All’inizio di marzo del 2020 stavo tornando a casa in metropolitana dopo un aperitivo con i colleghi, quando ho capito che una donna mi stava fissando la pancia. Mi ha guardato i fianchi, all’altezza della cintura del cappotto, poi ha fissato il pavimento, poi ha spostato di nuovo lo sguardo sui miei fianchi e alla fine, con molta esitazione, mi ha ceduto il posto. Ero al quarto mese di gravidanza (per altro durante l’aperitivo, per evitare di bere, avevo mangiato molti fritti) e in quel momento mi sono sentita disperatamente grata a quella donna, tanto che nei mesi successivi mi è capitato spesso di ripensare a lei. È stata l’unica persona – a parte mio marito, la mia ostetrica, alcune infermiere e i portieri del mio palazzo – che mi abbia vista incinta. Non mi ha vista mia madre; non mi hanno vista i miei parenti; non mi hanno vista i miei migliori amici né i miei colleghi né altri estranei gentili in metropolitana. Dopo la seconda settimana di marzo ho smesso di andare in giro, a parte le occasionali visite dal medico e qualche passeggiata in città. A luglio ho dato alla luce due gemelli e non sono più uscita di casa. “Porti i bambini a casa e se li tenga lì”, mi ha detto la caposala del reparto, ed è esattamente quello che ho fatto.

Avere un bambino è una cosa che già di per sé ti isola dal mondo. Entri in ospedale in un modo (a disagio, piena di speranze, terrorizzata) e torni a casa trasformata, perennemente in modalità da lotta per la sopravvivenza, fisicamente lacerata, quasi allucinata dalla privazione del sonno. Nulla di tutto ciò aiuta a frequentare altre persone, a parte quelle di cui ti fidi di più. Che nel mio caso erano tutte nel Regno Unito, a cinquemila chilometri di distanza, e non potevano attraversare l’oceano a causa dello stop ai voli imposto dalla pandemia. La trasformazione emotiva, ormonale e psicologica che una donna attraversa quando diventa madre si chiama matre­scenza, e segna un cambiamento fondamentale della percezione di sé. Gli esseri umani, però, sono creature sociali: tendiamo a costruire la nostra identità non solo attorno a ciò che sappiamo o proviamo su noi stessi, ma anche in base a come le altre persone si relazionano a noi. I miei bambini hanno quasi otto mesi e le persone con cui abbiamo passato il tempo da quando sono nati si contano sulle dita di una mano. Nessuno dei miei cari tranne mio marito mi ha vista come madre. La nuova persona che sono diventata da quando ho partorito è una persona che praticamente nessuno conosce.

Niente ti può preparare all’isolamento del parto durante una pandemia. La mia vecchia vita da privilegiata, in cui c’erano persone, luoghi da frequentare, attività da fare, si è ridotta ai minimi termini: sono rimasti solo il mio appartamento, mio marito e i due piccoli sconosciuti incredibilmente esigenti che avevo la responsabilità di mantenere in vita. Con il senno di poi, non eravamo attrezzati per diventare genitori durante la pandemia. Abitavamo a New York, dove avevamo pochi amici e nessun parente. Non avevamo la macchina. Avevamo quello che definisce una vita di successo nel ventunesimo secolo: una bella carriera in una città straordinaria dove ci eravamo trasferiti proprio per avere più opportunità. Ma questo significava anche che, nel momento del bisogno, eravamo soli.

Tutte le donne che hanno partorito nel 2020, immagino, hanno avuto un’esperienza come la mia: un senso d’isolamento talmente acuto che è quasi impossibile da elaborare. Ero abituata alla solitudine come a una specie di pulsazione sorda, un ronzio ambientale che cresce o si attenua a seconda di quel che succede. Ma l’isolamento da neogenitore in una pandemia era diverso. Era come una ferita che bruciava fin dal primo momento e ogni giorno s’infettava di più. Ogni piccolo traguardo raggiunto dai miei bambini senza nessuno intorno che lo apprezzasse era intriso di sofferenza. Ogni mese trascorso all’interno del chilometro quadrato del nostro quartiere rendeva più difficile immaginare di potersene andare. La cena del giorno del ringraziamento, che io e mio marito abbiamo divorato sul divano dopo che i gemelli si sono addormentati, è stata sorprendentemente confortante: poi, però, a Natale mi è mancato tutto. Adesso, finalmente, vedo all’orizzonte quel barlume di speranza che vedono tutti: il vaccino, un possibile ritorno in ufficio, un surrogato di normalità. Ma la vita di prima non c’è più, e non so come immaginarne una nuova in cui ci sia spazio per i miei figli e per tutto il resto. Ogni istante che ho vissuto da madre è stato definito dalla chiusura, dall’isolamento, dalla segregazione in uno spazio minuscolo in cui potessimo sentirci al sicuro, solo noi quattro.

Non mi aspettavo che fare figli fosse così (voce fuori campo stile Monty Python: “Nessuno si aspetta che fare figli sia così”. Mi sono convinta che le aspettative e le illusioni dei non genitori rispetto a quello che succede dopo il parto siano necessarie per la sopravvivenza della specie). Quando ho scoperto di essere incinta, alla fine del 2019, dopo quasi quattro anni di tentativi, mia madre è rimasta con me per il giorno del ringraziamento, e nemmeno l’irritazione per la sua prima reazione – “L’ho capito quando non hai voluto il salmone”, ha detto trionfante – ha attenuato la gioia di condividere quel momento con lei. Speravo di poter condividere anche con lei almeno una parte di quello che sarebbe venuto dopo: volevo organizzare una festa per la nascita, prendere l’aereo e andare da qualche parte per l’ultima volta senza i bambini, farmi riportare a casa dall’ospedale da amici e parenti e mangiare con loro. Pensavo che tutta l’esperienza sarebbe stata condivisa. Invece è stata quasi subito segnata dalla clausura.

Uno degli aspetti più orribili dei virus è che puniscono l’intimità. L’ebola, scrive Lawrence Wright nel suo romanzo Pandemia, è “una malattia che colpisce in modo specifico l’amore e la compassione”, condannando le persone che si prendono cura dei loro cari. Il covid-19 è ugualmente crudele. Ha separato le famiglie, ha privato pazienti gravemente malati del conforto del contatto umano e ha lasciato milioni di persone a morire da sole. E, all’altro estremo della vita, ha lasciato le donne a partorire in solitudine. Nel marzo del 2020, quando gli ospedali di New York si sono mobilitati per contenere la diffusione del virus, alcune donne incinte hanno scoperto di non poter essere assistite durante il travaglio dai loro partner o da altri accompagnatori.

Il peso di queste misure è gravato in modo sproporzionato sulle donne nere, che statisticamente hanno già una probabilità otto volte maggiore di morire di parto rispetto alle donne bianche. Anche dopo l’ordinanza emessa dal governatore dello stato di New York Andrew Cuomo per permettere alle donne in travaglio di farsi accompagnare da una persona, la scelta si è ridotta di fatto al partner o a una doula, una donna che dà assistenza durante tutto il percorso prenatale (secondo alcuni studi, la sua presenza durante il parto porterebbe a un minor numero d’interventi chirurgici e a migliori risultati complessivi per le madri e per i bambini, con vantaggi soprattutto per le donne non bianche). Un altro effetto del covid-19 è stato limitare l’assistenza prenatale, con conseguenze a volte tragiche. Nel marzo dell’anno scorso, a New York, una donna nera incinta di due gemelli è riuscita a prenotare un appuntamento in presenza con il ginecologo solo dopo 25 settimane di gestazione, quando uno dei due feti era già morto. Ad aprile, una donna nera di 26 anni è morta di parto nel Bronx dopo gravi complicazioni legate all’ipertensione. Anche lei, ha detto la famiglia, non era riuscita a prenotare un appuntamento.

gabriella giandelli

La mia gravidanza è stata subito considerata a rischio per via della mia età (36 anni alla data del concepimento) e per il fatto che aspettavo due gemelli, un fattore che aumenta significativamente il rischio di preeclampsia. Le visite dal medico sono state sostituite da appuntamenti in video. Ho continuato ad andare in ospedale (sempre da sola) per le ecografie, ma per mesi nessuno mi ha pesata né mi ha misurato la pressione. Ho cominciato a sentirmi come una sacca gestazionale, valutata esclusivamente in base alla mia capacità o incapacità di far crescere i bambini (per lo più incapacità: erano sempre minuscoli). Al ritorno mi concedevo un taxi e ho cominciato ad apprezzare le conversazioni con gli autisti: era l’unica occasione di parlare di persona con qualcuno che non fosse mio marito. Avevano tutti dei figli, e tutti restavano a bocca aperta quando gli dicevo che aspettavo un maschio e una femmina: mi spiegavano che i maschi erano più facili da gestire, ma che le femmine erano più intelligenti. Aprivano sempre i finestrini per far entrare l’aria e si assicuravano che mi sanificassi le mani con il detergente dopo essermi allacciata la cintura. Dopo che ho partorito, per tornare a casa abbiamo noleggiato un servizio auto specializzato perché non avevamo nessuno a cui chiedere un passaggio in sicurezza, e non riuscivo a pensare di far montare due seggiolini da un autista di Uber dopo il cesareo. Mi ricordo che il conducente ha sistemato i bambini e poi ha guidato sui ciottoli di First avenue con tale cautela che mi sembrava quasi tenerezza.

Siamo tornati a casa dall’ospedale in uno stato che posso solo definire di shock. Non abbiamo dormito per tre giorni. I bambini erano tutti e due piccolissimi – il maschio pesava 1,9 chili e la femmina 2,5 – e li allattavo ogni 90 minuti, anche se quasi mai contemporaneamente. Il sollievo di trovarci nel nostro spazio era compensato da una sensazione inquietante: e adesso? Eravamo costantemente con i bambini in braccio. Non c’erano altri adulti ad aiutarci a versare l’acqua, o a scaricare la lavastoviglie, o a lavare le tutine che mio figlio sporcava quattro volte al giorno perché aveva le gambe troppo sottili anche per i pannolini da neonato. La mia ansia post partum cresceva e avevo il terrore di lasciare l’appartamento. Per le prime sei settimane non abbiamo visto nessuno tranne il pediatra, che ci diceva che tutto procedeva benissimo. Ma a livello di contatti umani era decisamente poco.

Dopo la seconda settimana, il maschio ha cominciato a soffrire di reflusso: grugniva, diventava rosso come una barbabietola, si dimenava e poi urlava di dolore per l’acido dello stomaco che gli bruciava l’esofago. All’inizio riuscivamo a dormire quattro o cinque ore a notte, in un paio di blocchi; poi le ore sono passate a due o tre. Ricordo che dentro di me pensavo che qualcuno sarebbe venuto ad aiutarci, anche se non so chi mi aspettavo che arrivasse: il governo? Mary Poppins? (per la cronaca, le probabilità che una di queste due figure spunti ad aiutare una coppia di neogenitori sono più o meno pari). Le settimane passavano e non veniva nessuno.

Anche volendo, non avrebbero potuto. Fino a quel momento pensavo che aver visto morire mio padre quando avevo 22 anni sarebbe stata la peggiore esperienza della mia vita. Partorire due gemelli durante la pandemia è stato peggio. Almeno, quando è morto mio padre ogni tanto riuscivo a dormire. Dopo il parto invece ho cominciato ad avere allucinazioni su bambini fantasma che piangevano di notte. Mi svegliavo in preda al panico, convinta di essermi addormentata mentre tenevo in braccio uno o entrambi. Non riuscivo a smettere di visualizzare fino al dettaglio più raccapricciante tutte le cose orribili che potevano succedergli, un disturbo noto come “pensieri intrusivi”. Immaginavo uno dei bambini cadere accidentalmente dal nostro balcone e mi rimaneva impressa l’istantanea del suo cranio frantumato sul marciapiede. Un pensiero continuava a martellarmi in testa: ci siamo rovinati la vita.

Nel loro primo mese di vita, i miei figli sono stati visitati dal pediatra sei volte. Io ho fatto un controllo alla sesta settimana: la mia ostetrica mi ha guardato la cicatrice, mi ha detto che potevo fare ginnastica e, siccome non riuscivo a smettere di piangere, mi ha indirizzata alla clinica per neomamme con sospetta depressione e ansia post partum. Mentre facevo ricerche per scrivere questo articolo, ho parlato con diversi esperti di salute mentale che mi hanno detto che i casi di depressione post partum sono aumentati in modo significativo dall’inizio della pandemia. “Sta diventando una cosa molto, molto grave”, mi ha detto Juli Fraga, una psicologa di San Francisco. “Le pazienti mi parlano dell’isolamento e dell’incertezza; dell’angoscia di non sapere quando vedranno la famiglia; dell’ansia di portare a casa un neonato e di non poter contare su nessun aiuto”.

L’assistenza sanitaria postnatale si concentra principalmente sui neonati, ma, per la mia esperienza, non c’è modo migliore per favorire lo sviluppo e la salute fisica dei bambini che prendersi cura dei genitori. “Il sostegno sociale è un ottimo indicatore della salute dei bambini”, mi ha spiegato Denise Werchan, ricercatrice della salute della popolazione alla New York university. Una pandemia non solo priva i nuovi genitori di questo sostegno da parte delle famiglie e degli amici, ma accresce direttamente i loro livelli di stress. Secondo Werchan, “i dati confermano che una maggiore esposizione allo stress, non solo durante la gravidanza ma anche nel primo periodo dopo il parto, genera una serie di effetti negativi per la salute del bambino e per il suo sviluppo cerebrale e sociocomportamentale”. In uno studio di prossima pubblicazione, Werchan ha esaminato i casi di quasi cinquemila donne durante la gravidanza e dopo il parto in questi mesi di pandemia, e ha scoperto che il tasso di depressione tra di loro era aumentato di circa il 5 per cento rispetto ai dati precedenti.

Gli esseri umani sono creature sociali. I miei bambini hanno otto mesi e le persone con cui abbiamo passato il tempo da quando sono nati si contano sulle dita di una mano

Sotto molti punti di vista, sono stata fortunata. Ho un lavoro stabile che mi garantisce un generoso congedo parentale. Ho un’assicurazione sanitaria che mi paga le visite a distanza. Ho avuto una doula dopo il cesareo con cui mi collegavo su FaceTime due volte alla settimana e che mi ha rassicurato sul fatto che me la stavo cavando bene, per quanto possibile. Quando mi sono fatta male alla schiena facendo ginnastica, sono riuscita a prendere appuntamento con un fisioterapista che mi ha aiutato a mettere a posto tutte le cose che nel mio corpo si erano rotte durante la gravidanza (quando tornavo a casa mi sembrava di volare, ebbra d’interazione sociale). I gemelli sono cresciuti, trasformandosi da uccellini scheletrici a porcellini paffutelli. Alla sesta settimana il reflusso di mio figlio, così come era arrivato, è misteriosamente scomparso. Al quarto mese i bambini hanno cominciato a dormire in modo stabile per tutta la notte.

Dopo la prima dose di vaccini, abbiamo cominciato a uscire all’aperto insieme ad altre persone e abbiamo fatto addirittura qualche gita in traghetto. Poi però è arrivato l’inverno, e ci siamo ritrovati di nuovo da soli, con i tassi di contagio che schizzavano alle stelle in tutta la città. I pezzi di normalità che eravamo riusciti a rimettere insieme si sono staccati uno dopo l’altro. Io e mio marito abbiamo cominciato a misurare il nostro stato di salute mentale in base alle volte che, scherzando, dicevamo di volerla fare finita. (“Stella stellina”, cantavo, mentre i bambini si rifiutavano categoricamente di dormire, “la fine si avvicina”).

Se la vostra esperienza di maternità durante la pandemia è stata migliore, buon per voi. Se invece anche voi siete rimaste completamente distrutte dalla tortura mentale, emotiva e fisica, vi capisco. Nelle prime settimane dividevo mentalmente i messaggi che ricevevo in due cassetti: in uno c’erano quelli delle persone che avevano avuto figli da poco. Quelli di tutti gli altri erano sempre pieni di congratulazioni e spensieratamente giulivi. Una delle mie migliori amiche m’invitava poeticamente a godermi “la nebbia di amore e latte”, un’immagine talmente lontana da ciò che stavo passando che ho avuto l’impulso di scagliare il telefono contro il muro. Amavo i miei bambini, certo, ma non in modo beato e spensierato: il mio era più un amore nervoso, impulsivo, che reagiva al loro pianto in virtù di una feroce programmazione interna. Più avanti, quando hanno cominciato a sorridere e a guardarmi senza quell’aria di curioso risentimento, li ho amati così tanto che ho pensato di scoppiare. Poi, quando sono caduta in depressione, li ho amati in modo astratto, come se tra di noi ci fosse un muro di vetro.

Gli altri messaggi mi hanno sorpresa. Erano di donne che non conoscevo tanto bene, o di persone che non sentivo da un po’. “Stai bene?”, mi chiedevano. “All’inizio a me non è andata tanto bene”. Mi dicevano di stringere i denti per i primi tre mesi. Si tenevano sempre in contatto. Poi hanno cominciato a scrivermi altre donne che avevano partorito dopo di me, e ho imparato a leggere tra le righe della loro discrezione. “Non so come hai fatto con due!”, scrivevano. “I bambini sono veramente difficili!”. La nostra cultura non è ancora capace di parlare onestamente di cosa significa fare figli, specialmente nella fase neonatale, spiega Fraga. “Quando le persone si ritrovano su quest’isola solitaria, soprattutto se erano già in difficoltà, sono portate a credere che qualsiasi cosa si raccontino sia vera”.

Il problema è che spesso i neogenitori non sono preparati allo sconvolgimento che li aspetta, sia nell’organizzazione della loro vita sia a livello psicologico. Il termine matrescenza è stato coniato da Dana Raphael, un’antropologa, negli anni settanta, ma è ancora un concetto poco compreso ed esplorato, spiega la psichiatra riproduttiva Alexandra Sacks. Richiama volutamente la parola adolescenza, la fase di profondo cambiamento che gli esseri umani attraversano nel passaggio dall’infanzia all’età adulta. “Nel mio lavoro”, dice Sacks, “è vista come una esperienza fisica, ormonale, emotiva. Ma ci sono anche cambiamenti economici, nel modo di passare il tempo, cambiamenti sociali, cambiamenti sul lavoro. Di fatto, quello verso la maternità è un passaggio d’identità”.

Per tutti quelli che hanno avuto figli nel 2020 (naturali o meno), in particolare per chi era alla prima esperienza, ci sono stati due sconvolgimenti simultanei. Nel mondo esterno, come tutti, abbiamo dovuto adattarci ai cambiamenti drastici imposti da una pandemia eccezionale. Questo, già di per sé, ha avuto implicazioni psicologiche profonde. “Nessuno di noi ha mai vissuto in questo modo”, dice Sacks. Contemporaneamente, le nostre vite sono state sconvolte dalla novità completa di essere genitori, che da un giorno all’altro ha trasformato di nuovo la nostra vita quotidiana. “Se fosse un esperimento scientifico”, osserva Sacks, “non saremmo in grado di misurarne i risultati, perché ci sarebbero troppe variabili e troppo poco monitoraggio”.

Diventare genitori durante la pandemia ha anche dei vantaggi. Solleva le neomamme dal fardello di doversi mostrare felici e sorridenti e di gestire le incomprensioni che nascono quando la famiglia si scontra con emozioni così forti. Una donna che ha partorito poco dopo di me, oltre a descrivermi la rabbia, l’ansia e la malinconia che provava, mi ha raccontato anche del “sollievo segreto” di non perdersi nemmeno una fase dello sviluppo del suo bambino. “Ho dovuto fare un passo indietro dal lavoro, cosa che non avrei mai fatto se avessi dovuto scegliere”, dice.

Anch’io, a volte, mi sono sentita così. Quando mio marito ha ripreso a lavorare, dopo quattro settimane (avevamo deciso di alternarci con i congedi), sono riuscita a sopravvivere solo perché lui non aveva l’obbligo di andare in ufficio: ogni tanto si staccava dalle riunioni per aiutarmi e, cosa fondamentale, per farmi un po’ di compagnia. Sono contenta di aver avuto tempo di riprendermi dall’operazione senza dover incontrare nessuno. Ma avevo anche bisogno di supporto, e di contatto umano. Avrei dato un rene pur di passare una mattina in compagnia di un’amica. Quando abbiamo superato i tumulti iniziali del cosiddetto quarto trimestre, e gli effetti invalidanti della privazione del sonno, ho cominciato a notare a intermittenza altre sensazioni strane. Dopo otto mesi, faccio ancora fatica a definirmi una madre, perché non mi sento così. Ho sempre costruito la percezione che ho di me a partire dalle mie interazioni con il mondo, dal lavoro ai rapporti personali. Cosa significa essere madre (o padre) quando si vive in isolamento? Come si elabora una nuova identità quando si cambia così radicalmente e cambia anche il mondo che ci circonda?

“Penso che ci sia una paura collettiva: ormai ci siamo adattati alla nuova normalità, e quando le cose ritorneranno alla vecchia normalità, dovremo riadattarci un’altra volta, solo che nel frattempo saremo tutti un po’ segnati e provati”, dice Werchan. Dai suoi studi, tuttavia, emerge che le persone tendono a saper far fronte a eventi traumatici, e che l’aumento dei livelli di stress è spesso transitorio. Una cosa che aiuta molto è costruire dei sistemi di supporto e creare dei sani meccanismi di adattamento. Non c’è una soluzione magica, ma per quanto mi riguarda, riuscire a riconoscere ciò che provavo e comunicare con altre neomamme che erano in una situazione simile alla mia è stato molto utile.

Non so quanto riuscirò ad adattarmi alla vita dopo la pandemia, e ancora non oso immaginare che effetto farà quando i bambini conosceranno la nonna, le zie e i cugini inglesi o tutte le altre persone che già gli vogliono bene. Ma se abbiamo imparato una cosa è che dobbiamo riesaminare il processo che ci porta a diventare genitori e capire come supportare meglio le persone che attraversano questo percorso, in modo che loro e i loro figli possano stare meglio. Vorrei che riuscissimo a essere più onesti rispetto a quello che ci succede.

Una delle piccole consolazioni dello scorso anno è stata che mia madre ha imparato a usare le emoji. Questo ci ha aiutato a esprimere meglio le nostre emozioni. “Non so come hai fatto a tirarci su tutti e due da mamma single!”, le ho scritto mesi fa. “Sei incredibile!”. In passato mi avrebbe detto di smetterla oppure mi avrebbe ignorata. Stavolta, invece, mi ha risposto mandandomi tre faccine sorridenti che nuotavano in mezzo ai cuori, e ho capito esattamente cosa voleva dire. ◆ fas

Sophie Gilbert è una giornalista dell’Atlantic, dove si occupa di cultura. Questo articolo è uscito sul mensile statunitense con il titolo Becoming a parent during the pandemic was the hardest thing I’ve ever done.

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Questo articolo è uscito sul numero 1406 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati