Da qualche tempo Sam Vea sentiva odore di zolfo – solo vagamente infernale, come un lontano sentore di aldilà, ma comunque zolfo. Eppure quel sabato sera, quando c’è stata l’esplosione, è saltato su spaventato. Sembrava così vicina che ha pensato a un disastro proprio lì, nel suo quartiere. Le finestre tremavano. Le tende sono cadute. Vea ha dato un’occhiata fuori ma non ha visto niente di strano, così ha guardato la moglie e ha detto: “Dev’essere il vulcano”. Vea e la moglie vivono a Tofoa: immaginandosi l’isola principale di Tonga, Tongatapu, come una lunga scarpa medievale, Tofoa si trova appena sotto il collo del piede, su una dolce collina. Erano appena rientrati a casa dopo aver accompagnato le figlie a un compleanno, ma Vea è corso subito verso il furgone per andare a riprenderle. Sulla via del ritorno la strada si è riempita di auto che si allontanavano precipitosamente dal mare, mentre dal cielo cadevano minuscoli sassolini.

Non molto tempo prima, curioso di vedere com’era una grande eruzione vulcanica, Vea aveva guardato Dante’s peak, la furia della montagna su Netflix. Nel film, ricordava, un masso bianco incandescente aveva sfondato il tetto di un camion e ucciso la partner di Pierce Brosnan, perciò ha accostato al riparo per aspettare che il traffico si diradasse. Il cielo si è chiazzato di polvere e cenere. Gli autisti scendevano, si toglievano le magliette e pulivano i parabrezza per riuscire a vedere la strada. Quando sono arrivati a casa, due ore e mezza dopo, Vea ha mandato le figlie a nascondersi sotto il letto.

Il vulcano, dal nome solenne e roboante di Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, si trova 65 chilometri a nord di Tongatapu – in gran parte sotto l’oceano Pacifico, ma con due strisce di terra che emergono dall’acqua come le orecchie di un gatto annegato. Dopo una serie di brevi eruzioni nel mese precedente, cioè nel dicembre 2021, l’Hunga Tonga-Hunga Ha’apai aveva continuato a gorgogliare e ribollire. Quel 15 gennaio dalla sua bocca esplosero più di dieci miliardi di metri cubi di sedimenti e roccia fusa con la forza di quello che gli scienziati chiamano magma hammer, “martello di magma”, scagliando nell’atmosfera una colonna di cenere alta almeno 55 chilometri. È stata la più grande esplosione atmosferica registrata dagli strumenti moderni, superiore a qualunque bomba nucleare mai fatta detonare. L’hanno sentita addirittura in Alaska.

Durante il tragitto verso casa, Vea aveva telefonato ai parenti negli Stati Uniti con Facebook Messenger per far sapere che stava bene. Ma durante la conversazione la linea era caduta. Aveva pensato che la rete fosse sovraccarica perché tutti si stavano collegando contemporaneamente. “È un problema che abbiamo spesso”, mi dice. Vea è un operatore della Dhl a Tonga. È anche il presidente della camera del commercio e dell’industria dello stato insulare, e ci incontriamo nel suo ufficio sobrio e soleggiato nella capitale Nuku’alofa, a tre strade dall’oceano Pacifico. Le tende rosse fanno filtrare il sole dandogli una sfumatura spenta color anguria.

Vea ha un’espressione perennemente allegra, ed è difficile immaginarlo preoccupato come nel giorno dell’eruzione, seduto nel suo furgone in mezzo a una pioggia di cenere, con lo sguardo fisso sul suo telefono improvvisamente inutile. Aveva deciso che avrebbe provato a richiamare i parenti più tardi, quando il traffico online si fosse ridotto. Ma a casa la corrente era saltata impedendogli di ricaricare il telefono, perciò è stato solo il mattino dopo, quando si è sintonizzato su Radio Tonga, che ha scoperto che il paese aveva completamente perso l’accesso a internet – e quindi a tutti i suoi mezzi per raggiungere il resto del mondo.

Come una lumaca senza guscio

Nelle profondità abissali dell’oceano, un cavo dati è una cosa gracile e indifesa, come una lumaca privata del guscio. Il suo nucleo è fatto di fibre di vetro, ciascuna grosso modo dello spessore di un capello, attraverso le quali la luce trasmette informazioni a circa 200mila chilometri al secondo. Intorno alle fibre c’è prima una guaina d’acciaio protettiva, poi un’altra di rame per trasportare l’elettricità che mantiene in movimento la luce, e infine un rivestimento di nylon impregnato di catrame. Tutto questo involucro può sembrare una protezione più che adeguata, ma gli strati sono sottili, e il prodotto finale è – per usare l’immagine che ho sentito spesso dalle persone dell’industria dei cavi sottomarini – non più grosso di un tubo da irrigazione.

Questi cavi poggiano sul fondale marino e trasportano il 95 per cento di tutto il traffico internet del mondo. L’essere umano ne ha posati 1,4 milioni di chilometri, collegando e ricollegando i giunti sulle nostre coste, allacciando insieme tutta la Terra. I cavi partono da luoghi come Crescent Beach a Rhode Island, Wall Township nel New Jersey, e Island Park nello stato di New York, e terminano in località come Penmarch in Francia, Bilbao in Spagna, o Bude nel Regno Unito. Sul pianeta ci sono circa 550 cavi sottomarini di questo tipo, e ogni giorno se ne costruiscono altri. Una società finlandese una volta aveva progettato di spendere un miliardo di dollari per posarne uno sotto il mar Glaciale artico – un’impresa facilitata dalla rapidità con cui il ghiaccio si sta sciogliendo. Al termine dei lavori, il cavo avrebbe ridotto di 20-60 millisecondi la velocità delle transazioni bancarie tra Tokyo e Londra. Per il momento, l’Antartide è l’unica grande massa terrestre del pianeta priva di cavi, ma non lo sarà ancora a lungo. Gli Stati Uniti hanno dei piani.

Il cavo che collega Tongatapu alle Fiji e da lì al resto del mondo è lungo quasi 830 chilometri e fa parte di una rete chiamata Southern Cross, croce del sud. È stato attivato nel 2013. Un cavo nazionale di 400 chilometri tra Tongatapu e l’isola settentrionale di Vava’u è entrato in funzione nel 2018. In generale, quest’angolo di Pacifico è una zona difficile per i cavi sottomarini. Al pericolo dei vulcani si aggiungono ripide scarpate subacquee piene di canyon e la minaccia costante di terremoti.

Un anno e mezzo dopo l’eruzione dell’Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, nessuno sapeva con precisione cos’era successo quel sabato sul fondo dell’oceano. Ma il geologo Mike Clare, del National oceanography centre di Southampton, nel Regno Unito, aveva analizzato tanti rilevamenti sonar e tanti campioni di sedimento da elaborare una sua teoria. Diceva così: quando l’Hunga Tonga-Hunga Ha’apai ha sparato le sue viscere nell’atmosfera, la roccia densa e i sedimenti si sono riversati nell’oceano a un ritmo furibondo, hanno colpito i fianchi del vulcano e sono piombati giù lungo i suoi pendii. “È come una valanga, o come lo scivolo d’acqua in un parco divertimenti”, dice Clare. Lungo il percorso, il flusso piroclastico ha acquistato ancora più potenza, tanto che, quando ha incontrato il cavo nazionale a pochi chilometri di distanza, si muoveva alla velocità di un’auto in corsa. La partita era finita prima di cominciare.

Roccia e fango hanno divorato circa cento chilometri del cavo nazionale e li hanno seppelliti sotto più di venti metri di sedimenti. Un’altra parte del flusso piroclastico, o forse la stessa, ha reciso novanta chilometri di cavo a metà del collegamento internazionale con le Fiji.

Il giorno dell’eruzione, quando Clare si è svegliato a Southampton, il suo feed di Twitter era già inondato di discussioni e immagini satellitari. Gli è stato necessario quasi tutto il giorno, come a gran parte del mondo esterno, per rendersi conto che Tonga aveva perso internet. “In sostanza, avviene l’eruzione e 15 minuti dopo c’è un calo di circa la metà del traffico internet originario, e poi, un’oretta dopo l’eruzione, la linea si azzera”.

È stato quello il momento in cui il cellulare di Sam Vea si è ammutolito. Anche le linee fisse hanno smesso di funzionare, perché a Tonga, come in altri paesi, vengono ormai instradate sui cavi dati. A Southampton, Clare poteva guardare le foto satellitari e capire che l’eruzione aveva lasciato intatte Vava’u, Tongatapu e altre isole, ma i tongani non potevano esserne certi. Non avevano modo di comunicare tra loro o di informarsi sulle condizioni del resto del paese. “Per una settimana non ho saputo cos’era successo alla mia famiglia a Tongatapu”, mi racconta un uomo di Vava’u.

La materialità della rete

Abitiamo internet in una condizione strana, paradossale. È ovunque, disponibile quando vogliamo, come l’aria che respiriamo. Questo ci permette di dimenticare non solo la sua materialità – infinite quantità di metalli e plastiche fuse e modellate in cavi, router, centri dati, server, torri e ripetitori – ma anche la sua centralità nelle nostre vite. Ci siamo lasciati cullare dall’idea che internet sia solo un veicolo per email, app, selfie, riunioni su Zoom e siti web. Che la vita oggi si basi su internet è una realtà che diventa visibile solo quando qualcosa si spezza, come l’unico cavo che corre verso Tonga.

Il vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai venti giorni prima della grande eruzione, 24 dicembre 2021 (Maxar/Getty)

Le prime a essere colpite, ovviamente, sono state le comunicazioni. Dopo un disastro, anche un semplice messaggio di testo assume la massima importanza. Stai bene? La tua casa è ancora in piedi? L’acqua è potabile? A Tonga si usa soprattutto Messenger, specialmente nelle isole esterne, dove la linea telefonica è discontinua, e senza questo strumento la gente si è dovuta mettere in strada – o in mare, o in aria – per scoprire qualcosa. Australia e Nuova Zelanda hanno dovuto inviare aerei da ricognizione per valutare a occhio nudo l’entità dei danni.

Il commercio si è fermato. L’eruzione era capitata nel bel mezzo della pandemia di covid-19, perciò la Dhl volava alle Tonga solo una volta alla settimana, ma senza internet Vea non poteva preparare o ricevere le liste dei carichi. I bancomat sono stati chiusi, perché le banche non potevano verificare quanti soldi i clienti avessero nel conto – e questo, in un’economia ancora abituata al contante, ha gravato immediatamente sui mezzi di sostentamento. Chi aveva allevamenti ittici o coltivazioni di zucca e frutto del pane non poteva compilare i moduli di conformità e quarantena necessari per esportare i prodotti. I tongani che vivevano all’estero non potevano mandare soldi a casa per aiutare le famiglie – e in quel momento le rimesse dall’estero costituivano il 44 per cento del pil del paese.

Quando sono venuto a sapere che non c’era più internet a Tonga, ho pensato che i suoi cittadini erano stati scaraventati negli anni novanta. Ma in realtà internet ha sostituito così tante tecnologie che il paese è stato catapultato ancora più indietro, in un’epoca precedente all’arrivo del telegrafo e dei voli di linea in queste aree. Per un solo cavo rotto, Tonga è precipitata in un tipo di isolamento che non vedeva da oltre un secolo.

Un’eruzione vulcanica è solo uno dei molti pericoli che minacciano la rete globale di cavi dati sottomarini. Alcuni sono marini o geologici: frane, forti correnti, rarissimi attacchi di squali. Altri sono il prodotto di incidenti umani, come un’ancora gettata male o un peschereccio che traina le reti troppo vicino a un cavo. Questo genere di pericoli accompagna i cavi fin dalla metà dell’ottocento, quando gli esseri umani decisero per la prima volta di posare un cavo del telegrafo sul fondo del mare. I rischi emersi nell’ultimo decennio sono i comportamenti scorretti delle aziende e i conflitti geopolitici. Sempre più spesso i cavi sottomarini sono commissionati e posseduti da un gruppo molto ristretto di grandi aziende tecnologiche private, come Google e Meta, società statunitensi che non hanno difficoltà a pagare centinaia di milioni di dollari per un’infrastruttura del genere. Parallelamente, le grandi potenze si sono rese conto che i cavi dati in acque internazionali sono ottimi bersagli perché sono molto importanti e allo stesso tempo molto remoti. Stati Uniti e Cina cercano regolarmente di ostacolare i rispettivi progetti in materia di cavi: permessi negati, contratti bloccati, intrighi attorcigliati come matasse. Le nazioni europee sono sempre più convinte che i loro cavi sottomarini siano deliberatamente danneggiati da “flotte ombra” russe o cinesi: imbarcazioni civili che agiscono per conto dei loro governi.

Quello che è successo a Tonga in teoria potrebbe accadere ovunque, anche ai paesi più grandi e più ricchi. Oggi il mondo dipende totalmente da questi cavi, che intanto sono sempre più esposti ai capricci di aziende o stati canaglia. Il futuro di internet comporterà in parte la trasformazione della sua rete di cavi sottomarini in un’arma. L’informazione, dopotutto, è ricchezza e potere, non solo per come la usi, ma per come puoi soffocarla. L’incolumità dei cavi nell’oceano è un problema di sicurezza nazionale, un presupposto essenziale per l’economia e una questione di vita o di morte, letteralmente.

Il mio secondo giorno a Tonga m’incammino verso ovest per allontanarmi da Nuku’alofa, superando il molo dove le navi da crociera sfiorano la riva, svoltando intorno al complesso del parlamento, passando oltre il palazzo reale e imboccando la strada costiera. Il pomeriggio è caldo, e il sole scintilla sul Pacifico, così quando un’auto della polizia rallenta e mi offre un passaggio accetto. Mi lascia davanti a un piccolo edificio con la facciata in vetro, di fronte al mare: la sede della Tonga Cable Limited, e anche la stazione di approdo del cavo internazionale che arrivava nel paese dalle Fiji. Il cavo internazionale finisce in una stanza gelida, con vari armadi di metallo verniciato pieni di alte pile di server e switch.

Insignificanti e inviolabili

Le stazioni dei cavi si trovano su ogni tipo di costa: spiagge magnifiche, punte marittime di metropoli brulicanti, insenature di fiordi, oppure vicino a foreste o deserti. Ma di per sé le stazioni sono quasi identiche: pezzi universali di infrastruttura internet refrigerata calati in contesti profondamente locali. Sono costruite per apparire esteriormente insignificanti ma anche inviolabili. Spesso non hanno insegne e non forniscono indizi sul loro scopo. Le specifiche tecniche sono categoriche. “Può resistere allo schianto di un aereo leggero? Ha un tetto a doppio strato estremamente resistente”, ha detto un imprenditore del settore a Nicole Starosielski nel suo libro The undersea network (la rete sottomarina). “Può resistere a un camion da venti tonnellate che va a ottanta chilometri orari? Sì, grazie al modo in cui è costruito”. Le stazioni sono in grado di reggere incendi, inondazioni, blackout, caldo intenso, gelo e giornate umide. Ma quello che di certo le mette fuori gioco è un cavo reciso in mare aperto.

Al momento della mia visita, l’amministratore delegato della Tonga Cable è un uomo elegante e affabile di nome Semisi Panuve. Il giorno dell’eruzione, a tarda sera, quando pensava che la cenere nell’aria fosse stata spinta in alto mare, Panuve si è avviato a piedi verso la stazione della Tonga Cable. Ma già a meno di un chilometro di distanza si è accorto che più avanti la strada era bloccata da rocce e detriti. In alcuni punti, intere barche erano state scaraventate sulla terraferma.

L’isola di Atata dopo l’eruzione, Tonga, 28 gennaio 2022 (Christopher Szumlanski, Australian defence force/Ap/Lapresse)

Verso mezzanotte sono arrivati dei soldati per sgomberare la strada. Poi Panuve, il suo vice, Sosofate Kolo, e un gruppo di ingegneri si sono preparati a una notte di lavoro. Hanno controllato i server e l’alimentazione, ma sembrava tutto a posto. Gli allarmi del sistema di monitoraggio erano illuminati come un albero di Natale, il che indicava un guasto al cavo. Non ci è voluto molto per formulare la diagnosi; in realtà a Kolo era sembrata ovvia nel momento in cui aveva perso la connessione a internet, qualche ora prima, mentre era su Facebook. La mattina dopo la squadra ha fatto un controllo della fibra con rifrattometro ottico, che consiste nell’inviare una serie di segnali luminosi lungo il cavo e misurare l’intensità degli impulsi retrodiffusi. Questo ha aiutato a localizzare l’interruzione: una quarantina di chilometri al largo della costa di Tongatapu.

Erano informazioni sufficienti per presentare una richiesta di riparazione d’emergenza. Come altri operatori, la Tonga Cable faceva parte di un consorzio regionale per la manutenzione dei cavi, e pagava un “abbonamento” trimestrale all’azienda SubCom per tenere nell’area una nave pronta a intervenire in caso di guasti. Per contattare la SubCom, Panuve ha trovato un telefono satellitare di proprietà della Tonga Cable. “Ci abbiamo messo un po’ a capire se funzionava ancora”, racconta, “perché non lo usavamo dal 2019, quando il cavo si era rotto per colpa dell’ancora di una nave”. Poi non hanno potuto far altro che aspettare l’arrivo dei soccorsi.

Anche il governo di Tonga stava cercando un modo per tornare online. “Non eravamo preparati, anche se nel 2019 era già successo che il cavo si spezzasse”, mi racconta, ridendo con imbarazzo, Stan Ahio, un funzionario del Meidecc, una sorta di ministero tuttofare responsabile di meteorologia, energia, informazione, gestione dei disastri, ambiente, crisi climatica e comunicazioni. Il giorno dopo l’eruzione, Ahio si è ricordato che il ministero possedeva un vecchio telefono satellitare. “Avevamo smesso di pagare l’abbonamento due anni prima, ma ho pensato: ‘Là fuori sapranno cosa sta succedendo, capiranno che è un’emergenza e ce lo riattiveranno’”, racconta. Aveva ragione.

Bisogni limitati

“La prima persona che chiamai fu mia sorella in Nuova Zelanda”, ricorda Ahio, e a questo punto le sue risatine si trasformano in singhiozzi sommessi. Non c’entrava la fredda tecnologia, ma la prova di essere vivi. “È stato un periodo molto difficile”. Si concede qualche secondo prima di riprendere. “Poi abbiamo chiamato l’International telecommunication union, un’agenzia delle Nazioni Unite, per vedere se riuscivamo ad avere un po’ di connessione satellitare”. Ci sono voluti tre o quattro giorni per ripristinare le parabole satellitari sull’isola e ottenere il primo, magro assaggio di banda: 120 megabyte al secondo, razionati per i ministeri e altre attività essenziali.

Che la vita oggi si basi su internet è una realtà che diventa visibile solo quando qualcosa si spezza, come l’unico cavo che corre verso Tonga

Nelle isole periferiche non c’erano telefoni satellitari o parabole da riattivare. A Vava’u le persone cercavano di comunicare al mondo che stavano bene. Se non fosse stato per Roy Neyman, un uomo che aveva attraccato lì la sua barca, per giorni non sarebbero riusciti a mandare notizie. Sul suo yacht Neyman aveva un dispositivo Garmin che inviava costosi messaggi di testo via satellite, e l’ha usato per contattare agenzie governative in Australia e Nuova Zelanda. Per un po’ ha allestito un centro di comunicazione in un bar dove gli abitanti potevano dettargli i loro messaggi, come se fosse lo scrivano di un villaggio medievale, per raggiungere i parenti d’oltremare. In due settimane ha inviato 1.600 messaggi (su sua richiesta, la Garmin ha coperto i costi). Ma questo bastava a soddisfare bisogni molto limitati. Gli isolani non potevano ancora comunicare tra loro e non avevano modo di accedere a internet per inviare email più lunghe, per recuperare il denaro spedito dall’estero o riprendere le loro attività commerciali. I bancomat restavano spenti.

Dopo un paio di settimane, quando il governo ha ripristinato i voli giornalieri tra Tongatapu e Vava’u, si è improvvisata una soluzione strana e tortuosa: ogni mattina una banca a Tongatapu scaricava su una chiavetta usb un file con i dati dei conti dei residenti di Vava’u; la chiavetta veniva poi portata in aereo a Vava’u, dove la filiale poteva segnare sul file prelievi e depositi; la sera stessa, la chiavetta tornava a Tongatapu per permettere l’aggiornamento del database principale della banca.

Un mese dopo l’eruzione del vulcano, la SpaceX ha donato a Tonga cinquanta antenne Starlink, la prima grossa fetta di connettività per il paese. Le antenne erano state distribuite tra istituzioni come ministeri e banche, ma anche centri comunitari, ristoranti e altre attività e spazi pubblici. Molte sono andate alle isole esterne, compresa Vava’u. “Il wifi era gratuito, chiunque poteva avvicinarsi e usarlo”, spiega Ahio. “Era sempre sovraccarico!”. Una diplomatica straniera mi spiega che in queste oasi di wifi i tongani si fermavano fino a notte inoltrata per non restare indietro con il lavoro: “Una donna mi ha raccontato che stava seguendo un corso online all’Università del Pacifico del Sud, e che doveva sedersi in macchina per svolgere i suoi compiti”.

Dopo aver chiamato la SubCom per chiedere la riparazione del cavo, il primo grattacapo di Semisi Panuve era la quantità di cavo mancante. L’eruzione aveva tagliato una sezione di quasi 90 chilometri al centro, quindi si trattava di un lavoro di riparazione particolarmente esteso. Le aziende di regola tengono cavi di riserva in depositi sparsi per il mondo – a Cadice e alle Bermuda, a Wujing e ad Apia. In quelle di Apia, alle Samoa, gestito dalla SubCom, c’era solo una trentina di chilometri di cavo adatto a essere innestato in quello di Tonga. Era una lunghezza ragionevole per la maggior parte delle urgenze, ma non per la più potente eruzione vulcanica sottomarina mai registrata. Sempre nella zona, la SubCom aveva una nave posacavi, un’imbarcazione di 140 metri chiamata Reliance. Quando il cavo di Tonga si è rotto, la Reliance era attraccata in Papua Nuova Guinea, un colpo di fortuna. La nave ha dovuto aspettare l’arrivo di un ingegnere dagli Stati Uniti. Salpare alla volta delle Samoa per recuperare il cavo di riserva e altre attrezzature necessarie ha richiesto quasi una settimana.

Per localizzare la rottura orientale del cavo, al largo di Tongatapu, ci sono voluti sette tentativi, anche con l’aiuto di un veicolo subacqueo

Quando ha avviato i lavori di riparazione, in acque profonde quasi due chilometri, la Reliance ha scoperto che la rottura del cavo non era una faccenda ordinaria. Di solito, quando una nave trascina un rampino sul fondale per agganciare l’estremità spezzata di un cavo, bastano un paio di manovre per centrare il bersaglio. Per localizzare la rottura orientale del cavo, al largo di Tongatapu, ci sono voluti sette tentativi, anche con l’aiuto di un veicolo subacqueo comandato a distanza (Rov). Dopo aver fissato quell’estremità a una boa, la Reliance si è ediretta verso le Fiji per cercare l’altra estremità guasta e legarla a sua volta a una boa di superficie – un’impresa difficile perché sott’acqua la visibilità era così offuscata da limo e sedimenti che il Rov forniva solo poche immagini nitide.

Di nuovo al buio

La Reliance è tornata al cavo che partiva da Tongatapu, l’ha sganciato dalla boa e l’ha unito al cavo di riserva a bordo. Poi, srotolandolo mentre avanzava lentamente verso ovest e posandolo con cura in modo da avere abbastanza lasco, l’equipaggio ha unito l’altra estremità al cavo proveniente dalle Fiji. La giunzione è una cosa complicata: prima si rimuovono i vari strati protettivi del cavo; poi si puliscono le fibre di vetro in un bagno sonico (con quello che è sostanzialmente un suono ad alta frequenza), perché anche il contatto più delicato potrebbe mandarle in frantumi; quindi si collocano delicatamente le due estremità in una giuntatrice a fusione grande come una scatola di scarpe. Un arco elettrico fonde insieme le fibre di vetro. Poi il vetro dev’essere di nuovo rivestito. L’intero processo può richiedere quasi una notte, a volte di più, e si svolge in una stanza che sale, scende e oscilla con il moto ondoso dell’oceano.

La riparazione del cavo internazionale ha richiesto cinque settimane. La capitale di Tonga, i ministeri, i commercianti, gli operatori della Dhl, gli insegnanti, i venditori su Facebook e i diplomatici erano tornati tutti online. Vava’u, invece, sembrava destinata a un futuro di chiamate Whats­App fatte nei locali pubblici, di compiti svolti nei parcheggi, e più in generale di una vita senza internet a portata di mano. Solo nell’agosto 2023, a più di diciotto mesi dalla rottura del cavo, la banda larga è tornata a Vava’u. Quando ci sono andato, un paio di mesi dopo, la gente sembrava ancora festeggiare. Potevi di nuovo controllare la posta elettronica ovunque. La maggior parte delle antenne Starlink è stata disinstallata.

Ma l’estate dopo un altro terremoto ha tranciato lo stesso cavo nazionale. Il governo di Tonga aveva appena ordinato alla Starlink di sospendere le operazioni nel paese in attesa di ottenere una licenza completa, così Vava’u si è ritrovata di nuovo al buio.

Quando leggo la notizia, ripenso alla conversazione con Sam Vea. L’unico modo per impedire che un guasto al cavo paralizzi il paese, mi ha detto, è garantire a Tonga un secondo cavo, con un tracciato diverso. Vea mi ha mostrato un documento: un aggiornamento del piano di investimenti infrastrutturali del governo tongano per il decennio, emesso dopo l’eruzione dell’Hunga Tonga-Hunga Ha’apai. Un nuovo cavo nazionale per collegare Tongatapu a Vava’u era balzato in cima alla lista delle priorità – sopra l’ammodernamento degli ospedali e dei sistemi idrici, sopra la costruzione di un nuovo ponte, sopra la ristrutturazione del parlamento e dei tribunali. Il governo stimava un costo di circa 16 milioni e mezzo di dollari. Vea ha alzato le spalle. Dove avrebbe trovato Tonga tutti quei soldi? Già si affidava a finanziatori e governi amici per costruire le scuole e riparare le strade e, come nazione di piccole isole, sperava anche di ottenere fondi nell’ambito dell’accordo di Parigi per contrastare il cambiamento climatico. Un nuovo cavo dati sarebbe potuto arrivare solo grazie a una generosa donazione.

A distanza di 165 anni dalla posa del primo collegamento telegrafico, questi cavi continuano ad avvolgere il mondo come vogliono le grandi potenze e le loro aziende – al punto da diventare pedine nelle loro lotte, plasmando e distorcendo l’internet che conosciamo. ◆ gc

Samanth Subramanian è un giornalista indiano che vive a Londra. Questo articolo è un estratto del suo ultimo libro The web beneath the waves. The fragile cables that connect our world (Columbia Global Reports 2025).

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Questo articolo è uscito sul numero 1639 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati