D’ora in avanti è tutta salita. Di frenare non se ne parla: se smettessimo di dare gas su questa strada ripida nella parte alta di Rio de Janeiro, la moto si schianterebbe a terra. “Stringi le cosce”, mi grida William. Proprio mentre sto per chiedergli di rallentare per fare una foto, si lancia sulla curva successiva sterzando bruscamente, con il motore che va su di giri.
Se a ogni paese corrispondesse un mezzo di trasporto, la Danimarca sarebbe una bici cargo, il Giappone un treno ad alta velocità e la Germania un camper. Il Brasile sarebbe una motocicletta: la moto ti fa vivere un’esperienza intensa, veloce, un po’ pericolosa e a prova di caldo. È perfetta per Rio de Janeiro.
Da quando Uber offre corse anche in mototaxi, questo modo di esplorare la città è diventato ancora più accessibile. Così decido di usarlo per andare alla scoperta di Rio.
Il mio giro comincia nel quartiere di Glória. Il posto è proprio come il suo nome: le strade sono ampie, gli edifici imponenti e l’odore del mare si avverte ovunque. Gli alberi proiettano la loro ombra sul mercato della domenica, sulle papaie gialle, sulla polpa rosa delle guaiave tagliate e sulla bancarella dei fiori con le strelitzie blu e arancioni e i fiori rossi dello zenzero. Al parcheggio per i mototaxi di rua Cândido Mendes dico al conducente di portarmi dove vuole, basta che il tragitto mi mostri il più possibile della città. E William, il tipo che accelera come se non ci fosse un domani, mi propone di andare in un belvedere nella parte alta di Santa Teresa. Poi mi passa un casco. Rio de Janeiro è delimitata da un lato da una baia, dall’altro dal mare aperto. Verso l’interno la città termina ai piedi di una catena montuosa le cui propaggini arrivano fino alle spiagge. Le colline di granito ricordano gigantesche conchiglie adagiate tra i quartieri. Alcune sono così scoscese che non ci cresce quasi nulla, mentre sono solcate da strade e quartieri residenziali. Glória è uno di questi quartieri e da qui si sale per andare a Santa Teresa.
Bisogna ammettere che girare Rio in moto può essere abbastanza pericoloso. Ti accorgi di come guida il motociclista solo dopo essere salito in sella. A quel punto puoi sempre chiedere di rallentare e di fare attenzione. Se ripenso ad alcune corse fatte posso dire di essere davvero un sopravvissuto.
Con William, però, mi sento in buone mani: è cresciuto nella zona e conosce le strade. Dietro di lui sulla sua grande Yamaha rossa ho un’ottima visuale sulle curve ripide che abbiamo davanti, sul mare alla nostra sinistra e sulla città immensa che si estende alla nostra destra. Non se ne vede la fine: posso soltanto immaginarla.
William accosta in un piccolo spazio ombreggiato pieno di quelli che chiamano alberi di fuoco. Anche se non è ancora il belvedere dove vuole portarmi, io insisto per fermarmi lì. Ma scendendo dalla moto mi rendo conto che non ci sono né bar né venditori ambulanti e che il mio cellulare non prende: non potrò chiamare un altro mototaxi. William non può aspettarmi, così mi propone di portarmi fino al prossimo belvedere, che è un po’ più frequentato.
Rumori ovattati
Rio de Janeiro è uno di quei posti dove sembra che il tempo non basti mai. Girando in moto mi colpiscono cose che nelle visite precedenti al massimo notavo di sfuggita. I rumori, per esempio, procedendo in salita a Santa Teresa diventano sempre più deboli, come se la città fosse avvolta nell’ovatta. Le case si diradano e accanto scorre fitta la foresta. L’aria pungente mi fa venire la pelle d’oca. William rallenta per farmi sentire lo scrosciare di una cascata e indica in alto: si vede la statua del Cristo redentore.
Le persone che arrivano in cima a questa strada tortuosa si dividono in due categorie: quelle che si scattano mille foto in pose diverse con il panorama sullo sfondo e quelle che restano talmente affascinate da ciò vedono che alle foto non ci pensano. La cosa più bella di tutte è la vista sul Pan di zucchero e sulla baia di Guanabara, che ha ispirato il nome della città. Rio de Janeiro, infatti, significa fiume di gennaio e si dice che l’abbia battezzata così un navigatore portoghese che il primo mese del 1502 approdò nella baia credendo di aver scoperto la foce di un grande fiume.
Ormai è pomeriggio inoltrato e a quest’ora la città sembra immersa nel miele: il mare luccica dorato e tutto, perfino le rocce grigie, è avvolto in una luce calda. Il tempo non è mai così prezioso e non passa mai così velocemente come nelle ore che precedono il tramonto, soprattutto qui, vicino all’equatore, dove il crepuscolo quasi non esiste. In portoghese si dice saudade per indicare il desiderio malinconico di qualcosa che si ha paura di non poter più rivivere.
La sera dopo, guardando le foto mosse che ho scattato in moto, mi pento di non aver chiesto a William di fermarsi più spesso. Ora mi trovo nel dehors di un bar a Lapa, di fronte a una caipirinha che si chiama Jorge Amado. Contiene maracuja, lime e Gabriela, un distillato di canna da zucchero con garofano e cannella. Il suo sapore evoca un mercatino di Natale estivo e si adatta bene all’atmosfera della città: oggi ha piovuto e ora, anche se non fa freddo, portano tutti un cappello e gli stivali.
Mentre con la cannuccia estraggo dal bicchiere gli ultimi semi di maracuja, mi viene in mente Lala, l’amica più cara che ho a Rio. Potrei definirla una motociclista provetta: quando va in spiaggia carica sulla moto le sdraio pieghevoli e quando va all’aeroporto riesce a incastrarsi sotto il braccio anche il bagaglio a mano. È lei che mi ha fatto conoscere questo bar ed è sempre lei che mi ha convinto a prendere un mototaxi. In moto, mi ha detto, sembra di avere il mondo in tasca.
Rio de Janeiro ha tre attrazioni da cartolina: la spiaggia di Copacabana, la statua del Cristo redentore e il Pan di zucchero. Con l’espressione Pan di zucchero in genere ci si riferisce a due montagne: una più ripida, a forma di ghiacciolo e accessibile solo con la funivia; e un’altra più larga e tozza, che si può risalire a piedi seguendo un sentiero.
Quando la mattina successiva salgo sul mototaxi per andare al Pan di zucchero, il cielo si è rannuvolato, ma a tratti fa capolino il sole. È presto e la città che vedo attraversando i quartieri di Flamengo e di Botafogo è completamente diversa rispetto a quella del pomeriggio e della sera: le persone per strada indossano abiti e uniformi e non ci sono i tavolini davanti ai locali. I venditori ambulanti stanno ancora allestendo le loro bancarelle. La città sembra carburare con lentezza.
L’argomento migliore
Per raggiungere la lingua di terra su cui sorge il Pan di zucchero c’è un’unica via d’accesso. Mentre la moto svolta in avenida Pasteur, sento dei colpetti leggeri sul casco. Mancano solo due minuti alla meta, ma la situazione precipita: le prime gocce isolate si trasformano prima in pioggerellina e poi in un acquazzone che in moto, con il vento in faccia, sembra una tempesta tropicale.
Poco dopo ci fermiamo e scendo: sono fradicio fino ai calzini. Invece di salire sul Pan di zucchero mi rifugio in un bar in attesa che smetta di piovere. E siccome l’app del meteo prevede rovesci tutto il giorno, decido di rinunciare alla gita e di tornare a casa a cambiarmi. Insomma, se volevo vivere più intensamente la città posso ben dire di esserci riuscito.
A ogni corsa in moto imparo qualcosa di nuovo: dopo la gita fallita al Pan di zucchero ho capito che quando il cielo è nuvoloso conviene mettersi le infradito, sono meno robuste ma si asciugano in fretta. E ormai non mi aggrappo più disperatamente alla sella con tutte e due le mani, mi limito a stringere le gambe. Ho imparato anche che l’argomento di conversazione migliore è sempre il nemico comune e quando sei in moto i nemici sono gli automobilisti. Non serve saper parlare il portoghese, basta sbuffare indignati o sospirare ogni volta che si deve evitare una macchina.
Fiducia nella vita
Carlos, il mio terzo motociclista, è il più taciturno. Ho scoperto il suo nome solo perché, prenotando la corsa su Uber, è scritto sul suo profilo. In foto sembra un ragazzo gracile, ma ha 1.157 corse all’attivo e 4,97 stelle di valutazione. Ha l’aria di essere una buona scelta.
Sul telefono ho annotato una lista di posti nei quali vorrei tornare. Un piccolo cinema adocchiato tornando da Santa Teresa, per esempio, o il mercato sulla via per il Pan di zucchero. Oggi fa bel tempo e dopo la pioggia di ieri mi viene voglia di andare a Joatinga, una spiaggetta nascosta che mi hanno consigliato.
Mentre ci spostiamo verso ovest il traffico diventa più intenso, ma non restiamo mai bloccati in un ingorgo. Carlos si fa strada tra le auto a colpi di clacson. Non lo usa in modo aggressivo come fanno i tedeschi, ma alla brasiliana, con brevi colpetti gentili che sembrano dire: “Ehi, ciao, passo di qua”.
Bruciamo i semafori rossi e avanziamo contromano, come se la corsa non fosse altro che un lungo sorpasso; sfiliamo così vicini alle macchine che sentiamo il calore delle carrozzerie. Per guidare come Carlos bisogna avere una certa fiducia di fondo nel mondo. Oppure bisogna aver imparato a prendere tutto alla leggera, compresa la propria vita. Carlos tiene gli specchietti retrovisori chiusi per passare più agilmente nelle strettoie. Non si volta mai a guardare indietro.
Joatinga è una spiaggia libera che si trova all’interno di un complesso residenziale privato. Gli ultimi metri devo percorrerli a piedi. Solo pochi minuti fa oltrepassavamo la Rocinha, una delle favelas più note di Rio, e il contrasto non potrebbe essere più grande: andando verso la spiaggia supero ville a più piani con grandi vetrate e giardini perfettamente curati. Non ci sono ingorghi o rumori di traffico.
Sulla lingua di spiaggia sottile e corta alcuni gruppetti di persone giocano a pallone. I bagnini hanno esposto la bandiera rossa e in acqua c’è solo un surfista. Quindi oggi non farò il bagno. Visto che Joatinga è nascosta in una baia, nel primo pomeriggio la spiaggia è già in ombra. Dopo un po’ mi viene freddo, così prendo un altro mototaxi per Ipanema, all’estremità orientale, dove il sole tramonta più tardi.
Della moto si dice che sia il mezzo di trasporto più veloce per muoversi a Rio. È verissimo, anche se paradossalmente riesce a rendere più lenta l’esperienza. Nelle corse in moto la destinazione diventa quasi irrilevante: per vivermi la città non devo aspettare di arrivare, ci sono dentro fin dall’inizio.
Sulla strada per Ipanema mi faccio lasciare a qualche isolato dalla meta, per fare a piedi l’ultimo tratto. Compro un succo e quando arrivo in spiaggia il sole è già scomparso dietro le nuvole. Ma non mi dispiace: ne ho preso già abbastanza in moto. ◆ sk
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Questo articolo è uscito sul numero 1625 di Internazionale, a pagina 149. Compra questo numero | Abbonati