Albert S. Ruddy ricorda ancora quel febbraio 1971 come il periodo più inquieto della sua vita. Aveva quarant’anni, era agli inizi della sua carriera di produttore cinematografico e stava preparando un film intitolato Il padrino, basato sulla storia di una famiglia della mafia italoamericana. Nelle settimane prima dell’inizio delle riprese, previsto per il 29 marzo a New York, Ruddy viveva nel terrore che qualcuno potesse sparargli o coinvolgerlo in un incidente stradale: la polizia di Los Angeles, la città in cui viveva, lo aveva informato che dei misteriosi sconosciuti lo stavano pedinando. Il messaggio era chiaro: la mafia non voleva un film sulla mafia.

Prima di diventare un capolavoro della storia del cinema, il primo episodio delle avventure dei Corleone – uscito cinquant’anni fa negli Stati Uniti e ora disponibile in una versione restaurata – era stato un libro di successo scritto da Mario Puzo. In cima alle vendite fin dall’uscita, nel marzo 1969, il romanzo racconta la storia di una delle famiglie più importanti del “sindacato del crimine”, il ruolo del suo boss Vito Corleone e il passaggio del potere al figlio Michael.

Puzo, uno statunitense nato in una famiglia di immigrati campani, lo aveva scritto ispirandosi a fatti reali e ad aneddoti raccolti quando lavorava per un giornale. Fino ad allora la maggior parte dei romanzi sulla mafia insisteva sulla violenza, l’immoralità e la disonestà dei suoi appartenenti. Puzo invece metteva in scena le mogli, i figli, i nemici e gli amici.

Senza mai celebrarli né nascondere i loro crimini, lo scrittore mostrava che paradossalmente questi uomini avevano dei valori – l’amicizia, la lealtà, la famiglia – e che spesso seguivano un codice d’onore. Vito Corleone è ferito in un attentato perché si rifiuta di entrare nel traffico di droga, che considera immorale, e inoltre disprezza i mafiosi che non passano del tempo con la famiglia.

Tutti questi elementi permisero a Puzo di guadagnarsi il rispetto dei criminali descritti nel libro. Tanto che dopo la pubblicazione i suoi debiti di gioco furono misteriosamente cancellati e ogni tanto al ristorante si vedeva arrivare una bottiglia di champagne, offerta da un misterioso individuo con gli occhiali fumé e un anello d’oro, che si limitava a fargli un cenno con la mano da lontano. Così, quando la Paramount aveva cominciato a lavorare con Puzo all’adattamento cinematografico del libro, nessuno si era chiesto cosa ne pensassero i mafiosi.

La produzione fu affidata a Ruddy, un uomo magro, brusco, soprannominato Al, e al suo socio Gray Frederickson, che aveva 33 anni. Ruddy era stato scelto perché era riuscito a non sforare il budget stabilito per Lo spavaldo (1970), una storia di motociclisti con Robert Redford sullo scia del successo di Easy rider del 1969.

Wasp contro italiani

Nel caso del Padrino non bisognava spendere più di sei milioni di dollari, una somma piuttosto piccola per un progetto così grande. Il regista scelto, Francis Ford Coppola, non era famoso. Aveva accettato a malincuore, più che altro perché doveva pagare i debiti causati dal fallimento del film Sulle ali dell’arcobaleno (1968) con Fred Astaire. Il padrino era il suo film più “commerciale”, ma decise di puntare su attori quasi sconosciuti – Al Pacino, James Caan, Robert Duvall, Diane Keaton – o sul viale del tramonto come Marlon Brando, che nell’ultimo decennio non aveva interpretato film di successo.

Coppola aveva dovuto battersi per imporre le sue scelte e ambientare il film negli anni quaranta a New York. Tra le esigenze del regista e la volontà della Paramount, il compito di Ruddy si era rivelato molto complicato. “Francamente pensavo che la parte più difficile fosse superata”, ricorda oggi il produttore, che ha 91 anni. “Ma in realtà avevo cominciato dalla parte facile”.

La famiglia Corleone in posa per una foto di gruppo durante la festa di matrimonio che apre il film (Paramount Pictures/Getty Images)

La produzione infatti si rivelò molto complicata, al punto da diventare l’oggetto di una serie tv, The offer, che sarà disponibile ad aprile sulla piattaforma di streaming Paramount+.

Il granello di sabbia che avrebbe fatto inceppare la macchina del Padrino si chiamava Joseph Colombo, capo di una delle cinque famiglie che controllavano la criminalità organizzata a New York. Generalmente i mafiosi cercavano di non attirare l’attenzione, ma Colombo – indagato dall’Fbi per estorsione, rapine di gioiellerie, evasione fiscale e per i suoi affari nel settore dei casinò – amava muoversi alla luce del sole. Nell’aprile del 1970 aveva creato la lega per la difesa dei diritti degli italoamericani, un’organizzazione sempre più influente secondo cui le inchieste delle autorità contro la mafia erano una violazione dei diritti dei suoi compatrioti, vittime del razzismo degli wasp (protestanti bianchi anglosassoni). L’organizzazione voleva che si smettesse di usare la parola “mafia” nel linguaggio comune. “Mafia? Cos’è la mafia?”, aveva detto Colombo durante una conferenza stampa nel 1970. “La mafia non esiste. Sono il capo di una famiglia? Certo, quella composta da mia moglie e i miei cinque figli. Sono loro la mia famiglia”.

La realtà era molto diversa. Arrivata dall’Italia attraverso le varie ondate migratorie, la mafia era ben radicata negli Stati Uniti già da molti decenni. Negli anni settanta a New York i sindacati, le imprese edili, le piccole e grandi attività commerciali, i ristoranti, le scommesse sportive, i casinò, il traffico di droga e la prostituzione erano tutte attività controllate da cinque famiglie, la cui influenza si estendeva fino a Detroit, Filadelfia e Chicago. All’epoca era l’unica organizzazione criminale, perché la mafia russa e quella cinese non erano ancora arrivate.

Proteste e minacce

Colombo aveva creato la lega per avere visibilità. Presentandosi con italoamericani che non avevano niente a che fare con la mafia, diventò un protagonista del dibattito pubblico e riuscì a ottenere abbastanza potere per negoziare con le autorità e con la polizia. Nel frattempo, portava avanti di nascosto le sue attività illegali.

Ma Il padrino poteva creargli un problema. Non tanto per il contenuto, visto che quando aveva costituito la lega il romanzo di Puzo era già uscito. Colombo temeva che dopo l’uscita del film le attività della mafia sarebbero diventate troppo visibili e avrebbero attirato l’attenzione dall’opinione pubblica, che avrebbe potuto chiedere alle autorità – e soprattutto all’Fbi – politiche più dure contro la criminalità organizzata.

La lega fece di tutto per ostacolare le riprese del Padrino, accusando gli sceneggiatori di non avere rispetto per gli italoamericani. “Improvvisamente”, ricorda Ruddy, “dovevo affrontare minacce di sciopero dei sindacati dei trasportatori o dei tecnici”. Il produttore racconta delle trattative con gli abitanti di un quartiere di Manhasset, a Long Island, in cui c’era la villa scelta come residenza del padrino. All’improvviso qualsiasi accordo sembrava impossibile. “Gli abitanti dissero che la troupe avrebbe occupato tutti i posteggi. Così proposi di far arrivare tutti in pullman, ma mi risposero che non volevano pullman nel quartiere”. Qualunque tentativo di mediazione falliva. “Mi dissero che se avessimo girato lì la scena della festa di matrimonio, che apre il film, dovevo assicurare che la stampa non scoprisse il nome del quartiere. Ma come potevo garantire una cosa simile? Eravamo pronti a pagare, a ridipingere, anche a ricostruire il quartiere, ma non ci hanno mai risposto, il che equivaleva a un no”.

Gray Frederickson – che avrebbe prodotto Il padrino parte II (1974) e Il padrino parte III (1990) – ricorda le visite sul set di Little Italy, che all’epoca era uno dei centri della mafia newyorchese e non il quartiere turistico di oggi: “Sui vetri di ogni casa c’era l’adesivo della lega per la difesa dei diritti degli italoamericani. Dicevano tutti: ‘Non lavoriamo per la troupe del Padrino. È un film contro gli italoamericani’”.

Il padrino tirò fuori i suoi occhiali spessi e prese in mano il copione. “Che diavolo è questa dissolvenza incrociata?”, chiese al produttore

Dopo i rifiuti arrivarono le minacce. L’edificio newyorchese della Gulf & Western, la multinazionale proprietaria degli studios Paramount, dovette essere evacuato a causa di un allarme bomba. Negli stessi minuti squillò il telefono nella suite d’albergo dove alloggiava Robert Evans, presidente della Paramount, con la moglie e il figlio piccolo. “Pensateci bene”, disse una voce sconosciuta secondo il racconto fatto da Evans a Ruddy. “Non vogliamo sfigurare il vostro bel viso o fare del male al vostro bambino. Non girate il film sulla famiglia, capito?”.

Quando Evans suggerì al misterioso interlocutore di rivolgersi ad Al Ruddy, il produttore del film, la voce all’altro capo del telefono rispose con calma: “Se vuoi uccidere un serpente devi cominciare dalla testa”.

Così Ruddy fu invitato a incontrare l’uomo dietro la chiamata, Joseph Colombo. Una proposta che non poteva rifiutare, per dirla con la frase resa celebre dal Padrino. Il produttore chiese a Mario Puzo di accompagnarlo, sperando così di avere più potere nella trattativa. “Puzo mi disse che ero pazzo, che per lui era impensabile incontrare una persona così pericolosa”.

Ruddy ricorda che il 25 febbraio 1971 fu portato a bordo di una limousine a un convegno della lega per la difesa dei diritti degli italoamericani in una sala del Park Sheraton, nel centro di Manhattan. “Conoscevo l’albergo”, ricorda Ruddy. “Alla fine degli anni cinquanta Albert Anastasia, uno dei boss mafiosi più violenti della storia, era stato ucciso lì mentre era dal barbiere”. Nella platea il produttore riconobbe Joe Colombo. “Aveva un aspetto comune, vestito in modo impeccabile, non sembrava il classico gangster assetato di sangue”.

Gli si avvicinò e gli disse: “Ascolta Joe, questo film non danneggerà in nessun modo la comunità italoamericana. Il padrino promuove le pari opportunità. In questo film abbiamo un poliziotto irlandese corrotto e un produttore ebreo corrotto. Nessuno stigmatizza gli italiani in quanto tali. Vieni nel mio ufficio, ti mostrerò il copione e vedremo se sarà possibile trovare un accordo”.

Western o musical

Il giorno dopo Colombo entrò nell’ufficio di Ruddy e si sedette davanti a lui. Uno dei suoi uomini prese posto sul divano e un altro si mise alla finestra per sorvegliare la strada. Il padrino tirò fuori gli occhiali spessi e prese in mano il copione. “Che diavolo è questa dissolvenza incrociata?”, chiese Colombo. “Ancora queste stronzate hollywoodiane, non ho tempo per leggere cose simili”.

Gettò il copione sul tavolo e chiese ai suoi uomini: “Possiamo fidarci di questo tipo?”. Loro annuirono.

Joseph Colombo, capo di una delle famiglie mafiose di New York, nel suo ufficio, maggio 1971 (Bettmann/Getty Images)

A quel punto Colombo si voltò verso Ruddy e gli chiese: “Dimmi una cosa: preferisci i western o i musical? A me piacciono i western con John Wayne”. Poi spiegò le sue condizioni. Le parole “mafia” e “cosa nostra” (presenti nel romanzo) dovevano sparire dal copione. “Non era un problema”, ricorda Ruddy, “visto che nella sceneggiatura la parola mafia c’era una sola volta. Una stretta di mano bastò per concludere l’accordo. Negoziare con Colombo si rivelò molto più facile che con la maggior parte degli avvocati di Hollywood con cui ho avuto a che fare nella mia carriera”.

Il 20 marzo 1971 il New York Times pubblicò in prima pagina una foto scattata negli uffici della lega italoamericana durante una conferenza stampa in cui Ruddy spiegava i suoi accordi con Colombo. Il padrino sarebbe diventato il primo film nella storia del cinema ad avere il sostegno della mafia.

La situazione si era rovesciata e Colombo aveva capito che il progetto avrebbe potuto avvantaggiarlo. Così chiese che gli incassi della prima del film fossero versati a un’associazione di beneficenza vicina alla lega. E, cosa ancora più sorprendente, volle dire la sua anche sulla scelta degli attori. I ruoli principali erano già stati assegnati, ma rimanevano le parti secondarie e le comparse.

“Non potete prendere qualcuno dei nostri?”, chiese Colombo. Una proposta difficile da rifiutare.

Dall’oggi al domani i produttori avevano risolto tutti i loro problemi. Erano sparite le minacce di sciopero, le manifestazioni e le campagne di boicottaggio contro il film. Alla fine per la casa di Vito Corleone fu scelta una villa a Staten Island. Gli uomini di Colombo chiesero agli abitanti di accogliere la troupe nel miglior modo possibile. Frederickson, che ancora oggi non riesce a nascondere lo stupore, racconta che “molti iscritti alla lega italoamericana furono usati come comparse nella scena”, le stesse persone che fino a poco tempo prima gli sbattevano la porta in faccia.

Un giornalista sulla scena

Ma il ruolo di Colombo nella produzione aveva attirato l’attenzione dei capi delle altre famiglie mafiose di New York. Tutti volevano dire la loro sulle riprese e per riuscirci erano disposti a usare qualunque mezzo. Ne sa qualcosa Andrea Eastman, che insieme a Fred Roos si occupò della selezione degli attori.

“Ricevevo chiamate strane”, ricorda Eastman, che poi sarebbe diventata l’agente di attori importanti come Sylvester Stallone, Dustin Hoffman e Barbra Streisand. “Un uomo mi chiamava continuamente al telefono e diceva: ‘Ragazza mia, apri bene le orecchie, dovrai far lavorare il signor Dante, altrimenti non si potranno girare le scene a New York”. Eastman non ha mai saputo chi fosse questo misterioso signor Dante.

Durante le riprese del Padrino nel quartiere di Little Italy, a New York, aprile 1971 (Anthony Pescatore, NY Daily News/Getty Images)

Per chiarire la situazione Ruddy le propose di andare a pranzo con Joseph Colombo. “Mi ricordo ancora il ristorante, si chiamava Alfredo. Mi chiedevo cosa ci facessi lì. Ero seduta vicino a un uomo che si faceva chiamare Butter (burro). Indossava un completo marrone, sembrava un ragioniere. Gli dissi di questo signor Dante e lui mi chiese: ‘Vuole che la liberi di questo scocciatore gettandolo dalla finestra?’”. Butter era uno dei killer più importanti della mafia, e Andrea Eastman non sentì mai più parlare del signor Dante.

Le riprese erano al centro dell’attenzione di tutti. Il New York Times mandò Nicholas Pileggi, un giornalista che dal 1956 si occupava della criminalità organizzata a New York.

La mattina del 12 aprile 1971 Pileggi arrivò sul set a Mott street, a Little Italy. Tra le scene in programma c’era quella del tentato omicidio di Vito Corleone ordinato da una famiglia rivale. Marlon Brando cadeva a terra e poi si rialzava, ogni volta tra gli applausi degli abitanti del quartiere. “Avevo l’impressione che Brando fosse tornato a teatro”, ricorda il giornalista, che in seguito avrebbe scritto le sceneggiature di Quei bravi ragazzi (1990) e di Casinò (1995) di Martin Scorsese.

Ma mentre Brando provava la scena, Pileggi notò che poco lontano c’era un vero padrino, Carlo Gambino, il cui impero era stimato in decine di miliardi di dollari. Era seduto nel retrobottega del caffè Ferrara, su Grand street, insieme al fratello e a cinque guardie del corpo. “Beveva tranquillamente il suo caffè mentre dava udienza. Le persone che volevano chiedergli un favore aspettavano in un ristorante dall’altra parte della strada e una dopo l’altra, a turno, entravano nel bar. Sembrava di essere in un tribunale siciliano del settecento, con la piccola differenza che eravamo a New York nel 1971”, scrisse Pileggi nel suo articolo.

Un boss fasullo

Il giornalista notò anche altri due mafiosi di cui aveva parlato nei suoi reportage. Entrambi seguivano con molto interesse le riprese della morte di Vito Corleone e non erano per niente soddisfatti. Dissero all’operatore, agli elettricisti e alle comparse che nel ruolo del padrino avrebbero preferito Anthony Quinn o Ernest Borgnine. Secondo loro Brando non era per niente adatto. Il suo cappello era ridicolo e non apprezzavano il modo in cui l’attore si stringeva la cintura lasciando intravedere la pancia (un vero padrino non si sarebbe mai lasciato andare in quel modo). Per non parlare del diamante che aveva sulla fibbia della cintura.

Secondo loro Brando somigliava a un pupazzo di neve. E i due killer che gli sparavano tenevano in mano la pistola come se fosse un mazzo di fiori. Ma per il resto erano contenti dell’atmosfera che c’era sul set. Dopotutto il film era girato praticamente a casa loro.

La presenza della mafia sul set spingeva alcuni attori a sostenere di avere un passato criminale. “Tra questi c’era Alex Rocco, che interpretava Moe Greene, il direttore di un casinò di Las Vegas, e diceva di essere stato in galera”, racconta Fred Roos. “Nel suo caso era vero, ma molti altri raccontavano storie completamente inventate”.

Lenny Montana, ex lottatore di wrestling appena assolto da un’accusa di tentato omicidio, fu scelto per interpretare Luca Brasi

James Caan, che interpretava il figlio maggiore del padrino, stabilì dei rapporti così stretti con il mondo criminale che a un certo punto l’Fbi cominciò a indagare su di lui.

Nel film recitano molti amici di Joseph Colombo. A cominciare da Gianni Russo, un attore senza esperienza a cui fu assegnato il ruolo del genero del padrino, sposato con la sua unica figlia (interpretata da Talia Shire, la sorella del regista Francis Ford Coppola).

“Ci era stato imposto”, ricorda Fred Roos. “Non sapevamo niente di lui, ma lavorando con Francis diventò bravo”. Aggiunge Nicholas Pileggi: “Conosco Gianni da quarant’anni. I mafiosi lo trovano simpatico”.

Tra gli amici di Colombo che recitano nel film c’è anche Lenny Montana, una delle sue tante guardie del corpo. Ex lottatore di wrestling appena assolto da un’accusa di tentato omicidio, fu scelto per interpretare Luca Brasi, uno degli uomini del clan Corleone che si vede all’inizio del film, nella scena del matrimonio, mentre ripete in continuazione le frasi che sta per dire al padrino. “Lenny Montana era incredibile”, ricorda Gray Frederickson. “Quando Coppola cominciò a mostrargli come scaricare una pistola, si voltò verso di me e mi chiese: ‘Sta dicendo sul serio o scherza?’”.

Il 28 giugno 1971, al 66° giorno di riprese, Joseph Colombo fu vittima di un attentato. Un sicario lo colpì con tre proiettili, di cui uno alla testa, lasciandolo paralizzato e incapace di parlare. Sarebbe morto d’infarto nel 1978. Per la polizia il principale sospettato era Joe Gallo, un mafioso che aveva fatto parte della famiglia Colombo e poi ne era uscito, e che nel 1972 fu trovato morto in un ristorante a Little Italy. La polizia indagò anche su Carlo Gambino, ma non riuscì mai a trovare delle prove.

Di fatto Colombo era stato colpito perché aveva troppa visibilità. Le sue attività politiche e la presenza sui mezzi d’informazione avevano finito per preoccupare i suoi nemici.

“I mafiosi sono paranoici”, dice Pileggi. “Hanno avuto paura. Colombo era diventato troppo famoso e hanno creduto che li avrebbe eliminati”.

Come ha spiegato Coppola a Frede­rickson: “Prima di cominciare il film ci dicevamo: ‘Oggi questi mafiosi non passano più il loro tempo a uccidersi tra di loro. Ora non è più così’. Pensavamo di avere un problema, di non essere in sintonia con la realtà”.

Finzione e realtà

Ruddy non riuscì mai a onorare la promessa fatta a Colombo di organizzare una prima visione per la lega italoamericana. “La Paramount si oppose e io non potevo farci niente. Gli uomini di Colombo mi avevano detto: ‘Quando si fa un film sulla seconda guerra mondiale, i generali sono in prima fila. Perché noi non dovremmo esserci?’. Ma per me era complicato invitarli a una proiezione in cui c’era Henry Kissinger”, all’epoca consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Richard Nixon.

Ruddy riuscì comunque a procurare ai mafiosi una copia della pellicola per organizzare una loro proiezione. “Erano pazzi di gioia. Il proiezionista mi disse che non aveva mai ricevuto una mancia di mille dollari”. Pileggi ricorda che nella sala del Paramount village, un vecchio cinema di Brooklyn, c’erano Henry Hill, Paul Cicero e Tommy DeSimone, i tre mafiosi interpretati rispettivamente da Ray Liotta, Paul Sorvino e Joe Pesci in Quei bravi ragazzi di Scorsese. Tempo dopo Pileggi chiese a Hill cosa pensasse del film. La risposta fu: “Non credevamo di essere così importanti”.

Grazie al Padrino i mafiosi, figli di immigrati poveri si sentirono finalmente accettati. Tutto il mondo imparò a conoscere il loro stile di vita, i loro codici, i loro crimini e i loro valori.

Da allora finzione e realtà sono intrecciate. Quando Coppola girò Il padrino-Parte II e Il padrino-Parte III, non ci furono problemi con i mafiosi. Anche se la sceneggiatura di quei due film era ancora più realistica – con la rivoluzione a Cuba e gli intrighi finanziari in Vaticano – il mondo mafioso non si preoccupava più di come appariva sullo schermo.

Ormai i mafiosi di tutto il mondo consideravano Il padrino una sorta di documentario che riconosceva la loro importanza. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1451 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati