Una laguna turchese circondata dalla barriera corallina e dal blu intenso dell’oceano. L’isola di Aitutaki è un classico atollo, un vero paradiso dello snorkeling (l’osservazione del fondo marino nuotando con maschera e boccaglio). Con un po’ di fortuna si riescono ad avvistare perfino le megattere, che arrivano ogni anno dall’Antartide per riprodursi. Qui e sulle altre 14 isole Cook, nell’oceano Pacifico meridionale, solo gli abitanti del posto sono autorizzati a pescare: le prime cinquanta miglia nautiche dalla costa sono vietate ai grandi pescherecci. Lo prevede la legge che nel 2017 ha creato una zona marittima protetta con il nome di Marae moana, che in maori significa più o meno “oceano sacro”.

Queste acque, però, nascondono tesori ben più ghiotti dei pesci. Nel giugno 2020, neanche tre anni dopo aver ottenuto il plauso internazionale per l’istituzione della zona marittima protetta, le isole
Cook hanno annunciato l’avvio di un progetto per la ricerca dei noduli polimetallici, chiamati anche noduli di manganese, la materia prima intorno a cui ruota una moderna corsa all’oro che si svolge seimila metri sotto il livello del mare. Il progetto, tuttavia, è una minaccia per gli organismi che popolano il mare.

I noduli di manganese contengono cobalto, nichel, rame e tracce di terre rare, metalli sempre più richiesti per produrre batterie per gli smartphone, i tablet e le auto elettriche, ma anche gli impianti eolici e solari. Oggi questi metalli si estraggono dalle miniere aperte sulla terraferma, in condizioni spesso difficili sia dal punto di vista ambientale sia da quello dei diritti umani. Da sempre alla ricerca di un’alternativa, le aziende estrattive puntano soprattutto sui noduli di manganese, che da più di 15 milioni di anni giacciono sui fondali, tra i quattro e i seimila metri di profondità, uno dei posti più freddi e bui che ci siano al mondo. La loro presenza è nota da decenni: i noduli suscitavano l’entusiasmo di scienziati e industriali già negli anni settanta, solo che i costi delle attività di esplorazione erano proibitivi. Oggi non è più così: la tecnologia ha fatto progressi enormi, e più cresce il prezzo dei metalli più cresce l’interesse a sfruttare le risorse minerarie dei fondali oceanici.

Una delle aziende più ambiziose è la canadese Deep Green. L’attività mineraria nelle acque profonde è il futuro, è molto più sostenibile dell’estrazione sulla terraferma, sostiene il suo amministratore delegato Gerard Barron in un video promozionale: “Diciamo basta al disboscamento e al lavoro minorile. Vogliamo che l’approvvigionamento di questi importanti metalli sia realmente più sostenibile”.

Migliaia di miliardi

Per realizzare la transizione energetica il mondo ha bisogno di metalli. Secondo la Banca mondiale, entro il 2050 la produzione di cobalto, litio e grafite dovrebbe crescere del 450 per cento. La Deep
Green si sente all’altezza del compito, sostenendo di poter fornire noduli di manganese a sufficienza per 250 milioni di auto elettriche. Diverse multinazionali credono alle promesse della Deep Green e fiutano affari d’oro. Si stima che il valore complessivo dei noduli di manganese viaggi nell’ordine delle migliaia di miliardi. Tra gli investitori ci sono anche aziende come la svizzera Glencore, prima fornitrice mondiale di cobalto, che si è già assicurata opzioni per l’acquisto dei noduli. Oppure la All­seas, che a marzo 2020 ha comprato una nave lunga 228 metri finora usata per la trivellazione nelle acque profonde. L’imbarcazione sarà modificata per l’estrazione di materie prime dai fondali.

Resta irrisolto però un grande problema: come si fa a portare in superficie i noduli senza danneggiare il mare? Le profondità oceaniche sono popolate da organismi di ogni tipo, ancora tutti da scoprire. Sappiamo meno dei fondali marini che della superficie lunare. Barron la pensa diversamente: “Si fa un gran parlare di questi organismi sconosciuti senza mai scendere nei particolari, dando l’impressione che non sappiamo niente dell’ambiente in cui operiamo”, ha dichiarato. In realtà, ha aggiunto, le specie scoperte e descritte sono centinaia e i campioni di noduli di manganese raccolti negli ultimi cinquant’anni ammontano a circa 1.500 tonnellate. “Insomma, non stiamo cominciando da zero”.

L’Ophiochiton ternispinus (Nature picture library/Contrasto)

L’avvio della ricerca di noduli polimetallici annunciato dalle isole Cook non ha sorpreso nessuno: il governo lo stava pianificando da tempo. La cosiddetta zona economica esclusiva dello stato insulare si estende per più di due milioni di chilometri quadrati, la metà dei quali raggiunge una profondità di 5.500 metri. In quest’area le isole Cook godono del diritto esclusivo di estrazione e di pesca.

E a queste profondità il mare pullula di noduli di manganese. Anche a nord delle isole Cook, nella zona di frattura di Clipperton, che dalle Hawaii si estende per migliaia di chilometri in direzione del Messico, sembra che i giacimenti siano enormi: si stima che la maggiore concentrazione di noduli di manganese si trovi proprio qui. Secondo gli esperti, si potrebbero ricavare 50 milioni di tonnellate di cobalto, 230 di nichel e 230 di rame, superando i giacimenti conosciuti della terraferma.

Le isole Cook sperano che l’estrazione dei minerali le aiuti a rendersi meno dipendenti dalla pesca e dal turismo. Anche se finora sulle isole non è stato registrato neanche un caso di covid-19, il turismo è collassato. La diminuzione dei visitatori potrebbe essere una buona notizia per l’ambiente, ma le conseguenze per la popolazione sono devastanti, visto che il turismo copre quasi due terzi del pil. Secondo il gruppo bancario Anz, nel 2020 l’economia delle isole Cook ha subito un calo del 60 per cento.

Inoltre, dopo aver ottenuto lo status di paese avanzato nel 2019, le isole hanno anche perso gli aiuti della Nuova Zelanda e dell’Australia.

Noduli di manganese (Charles D. Winters, Science photo library/Agf)

Le possibilità di diversificare l’economia non sono molte. Da decenni il governo vende licenze di pesca ai pescherecci stranieri. La Te ipukarea society, un’ong ambientalista locale, non vede di buon occhio la scelta del governo di puntare sull’attività mineraria nelle acque profonde per compensare le perdite subite nel settore turistico. La considera una decisione troppo precipitosa: in fondo non sappiamo neanche cosa ci sia esattamente lì sotto.

Il governo ripete che l’attività mineraria garantirebbe nuove fonti di reddito, posti di lavoro, formazione e un contributo allo sviluppo delle energie rinnovabili. Considerando i prezzi dei minerali nel 2015, una miniera frutterebbe alle isole Cook entrate annuali per circa 45 milioni di dollari. Molto più di quanto ottengono con la pesca, già sfruttatissima, e più o meno un terzo delle entrate turistiche prima della pandemia. Insomma, estrarre materie prime dalle acque profonde offrirebbe una via d’uscita dalla crisi molto vantaggiosa.

**Una fauna inesplorata **

Le conseguenze dell’attività mineraria nelle acque profonde sono controverse. L’oceano è già svuotato dei suoi pesci, inquinato e minacciato dal riscaldamento climatico. Secondo alcuni scienziati, la raccolta dei noduli di manganese potrebbe causare danni gravi e irreversibili a un ecosistema rimasto finora intatto. Nessuno sa esattamente quanto saranno ingenti i danni. Per dare una risposata a questa domanda, la scienza deve confrontarsi con i governi e le aziende minerarie.

Molte di queste aziende puntano alla zona di frattura di Clipperton, mentre più di venticinque stati – tra cui la Germania, il Belgio, la Cina e dodici paesi in via di sviluppo – hanno ottenuto dall’Autorità internazionale per i fondali marini (Isa), un’agenzia che dipende dalle Nazioni Unite, una licenza di esplorazione per la ricerca di noduli e la raccolta di campioni in acque internazionali. Alcuni dei paesi a cui è stata concessa la licenza non hanno mai gestito attività minerarie sulla terraferma, mentre altri, colpiti duramente dal crollo del turismo, proprio come le isole Cook, si aspettano nuove e durature entrate. Nauru, Kiribati e Tonga, altri stati insulari del Pacifico, hanno già cominciato a collaborare con la Deep Green.

Ma è davvero possibile sfruttare i mari come fonte sostenibile di materie prime? O è piuttosto un affare miliardario a spese della natura? Gli ambientalisti sono preoccupati. Matthew Gianni, cofondatore della Deep sea conservation coalition, che raggruppa ottanta ong, ritiene che se un’azienda come la Deep Green avviasse l’estrazione a fini commerciali, altre aziende e paesi ne seguirebbero rapidamente l’esempio: “Con il via libera dell’Isa il settore farà dei passi avanti in termini di efficienza e se l’affare dovesse rivelarsi redditizio è probabile che parta una corsa all’oro”. A quel punto monitorare le conseguenze ambientali e le violazioni delle leggi non sarebbe affatto semplice.

Il Caulophryne jordani (David Shale, Nature picture library/Contrasto)

Anche secondo gli scienziati l’attività mineraria sconvolgerà il delicato ecosistema del fondale marino. La domanda è fino a che punto. Nelle profondità del mare tutto procede al rallentatore. Molti organismi riescono a sopravvivere con poche risorse alimentari. Inoltre, sappiamo ancora poco o niente di come si riproducono, si espandono e sono connessi gli uni con gli altri in tutto l’oceano Pacifico.

Sicuramente l’estrazione solleverà dei sedimenti, che saranno trasportati via dalle correnti e, inabissandosi, potrebbero seppellire sotto di sé cetrioli marini, coralli e altri animali che si nutrono filtrando i microrganismi contenuti nell’acqua. Non è chiaro fino a che punto questi sedimenti in sospensione possano diffondersi al di fuori dell’area di estrazione. “Sono domande a cui non siamo in grado di rispondere”, dice lo scienziato tedesco Matthias Haeckel. “Probabilmente non lo sapremo neanche nei prossimi dieci anni”. Haeckel lavora per il centro per la ricerca oceanografica Geomar Helm­holtz di Kiel e coordina il progetto europeo Mining impact, che studia le conseguenze ambientali dell’attività mineraria nelle acque profonde. Nel novembre 2020 doveva andare proprio nella zona di frattura di Clipperton per seguire il collaudo di un macchinario sviluppato da un’azienda mineraria belga. Ma le limitazioni agli spostamenti dovute al covid-19 glielo hanno impedito.

La sua squadra, comunque, è molto impegnata. Nelle ultime missioni esplorative i biologi hanno trovato centinaia di specie viventi finora sconosciute. “C’è una grandissima biodiversità, dovuta anche alla grande scarsità di cibo”, racconta Haeckel. Quest’apparente contraddizione si spiega con la specializzazione degli organismi. Sul fondale marino è buio pesto e fa terribilmente freddo; inoltre la pressione dell’acqua è fortissima. Molte specie si sono adattate alla vita in questo particolare ecosistema. Il bathysaurus, per esempio, risparmia preziosa energia giacendo pazientemente sul fondale marino finché la preda non arriva alla sua portata. Le sue enormi pupille colgono ogni minimo movimento. Grazie a più di mezzo milione di foto e video e all’analisi dei campioni raccolti, i ricercatori stanno cercando di capire le effettive dimensioni della biodiversità. Cinque anni fa, a bordo della nave da ricerca Sonne, hanno esaminato anche i solchi lasciati sul fondale marino da altre esplorazioni scientifiche, risalenti fino a quarant’anni prima. I solchi erano ancora perfettamente riconoscibili. Neanche i microbi si erano ripresi completamente: è un processo che potrebbe durare dai cinquanta ai sessant’anni. Prima che nel fango degli abissi tornino vermi, lumache e cetrioli marini, organismi che costituiscono l’alimentazione dei pesci, ci vorrà ancora più tempo. E questo solo per quanto riguarda i solchi lasciati da piccoli esperimenti scientifici.

Con l’attività mineraria, i macchinari telecomandati per la raccolta estrarrebbero, anno dopo anno, i primi 10-15 centimetri del fondale marino in un’area che misura centinaia di chilometri quadrati: visto che i noduli di manganese crescono molto lentamente – non più di 10-20 millimetri in un milione di anni – difficilmente l’ecosistema riuscirebbe a riprendersi da un intervento simile. Insomma, stretta tra le ragioni dell’economia e quelle della scienza, la questione sembra arrivata a un punto morto. Oppure si può trovare una terza via?

Secondo Maria Tuoro sì, va trovata per forza. La direttrice della zona marittima protetta Marae moana vorrebbe preservare l’oceano sacro che circonda le isole Cook. È convinta che il parco marino serva a diversi scopi: al di fuori delle aree tutelate sono consentite attività culturali ed economiche, tra cui anche le attività minerarie nelle acque profonde, che potrebbero aiutare proprio quelle ricerche oceanografiche di cui c’è un bisogno urgente. “Vorrei che la popolazione conoscesse quello che si nasconde negli abissi e capisse quali sono le nostre responsabilità”, spiega Tuoro.

Ma per scandagliare gli abissi ci vuole tempo, una cosa che le isole Cook non sembrano avere intenzione di concedersi. L’anno scorso la precedente direttrice della zona marittima in uno scambio interno di email si disse favorevole a un blocco temporaneo dell’attività mineraria nelle acque profonde del Pacifico e fu licenziata. Tuoro, però, continua a credere nel futuro di Marae moana. Basterebbe stabilire quali attività permettere e in quali aree del parco marino. Ci sta lavorando una commissione di cui, oltre alle ong, fanno parte anche funzionari del governo e i capi tradizionali (ariki). “Solo allora potremo dichiararci abitanti dell’oceano e non solo delle isole”, dice Tuoro.

Indagini sul terreno

Anche se a prima vista l’attività mineraria nelle acque profonde e la tutela del mare sembrano inconciliabili, tra gli esperti c’è chi crede addirittura che dipendano l’una dall’altra. Da un lato, le aziende dovrebbero fare indagini sul terreno per dimostrare che i loro robot sono in grado di lavorare sul fondale marino senza provocare danni gravi; dall’altro, l’oceanografia e le misure di tutela ambientale trarrebbero beneficio dagli investimenti nelle tecnologie e nelle esplorazioni. Stabilire se il gioco vale la candela, però, non è facile. Per ora, inoltre, la maggior parte delle aziende non rivela nessun particolare sui robot degli abissi, quindi è difficile da valutare il loro impatto ambientale. “Insomma, servirebbero delle sperimentazioni dimostrative: paradossalmente le aziende dovrebbero provare a danneggiare delle aree piuttosto estese”, spiega l’oceanografo Haeckel.

Alcune aziende prevedono di usare sui fondali un veicolo collegato alla superficie marina attraverso una sorta di cordone ombelicale. A bordo dell’imbarcazione un secondo macchinario pomperà il materiale verso l’alto, scaricando poi in mare i sedimenti indesiderati, magari a uno o due chilometri di profondità, non sul fondale dove avviene l’estrazione. Questo comporta il grande pericolo che qualcosa venga trascurato. In una pubblicazione del luglio 2020 diciannove scienziati hanno avvertito che finora non si è tenuto conto che le zone di profondità più centrali dell’oceano Pacifico cominciano duecento metri sotto la superficie arrivando fino alle acque abissali. In queste zone si troverebbero patrimoni ittici cento volte più grandi del pescato annuo mondiale.

Nessuna azienda ha avviato lo sfruttamento dell’attività mineraria nelle acque profonde, anche perché manca il quadro giuridico necessario

L’estrazione potrebbe comportare rumori, vibrazioni e inquinamento luminoso in aree altrimenti del tutto buie e silenziose. Questo causerebbe problemi a balene, pesci e altre creature marine che sfruttano l’ecolocalizzazione o producono da sole la luce di cui hanno bisogno per individuare prede e partner. Inoltre, residui di metalli tossici potrebbero penetrare nella catena alimentare.

Due sono le domande fondamentali che gli esperti si pongono. Che succede se qualcosa va storto? Per anni, intorno alla sua miniera di rame in Zambia, la Glencore ha avvelenato l’aria con il gas sulfureo e ora è costretta a risarcire la famiglia di un’esponente politica deceduta. A seimila metri di profondità, però, è difficile accorgersi di un incidente. Sarebbe piuttosto complicato, per esempio, dimostrare che lo scarico di sedimenti e residui metallici provochi una diminuzione di certe popolazioni ittiche. Anche nel caso in cui un’azienda mineraria dovesse segnalare un danno, bisognerebbe innanzitutto appurarne il responsabile e capire come calcolarne l’entità.

Dati fondamentali

Come fare a tutelare un territorio di cui si sa poco o niente? L’Autorità per i fondali marini elabora le sue norme ambientali, ma poi è costretta a confidare nel fatto che le aziende facciano rapporto sulle loro attività di esplorazione e che squadre di ricercatori universitari come quella di Haeckel forniscano i dati fondamentali. Per questo motivo il parlamento europeo, i primi ministri delle isole Fiji, di Vanuatu e della Papua Nuova Guinea e la Deep sea conservation coalition hanno chiesto una moratoria delle attività minerarie nelle acque profonde, almeno fino a quando non saranno stati compresi tutti i rischi potenziali. Le Nazioni Unite hanno già dichiarato il periodo 2021-2030 decenni0 del mare. Ma l’Isa non ha intenzione di aspettare oltre. Il 24 giugno 2020 il parlamento belga ha organizzato un’audizione virtuale per discutere la questione della moratoria. Tra gli esperti invitati a partecipare c’era anche Michael Lodge, segretario generale dell’Isa. Secondo lui una moratoria avrebbe effetti dannosi per la scienza, il progresso e il diritto internazionale. “Ne risentirebbero notevolmente gli investimenti nell’oceanografia scientifica, perché a quelle condizioni né le aziende statali né quelle private spenderebbero il loro denaro in attività di esplorazione”, ha detto.

Nella stessa audizione Haeckel ha sottolineato che un blocco completo dell’attività mineraria nelle acque profonde si tradurrebbe in un arresto della ricerca: “E se non impariamo niente, la moratoria è inutile”.

Per ora nessuna azienda ha avviato lo sfruttamento commerciale dell’attività mineraria nelle acque profonde, anche perché manca il quadro giuridico necessario. Uno dei compiti dell’Isa è vigilare perché le materie prime siano estratte solo considerandole come “patrimonio comune dell’umanità”, almeno quelle che si trovano in acque internazionali. Lo stabilisce la Convention on the law of the sea, ratificata nel 1994 da 167 paesi e dall’Unione europea, che ha istituito l’Isa, con sede in Giamaica. L’accordo prevede inoltre che si tenga conto soprattutto degli interessi dei paesi in via di sviluppo e di quelli senza accesso al mare.

L’attività mineraria garantirebbe alle isole Cook nuove fonti di reddito, posti di lavoro, formazione e lo sviluppo delle energie rinnovabili

A chi l’ha richiesta, l’Isa ha già concesso una licenza di esplorazione della durata di 15 anni: 30 gruppi – tra cui governi, partenariati pubblico-privato, consorzi internazionali e aziende private – sono autorizzati a esplorare un’area grande tre volte la Spagna. Anche le isole Cook hanno fatto richiesta per un’area nella zona di frattura di Clipperton.

Il tempo stringe: le prime licenze di esplorazione scadono nel 2021. Per questo motivo a luglio del 2020 l’Isa voleva pubblicare un codice minerario per definire le regole e dare il via allo sfruttamento commerciale dell’attività mineraria nelle acque profonde. Questo avrebbe permesso alle aziende di raccogliere noduli di manganese per trent’anni, come fossero patate in un campo. Ma il procedimento ha subìto una battuta d’arresto. Gli stati membri dell’Isa non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo sulla ripartizione dei profitti futuri. Inoltre, se il settore minerario dovesse concentrarsi sul mare, non è chiaro in che modo andranno rimborsati i paesi la cui economia dipende dall’attività estrattiva sulla terraferma.

Perfino Barron, l’amministratore delegato della Deep Green, ha perso il suo ottimismo rispetto all’approvazione del codice minerario entro l’anno. “Anche se sono stati fatti notevoli passi avanti nei negoziati, non è chiaro quanto sia realistico l’obiettivo”, ha dichiarato. “E il covid-19 non ha certo aiutato”.

Sta all’Isa trovare un modo per permettere alle aziende del settore e ai governi di incassare profitti senza causare gravi danni al fondale marino. Per questo, dal momento in cui le miniere saranno operative, le aziende con regolare licenza dovranno corrispondere un canone all’Isa, che a sua volta lo distribuirà agli stati membri. Ma l’ambientalista Matthew Gianni, osservatore presso l’Isa, ritiene che ci sia un conflitto d’interessi: “L’Isa è finanziata proprio con le entrate di quell’attività estrattiva che è chiamata a regolamentare. Insomma, è un incentivo a concedere licenze”.

Due anni fa l’Isa ha incaricato alcuni ricercatori del Massachusetts institute of technology di elaborare possibili schemi di pagamento. In ogni caso i canoni delle licenze dovrebbero coprire i costi amministrativi dell’agenzia stessa prima che gli utili possano essere ripartiti tra i 168 stati membri. Di conseguenza ogni governo riceverebbe meno di 160mila dollari all’anno, mentre gli stati sponsor che tassano direttamente le aziende minerarie ricaverebbero qualcosa in più. Nel caso della Deep Green si tratterebbe di Nauru, Kiribati e Tonga.

Gianni non pensa che valga la pena di correre rischi ambientali. “Continuando così, l’Isa finirà per svendere un bene comune globale a un prezzo irrisorio”, spiega. “Solo pochi paesi e aziende ne ricaverebbero effettivamente dei profitti mentre il resto dell’umanità si ritroverebbe semplicemente ad aver perso la biodiversità e danneggiato gli ecosistemi”.

Sarebbe un prezzo piuttosto alto per un futuro all’insegna dell’energia sostenibile e pulita. ◆ sk

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Questo articolo è uscito sul numero 1395 di Internazionale, a pagina 58. Compra questo numero | Abbonati