un incrocio del mio quartiere, lo mostrano. Quando era stato annunciato il lockdown Gagan si trovava nel suo villaggio, nello stato settentrionale dell’Uttar Pradesh. Per mesi aveva tirato avanti grazie ai suoi risparmi e lavorando nei campi insieme alla famiglia. Aveva perfino pagato perché suo figlio avesse posto su un camion in partenza da Mumbai. Il mese scorso è tornato, ma ha meno lavoro ed è pieno di debiti. È stato costretto a rinunciare alla stanzetta e al tavolo da stiro che aveva affittato e deve migliaia di rupie al suo ex padrone di casa per l’elettricità che non ha mai usato.
Ascoltando la sua storia, ho avuto l’ennesima conferma della fragilità della vita e del delicato equilibrio che è stato travolto dalla pandemia. Ho pensato al tavolo traballante che Gagan aveva preso in affitto, ai cumuli di vestiti che portava con suo figlio in bicicletta, raccogliendoli dai vari complessi residenziali durante il suo giro. Per lui questo ritorno a Mumbai è stato un passo indietro: tutto ciò per cui aveva lavorato nel corso degli anni è andato.
Durante le prime fasi dell’esodo dei braccianti, ho sentito alcuni uomini raccontare ai giornalisti che si sentivano maltrattati e che non sarebbero più tornati a Mumbai. Molti di loro, però, non hanno avuto scelta. Gagan mi ha raccontato che nel suo villaggio il covid-19 non c’era: nessuno si preoccupava di portare la mascherina e anche lui ne ha comprata una solo prima di ripartire in treno per Mumbai. Alla fine è dovuto tornare qui, perché nel suo villaggio non c’era lavoro.
Durante il lockdown e poi nei mesi successivi, la presenza fantasma del virus ha chiarito quali persone la città tiene ai margini e quali lascia entrare. Camminando, vedo caffè, negozi e ristoranti pieni di clienti. Il parco pubblico chiude alle sette di sera, quando la maggior parte delle persone smette di lavorare. Sulle vetrine dei negozi ci sono manifesti che offrono servizi di consegna a domicilio. Fuori dei centri commerciali e dei ristoranti vedo uomini su scooter e biciclette che aspettano di ritirare gli ordini per portarli ai clienti. Le vie più tranquille sono affollate di giovani che parlano, ridono e litigano. Un amico mi dice che la gente “si è buttata il virus dietro le spalle”. E sembra proprio così, per privilegio o per necessità.
Il covid-19 ha dimostrato quanto sono malleabili le nostre abitudini; quanto pure le usanze che sembrano più radicate possono cambiare. Anche in passato, la vita urbana si era trasformata per adattarsi alle pandemie. Può essere un’occasione per rivalutare molte relazioni: tra scuola e famiglia, tra donne e lavoro, tra città e abitanti, come trattiamo i nostri spazi urbani e come ci trattano. Più che altro, però, a Mumbai il covid-19 sembra solo l’ennesimo inconveniente in un contesto già difficile.
Nel 2021 abbiamo sempre di più la sensazione di vivere in un limbo: il vaccino è pronto, ma è fuori dalla portata di molte persone. Leggo di paesi che sono di nuovo in lockdown e si preparano ad altre restrizioni. A Mumbai, a capodanno c’era il coprifuoco e i festeggiamenti sono stati contenuti. All’inizio di gennaio, l’autorità indiana per i prodotti farmaceutici ha approvato due vaccini per le emergenze. Lo sforzo d’immunizzazione che ci attende è enorme: c’è un elenco prioritario di 300 milioni di persone da vaccinare entro l’estate.
Ho deciso di fare una puntata nell’esclusivo sobborgo di Bandra per un appuntamento dal medico che avevo rimandato già troppe volte. Dopo la visita ho fatto una passeggiata sul lungomare, assaporando la brezza e lo spettacolo del mare che brillava al sole. Erano mesi che non lo vedevo così da vicino. Ho letto che questa vista cambierà con la costruzione della Mumbai coastal road. L’autostrada, che prolungherà le strade congestionate della città fino alla costa occidentale, trasformerà anche il lungomare della città e i suoi spazi pubblici.
Ho visto un’auto della polizia che procedeva lentamente sul lungomare. Le panchine erano piene di coppiette d’innamorati che si ritagliavano un momento d’intimità in una città dove anche lo spazio e la privacy sono un lusso. Un muratore pranzava all’ombra di una palma di fronte a una fila di ville lussuose e costosissime. Dall’altra parte della strada c’erano ristoranti chiusi che facevano consegne a domicilio e un caffè affollato di clienti.
Mi sono avvicinata a un gruppetto di persone e mi sono ritrovata ad anticipare l’oscillazione dei loro corpi; tutti ci spostavamo per fare spazio agli altri, in una nuova, studiata coreografia tipica di Mumbai. ◆ fas
Taran Khan è una giornalista indiana. Vive a Mumbai. Questo articolo è uscito su New Lines magazine con il titolo Wading through the Mumbai blues.
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Questo articolo è uscito sul numero 1398 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati