A volte sembrava che il problema fosse avere un corpo, un corpo che mi esponeva al pericolo e a potenziali violazioni, alla vergogna e all’impotenza e alla questione di come entrare in contatto e come ambientarsi, qualunque cosa potesse significare, qualunque sensazione immaginavo provassero le persone a proprio agio con il loro corpo e i loro movimenti e la loro appartenenza. Avere un corpo femminile era una forma di vulnerabilità e di vergogna tale da farmi cercare ancora le stesse difese, le stesse versioni di quell’armatura che sognavo a vent’anni. Ero convinta che il mio corpo fosse un disastro. Era un corpo alto, magro e bianco, ovvero ciò che nella nostra cultura si suppone essere il massimo nella scala del valore dei corpi femminili. Io però vedevo la versione che mi era toccata come una sfilza di cose sbagliate e disastrose e irrimediabili e potenzialmente vergognose. Gli standard per giudicare il corpo femminile erano esigentissimi, e non potevi che misurare la distanza che ti separava dall’ideale, anche se non era una gran distanza. E anche se passavi sopra alle tue imperfezioni fisiche, i dati empirici della biologia, delle funzioni corporee e fisiologiche facevano a pugni con l’ideale di femminilità, e un mucchio di prodotti e di barzellette e di battute erano lì a ricordartelo. Si potrebbe forse dire che quella della donna è una condizione di perenne errore, e che l’unico modo per averla vinta è rifiutare alla base i termini della questione.

Nessuna è mai abbastanza bella, e a tutti è permesso dare giudizi. Nella sua autobiografia Sotto la pelle, Doris Lessing racconta di quando, giovane donna a un ballo, un estraneo di mezza età le aveva detto che, pur avendo un corpo quasi perfetto, uno dei suoi seni era qualche centimetro troppo alto o troppo basso, non ricordo: ricordo solo che un estraneo pensava che il suo corpo fosse sotto la sua giurisdizione e che poteva sottolineare quello che doveva essere un difetto inesistente per dimostrare il suo diritto e la sua facoltà di esprimere un giudizio e che lei dovesse esservi sottoposta.

Gli standard per giudicare il corpo femminile erano esigentissimi, e non potevi che misurare la distanza che ti separava dall’ideale, anche se non era una gran distanza

Gli uomini mi hanno sempre detto cosa fare e come essere; una volta, durante la mia scheletrica gioventù, stavo camminando lungo la North Beach mangiando un dolce di una pasticceria italiana quando un corpulento uomo di mezza età mi sgridò dicendo che dovevo stare attenta a non ingrassare. Gli uomini mi dicevano di sorridere, o di succhiargli l’uccello. Per un certo periodo ho avuto una vecchia auto con i cavi della batteria allentati, e tutte le volte che aprivo il cofano per stringerli mi si avvicinavano per dirmi cosa dovevo aggiustare, quelli che parlavano si sbagliavano regolarmente e sembravano non rendersi conto che sapevo bene cosa stavo facendo.

Il problema non è il corpo femminile in sé, ma l’incessante e minuzioso esame a cui è sottoposto. Il problema è l’essere donna. O essere una donna sottomessa agli uomini. La profonda vergogna che attanagliava mia madre, che allora era cattolica, a proposito delle funzioni e delle forme del corpo femminile me l’aveva trasmessa in pieno, e la tendenza di mio padre a criticare in termini estremamente distaccati la sua anatomia, la mia e, quando capitava, anche quella delle donne che gli passavano davanti non era stata d’aiuto. Non lo era stato neppure il fatto che si trattasse di manifestazioni tutt’altro che insolite, normalissime per una mentalità che vedeva il corpo come un’ossessione e che a quei tempi quantificava la bellezza femminile sulla base di misure e taglie e raccontava che possederle ti avrebbe infinitamente ricompensato e non possederle infinitamente punito, e che comunque ci avrebbe punito tutte, perché a ben vedere si trattava di standard irraggiungibili.

E così mi trovavo nella situazione di tantissime giovani donne, a cercare un posto dove non fossimo disprezzate o emarginate perché non attraenti ma neanche minacciate o infastidite perché attraenti, a esitare tra due zone di detenzione in uno spazio talmente ridotto che forse non è mai esistito, a cercare di trovare l’impossibile equilibrio tra essere desiderabili per coloro che desideravamo e proteggerci da quelli che non desideravamo affatto. Eravamo state educate per piacere agli uomini, e questo ci rendeva difficile piacere a noi stesse. Eravamo state educate a risultare desiderabili in modi che implicavano il rifiuto di noi stesse e dei nostri desideri. Così io scappavo. Il mio corpo era una casa isolata. Non ero sempre a casa; spesso ero altrove. Quando ero giovane immaginai una versione fantascientifica degli esseri umani che diventavano cervelli contenuti in barattoli come una buona cosa, e che i nostri corpi fossero qualcosa di brutto nel quale eravamo impantanati e non strumenti di gioia, contatto e vitalità, le condizioni non negoziabili della nostra esistenza. Nessuna meraviglia che fossi magra, nessuna meraviglia che le donne fossero tanto elogiate per essere magre, per occupare meno spazio possibile, per muoversi sull’orlo della scomparsa, nessuna meraviglia che alcune di noi sparissero smettendo di mangiare, come un paese che cede territori, un esercito in ritirata, fino a cessare di esistere.

Avevo un corpo. Ero stata una bambina minuta, asciutta, solitaria ma attiva, con le mie passeggiate sulle colline e il mio arrampicarmi sugli alberi, poi a tredici anni sono cresciuta tutto d’un colpo di diversi centimetri e ci sono voluti parecchi anni perché la mia carne si adeguasse alle mie ossa. Quando me ne andai di casa ero alta un metro e settanta e pesavo poco più di quarantacinque chili, poi il peso aumentò, pian piano, portandomi nel primo anno vicino ai cinquanta, e quando compii trent’anni ero più o meno nella media. Ma per molto tempo sono stata magra in modo anormale, non snella come le ragazze che hanno poco grasso attorno ai muscoli, perché avevo anche poca massa muscolare.

Il mio scheletro non era lontano dalla superficie. Le mie creste iliache sporgevano a tal punto che a volte la gente pensava che avessi qualcosa nelle tasche anteriori dei jeans. Le immaginavo come rivoltelle con il calcio di madreperla. Quando facevo scorrere via l’acqua mentre ero ancora nella vasca, nell’incavo del mio ventre si formava una pozza. Le costole spuntavano fuori. Il girovita era talmente stretto che una volta un gay mi disse scherzosamente che non avevo un busto ma, come una vespa o un’ape, un addome e un torace. Era il mio amico David Dashiell, che usò il termine thorax, ed eravamo amici anche perché ci scambiavamo battute di questo genere. C’è una foto scattata dall’uomo che era con noi mentre cantavo Mercenaries (Ready for war) di John Cale, poco dopo aver traslocato. In quella foto indosso un completo grigio anni quaranta che portavo tutte le volte che volevo essere elegante, o meglio, in quell’occasione indosso solo la gonna dritta del completo e una canottiera da uomo messa con il davanti di dietro e stretta con una cintura in modo da diventare una specie di top che lasciava la schiena scoperta. Rivolgo le spalle alla macchina fotografica e mi appoggio al muro con i suoi rettangoli di muffa, la testa rivolta a destra, un cappellino con veletta su un viso ancora infantile, una schiena che sembra vulnerabile, non ancora formata, e guanti neri lunghi fino al gomito. Sto cercando riparo nella mia ombra.

L’abbigliamento parla di un tentativo di essere elegante, sofisticata, di essere adulta, di essere pronta per andare nel mondo e trovare un mondo pronto per me, un ritratto di quelle aspirazioni giovanili. La postura parla di un tentativo di sottrarsi, dissolvendosi. Sto cercando di apparire e sparire allo stesso tempo. Quando misurai la vita di quella gonna prima di disfarmene ebbi la certezza che non mi sarebbe più andata bene a meno che non fossi mortalmente malata: erano poco meno di 51 centimetri.

La magrezza mi rendeva fragile, stanca, con poche energie, e soffrivo facilmente il freddo. Forse mi rendeva più che un bersaglio: ero l’esatto opposto di robusta, e tutto quel punk rock era anche un tentativo per assorbire uno spirito che avrebbe contrastato la fragilità, o forse se la mia carne era fragile lo spirito era selvaggio. A volte penso di essere scappata in città da ragazza perché per correre nell’altra direzione, verso la campagna o la natura incontaminata, avrei dovuto disporre di una forza fisica che allora non avevo. Potevo coprire grandi distanze a piedi, potevo ballare per ore, ma poi cadevo preda di ondate di spossatezza – probabilmente crisi ipoglicemiche – durante le quali mi capitava di svenire, se mi alzavo all’improvviso mi venivano le vertigini, e mi stancavo facilmente. La magrezza è considerata una virtù, frutto di disciplina e di autocontrollo, e quindi spesso ammirata come prova di carattere, mentre spesso è solo conseguenza di una lotteria genetica o resta limitata alla fase giovanile in cui la carne non si è ancora adeguata allo sviluppo osseo. Ci fu chi sostenne con insistenza che la mia magrezza derivasse da anoressia o bulimia, pronto a bollare come patologico e indesiderabile ciò che invidiava (per non parlare degli anni di battute sui deportati nei campi di concentramento e di paragoni con le vittime delle carestie, come se il mio corpo fosse una zona colpita da calamità).

C’è qualcosa di austero nella magrezza, nell’avere un corpo duro, nell’essere più vicini alla solidità delle ossa che alla morbidezza della carne. È come se non si fosse parte di ciò che la vita ha di caotico, viscoso, poroso, come se la si vedesse da fuori, da un luogo meno mortale, meno plasmabile. Come se si disprezzassero la mortalità e i piaceri della carne. È un modo irreprensibilmente rigido di presentarsi, intendendo che la magrezza è letteralmente una corazza contro la disapprovazione rivolta a chi è morbido, dove “morbido” indica a un tempo qualcosa di cedevole e accogliente e la debolezza morale che discende dalla mancanza di disciplina e dal consumo di cibo e di spazio.

In genere il corpo femminile è morbido, almeno in certi punti, se è sano, e se la morbidezza è equiparata a cattivi costumi e la virtù alla dura superficie di un corpo con poco grasso, allora c’è un altro modo in cui essere donna significa essere sbagliata, quello da cui le persone trovano scampo lasciandosi morire di fame. Nel suo libro Fame. Storia del mio corpo (Einaudi 2018) Roxane Gay scrive: “È questo che s’insegna per lo più alle ragazze: a essere magre e minute. A non prendere spazio. A essere visibili ma silenziose, e una volta visibili anche gradevoli con gli uomini. E noi donne per lo più sappiamo di dover scomparire, ma è una cosa che va detta e ripetuta, forte e chiaro, perché possiamo resistere e non piegarci a quello che ci si aspetta da noi”.

Forse morire di fame è un modo per chiedere scusa di esistere o per scivolare nell’inesistenza, ma io non stavo cercando di diventare magra, lo ero già, e mangiavo, ma il cibo non era una delle cose per le quali provassi una gran fame. Avevo fame d’amore, ma si trattava di qualcosa di tanto strano e alieno e terrificante che mi ci avvicinavo in modo obliquo e lo descrivevo con degli eufemismi, ne evitavo alcune espressioni e non ne riconoscevo altre. Avevo fame di storie, libri, musica, energia e di una vita che fosse veramente mia, fame di crescere, di costruire me stessa, di prendere il più possibile le distanze dai luoghi della mia adolescenza, di andare avanti fino a raggiungere un luogo che mi facesse sentire meglio.

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Più avanti, un uomo più grande di me che stavo frequentando mi disse un giorno: “Baby, sei motivata” e siccome a quei tempi avevo l’abitudine di rispondere in modo secco senza pensarci gli dissi, anche troppo bruscamente: “E tu sei parcheggiato”. Sì, ero motivata a riscattare con le conquiste la mia esistenza, a cercare senza sosta un posto migliore (e anche quando l’ho trovato l’abitudine di cercare era troppo radicata in me perché smettessi di farlo), a creare qualcosa, a smettere di essere ciò che ero e diventare un’altra, a rispondere a tutte le richieste che mi venivano fatte, e naturalmente ai bisogni di chiunque altro, prima o invece dei miei. C’era vera gioia nella mia vita creativa e intellettuale, ma anche una rinuncia a tutto il resto. Ero come un esercito asserragliato nella sua ultima fortezza, che nel mio caso era la mente. Questa limitazione della sfera corporea ha i suoi equivalenti nel nostro modo di vivere, di spostarci, di agire e parlare o nella rinuncia a fare tutte queste cose. Lacy M. Johnson ha raccontato di una sua relazione talmente basata sul controllo che quando lei lo lasciò, quell’uomo costruì una stanza insonorizzata in cui violentarla e ucciderla e dalla quale lei riuscì a fuggire dopo essere stata violentata e prima di essere uccisa: “Cercavo di farmi piccola in modo da non provocarlo, da non irritarlo, cercavo di piegarmi a suo piacimento in modo che tutto quello che facevo, dicevo e pensavo gli fosse gradito. Ma non importava, perché qualunque cosa facessi non era mai abbastanza. Però continuavo a farlo, finché di me, della persona che ero stata, non era rimasto quasi nulla. E quella persona che diventai, che a stento si poteva definire una persona, era la versione di me che gli piaceva di più”. Nella sua espressione più brutalmente convenzionale, la femminilità è un continuo scomparire, una cancellazione e una riduzione al silenzio per aprire più spazio agli uomini, qualcosa in cui la tua esistenza è considerata un’aggressione e la tua inesistenza una gentile forma di compiacenza. La troviamo inscritta nella nostra cultura in tanti modi: il cognome da sposata di nostra madre così spesso richiesto come risposta alle domande di sicurezza di banche e carte di credito, dando per scontato che il suo cognome da nubile sia come cancellato, perduto nel momento in cui ha assunto quello del marito. Questa rinuncia al cognome non è più data per scontata, ma è ancora raro che si trasmetta ai figli se la donna è sposata, e questo è uno dei modi in cui le donne spariscono o non compaiono mai.

L’assenza era talmente cospicua da essere raramente notata, la mancanza incorporata nelle disposizioni vigenti e nella possibilità che le cose potessero andare diversamente.

Nel corso della mia vita si sono accumulati numerosi elenchi delle scomparse; anche adesso non riusciamo a percepire voci, considerazioni, posizioni che riconosceremo nei tempi a venire. La parola “zittire” si usa presupponendo che qualcuno abbia tentato di parlare, e la parola “scomparire” presupponendo che inizialmente la persona, il luogo o la cosa siano comparsi. Ma ci sono tantissime cose che non sono mai state neppure mormorate, che non si sono mai mostrate, a cui non è stato permesso entrare prima di essere costrette a uscire. E ci sono persone che si sono mostrate e che hanno preso la parola senza essere né viste né sentite; non erano né mute né invisibili, ma la loro testimonianza ha incontrato orecchie da mercante e la loro presenza non è mai stata notata.

Quando ero giovane, gli esseri umani venivano correntemente descritti nella lingua inglese come mankind, da man, uomo, e perfino gli esponenti maschi dei movimenti di liberazione – Martin Luther King jr., James Baldwin – facevano un passo indietro nell’uso di questo termine, perché l’assenza di donne era talmente assente dal nostro immaginario che pochi ritenevano che almeno potesse, se non dovesse, essere altrimenti. Negli anni cinquanta c’erano libri intitolati The family of man (La famiglia dell’uomo) o LIFE’s picture history of western man (Life, storia illustrata dell’uomo occidentale); negli anni sessanta un simposio e un libro furono intitolati Man the hunter (L’uomo, il cacciatore) che escludeva quasi del tutto le donne dalla storia dell’evoluzione; negli anni settanta la Bbc mandò in onda una lunga serie dal titolo The ascent of man (L’ascesa dell’uomo). Ora l’edizione online dell’Oxford english dictionary dice: “Fino a tutto il ventesimo secolo si è inteso che il sostantivo man comprendesse implicitamente le donne, anche se si riferisce in primo luogo ai maschi. Oggi spesso viene usato in un senso che esclude le donne”.

Tutto ciò aveva innumerevoli conseguenze sul piano pratico. Me ne vengono in mente alcune: la descrizione degli attacchi di cuore veniva fatta a partire da come si presentavano negli uomini, cosicché la probabilità che i sintomi delle donne venissero riconosciuti e trattati era minore, e questo provocò la morte di molte donne; i manichini delle prove d’impatto per le automobili riproducevano corpi maschili e la progettazione dei dispositivi di sicurezza dei veicoli favoriva la sopravvivenza degli uomini, causando una mortalità superiore delle donne. Il famoso esperimento della prigione di Stanford del 1971 si basava sul presupposto che il comportamento di un gruppo di giovani uomini che frequentavano un’università di élite potesse avere un valore universale esteso all’intera umanità, e il romanzo di William Golding Il signore delle mosche, del 1954, che raccontava di un gruppo di giovani studenti britannici, veniva spesso citato come esempio del comportamento umano. Gli uomini erano tutti, le donne nessuno.

Nei miei anni di gioventù praticamente tutti i personaggi influenti del mondo dell’informazione erano uomini, e gli sport professionistici, quelli trasmessi in tv, erano solo sport maschili; molti giornali avevano una sezione apposita per le donne in cui si parlava di vita domestica, moda e shopping, intendendo con questo che tutto il resto, dalle notizie allo sport all’economia, fosse destinato esclusivamente agli uomini. La vita pubblica era roba da uomini, le donne erano relegate nella vita privata, e picchiare la propria moglie era descritto come una faccenda privata anche se secondo la legge era un crimine, e i crimini erano affari della sfera pubblica e della legge. Andrea Dworkin, il cui femminismo radicale è anche frutto di un matrimonio in giovane età con un uomo violento e sanguinario, ha detto: “Ricordo la follia pura e distruttiva dell’essere invisibile e irreale, e ogni botta, che mi rendeva ancor più invisibile e irreale, come la condizione più disperata che abbia mai vissuto”. È talmente normale che i luoghi portino nomi di uomini – in genere bianchi – e non di donne, che non me n’ero mai accorta fino al 2015, quando ho fatto una mappa rinominando i luoghi con nomi di donne e mi sono resa conto di essere cresciuta in un paese in cui praticamente tutto ciò che ha un nome – montagne, fiumi, città, ponti, edifici, stati, parchi – porta il nome di un uomo, e in cui la quasi totalità delle statue rappresentano uomini. Le donne sono figure allegoriche – la libertà, la giustizia –, non persone. Un paesaggio pieno di luoghi con nomi di donne avrebbe molto incoraggiato me e altre ragazze. E invece i nomi delle donne erano assenti, e quell’assenza era assente dal nostro immaginario. Non c’era da meravigliarsi se da noi ci si aspettava che fossimo talmente filiformi da rifugiarci nell’inesistenza. ◆ ldt

Rebecca Solnit è una scrittrice e saggista statunitense. Questo articolo è un estratto del suo ultimo libro, appena uscito in Italia: Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie 2021, traduzione di Laura De Tomasi).

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Questo articolo è uscito sul numero 1399 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati