Sono in spiaggia. Mi sto gustando il piacere elementare di passeggiare a piedi nudi, con i granelli di sabbia che s’infilano tra le dita, scricchiolando al contatto con la pianta del piede e trasformando l’atto del camminare in una specie di comunione con il mondo fisico. Penso alla commedia di Neil Simon _A piedi nudi nel parco _(1967), in cui camminare scalzi esprime uno stato d’animo turbolento e impulsivo e la spinta al ritorno alla natura degli anni sessanta; o ad Anteo, il semidio greco che prendeva la sua forza dalla madre Terra ed era invincibile finché rimaneva in contatto fisico con il suolo.

In _La grandezza di Dio _(1877), il poeta Gerard Manley Hopkins lamenta il distacco dell’uomo moderno dal divino: “Il suolo / è nudo ora, né sente piede, perché calzato”. La spiaggia è uno dei pochi luoghi in cui il piede umano può stabilire un contatto materiale con gli elementi.

Il mondo creato dalle scarpe è diverso dal mondo a piedi nudi. È distaccato, astratto, isolato, meno attento alla topografia del suolo, ai suoi oggetti e alle sue consistenze

Poi, però, sento il richiamo del bar dall’altra parte del parcheggio. I miei piedi, beatamente scalzi, si posano sull’asfalto entrando in contatto con una distesa incandescente ricoperta di pezzetti di ghiaia e frammenti di bottiglie di birra rotte. Il mio idillio s’interrompe bruscamente in un sincero apprezzamento dell’utilità e del potere dell’umile scarpa.

Potrei arrivare fino al bar, sopportando il disagio fisico e concentrando tutta la mia attenzione a soppesare i pericoli. Penso al personaggio di John McClane in Die hard (1988), che all’inizio del film si toglie le scarpe e affonda le dita nel lussuoso tappeto del Nakatomi Plaza per poi essere brutalmente richiamato alla sua responsabilità di eroe d’azione, resa ancora più ingrata dal fatto di essere a piedi nudi. Mentre me ne sto scalzo nel parcheggio, il mio essere è concentrato sui piedi, preoccupato unicamente dell’autoconservazione e della prevenzione del dolore. Se solo avessi le mie fidate scarpe da ginnastica, il suolo del mondo intero sarebbe a mia disposizione. Il mezzo centimetro di materiale tra i miei piedi e il suolo mi separerebbe fisicamente dalla Terra, ma mi renderebbe accessibile il mondo, creandone di fatto uno nuovo. Come osservò nell’ottavo secolo il monaco buddista Śāntideva, “con le suole di cuoio delle mie sole scarpe è come se avessi ricoperto di cuoio tutta la Terra”.

Il pianeta ricoperto di cuoio, il mondo creato dalle scarpe, è diverso dal mondo a piedi nudi. È distaccato, astratto, isolato, meno attento alla topografia del suolo, ai suoi oggetti e alle sue consistenze. È un mondo più “sordo” e meno “sensibile”. Allo stesso tempo, nella sua artificialità ci libera dal giogo delle circostanze fisiche permettendoci di “trascendere” il mondo fisico e di avvicinarci ai nostri desideri.

Il mio impatto con il parcheggio della spiaggia chiarisce un aspetto importante di come le scarpe esistono fenomenologicamente per chi le indossa. Il punto cruciale delle scarpe che porto ai piedi non è il loro aspetto o cosa fanno, ma come influenzano la mia mobilità, la mia libertà e, conseguentemente, il mio essere. Le scarpe agiscono, anche se a un livello subconscio, come il fondamento della mia autocomprensione, ed è proprio da questa che deriva la mia percezione di dove posso andare, di quali progetti ricadono all’interno della sfera dei miei futuri possibili. Questa relazione fenomenologica tra le calzature e le possibilità che aprono è alla base del cliché antifemminista secondo cui lo stato ideale di una donna è “scalza e incinta”, o dell’antica pratica cinese di fasciare i piedi, o perfino della moderna feticizzazione delle scarpe con i tacchi a spillo nella moda occidentale. Le scarpe poco pratiche e/o dolorose riducono la libertà tattile e spaziale ancor più del camminare scalzi, rafforzando il loro significato come fondamento simbolico dell’identità umana.

La scarpa è una sineddoche di chi la indossa. Quando si dice che qualcuno tiene “il piede in due scarpe” si contempla che si barcameni tra due identità diverse, come se fossero le scarpe e non chi le indossa a determinare chi siamo. In _Blue suede shoes _Elvis Presley cantava: “Puoi buttarmi a terra, calpestarmi, calunniare il mio nome dappertutto”, purché tu stia alla larga dalle mie scarpe, vero luogo dell’individualità. In questo senso sotterraneo, noi siamo le nostre scarpe.

Christian Dellavedova

Forse è proprio questo il messaggio che Vincent van Gogh voleva comunicare con i suoi ritratti di vecchie paia di scarpe. Durante il suo periodo parigino, e in vari altri momenti della sua carriera, il pittore rappresentò con la sua caratteristica intensità diverse paia di calzature lise e dismesse, dando vita a una serie di dipinti che sembrano racchiudere un mondo invisibile e denso di significato. Il filosofo tedesco Martin Heidegger diceva di riuscire a cogliere nel dipinto _Un paio di scarpe _di Van Gogh non solo il mondo della “contadina” che presumibilmente le indossava, ma il significato dell’arte stessa, la capacità di trasportarci da una “banalità noiosamente invadente” all’“essenza generale della cosa”. Questo commento al dipinto di Van Gogh suggerisce un parallelismo tra la tecnologia di riproduzione artistica e la tecnologia di manifattura calzaturiera: in entrambe si mette in atto un distacco dalla Terra per rivelare la sintesi di un nuovo mondo.

Negli anni ottanta, il critico culturale statunitense Fredric Jameson aggiornò la tesi di Heidegger, sostenendo che, se le scarpe di Van Gogh rappresentavano il mitico umanesimo terrestre della coscienza moderna, le calzature rappresentative dell’era postmoderna, con le sue superfici glamour prodotte in serie, erano le _Scarpe con polvere di diamante _(1980) di Andy Warhol, che Jameson usò come immagine di copertina del suo saggio _Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo _(1991). L’intuizione di Jameson è che le scarpe sono vettori di mobilità che ci portano fuori dal mondo delle apparenze immediate e nel mondo umano dei segni e dei significati.

La scarpa, una delle più antiche forme di tecnologia umana, è il prototipo di tutte le altre tecnologie, un termine onnicomprensivo per tutti gli strumenti e le procedure che ci consentono di rompere “i legami scontrosi della Terra” e di addentrarci in ambienti innaturali o inospitali. In questo senso, i veicoli come le automobili, le barche e le navi spaziali sono versioni in grande delle calzature. Le tute spaziali, le tute ignifughe e i vaccini sono scarpe per tutto il corpo. Anche i mezzi di comunicazione del linguaggio e dell’arte possono essere pensati come tecnologie, anche loro ci separano dall’esperienza diretta per offrirci una nuova realtà “accresciuta”. La mia breve fantasticheria di un’esistenza a piedi nudi mi mette di fronte al fatto straordinario che le scarpe non sono semplicemente una tecnologia che posso adottare o rifiutare a seconda dell’umore, ma un oggetto artificiale che il mio corpo si è evoluto per utilizzare.

Il primo esemplare di calzatura che abbiamo è un sandalo di diecimila anni fa ritrovato in Oregon. I paleoantropologi, tuttavia, sono in grado di stabilire che l’uso delle scarpe si è diffuso tra le popolazioni umane circa 40mila anni fa a causa di un cambiamento visibile della struttura ossea dell’alluce. Insieme al fuoco e al linguaggio, le calzature sono una di quelle tecnologie elementari che hanno effettivamente interagito con il nostro dna e sono diventate parte dell’habitat in cui ci siamo evoluti per vivere. Il mio bagno di realtà in spiaggia conferma che il rapporto tra me e le mie scarpe non è semplicemente un rapporto esterno tra due entità indipendenti, ma è interno, le scarpe sono in un certo senso parte del mio corpo. In questo senso, anche le tecnologie più primitive rivelano lo status bionico della realtà umana. Staccati dalla Terra, guardiamo alle scarpe come a un tramite, anziché come a una barriera, tra il suolo fisico e il mondo umano.

Eppure, come tutte le tecnologie, le scarpe ci presentano un patto faustiano: ogni vantaggio è sempre accompagnato da un rimorso. Quando vado a riprendere il mio telo da spiaggia, m’infilo le scarpe da ginnastica, attraverso il parcheggio e compro una birra al bar, la mia sete si placa, ma da qualche parte, nei recessi del mio inconscio, ribolle un rancore animale. Amo le mie scarpe. Mi affido a loro. Sono esistenzialmente dipendente da loro. Allo stesso tempo, però, sono irritato dall’entità di questa dipendenza. Mi chiedo se questa vaga insoddisfazione si spieghi con il fatto che pur elevando le scarpe a simboli di sesso, status e successo, al contempo le disprezziamo: il sospetto è che, mentre altre tecnologie più lucide ed “esternalizzate’’ ci permettono di dominare il nostro ambiente, le scarpe ci ricordano la nostra corporeità e la nostra incompletezza evolutiva, anche se ci aiutano ad alleviare questa condizione.

C’è un motivo ricorrente in molte tradizioni religiose che identifica nella scarpa un oggetto profano, perfino empio. Nella Bibbia, quando Mosè scopre il roveto ardente, la prima cosa che capisce è che deve togliersi le scarpe se vuole camminare su un suolo sacro. I musulmani, i sikh e gli indù prima di entrare in un luogo di culto si tolgono le scarpe. Giovanni Battista spiega la sua relazione con il Messia dicendo che non è degno di allentargli la cinghia dei sandali. Chiaramente, questo è perché le scarpe raccolgono sporcizia e germi dal suolo: portandole in un ambiente pulito “si lasciano le impronte”, come diceva mia madre. Allo stesso tempo, però, le scarpe sono associate alla sporcizia personale di chi le indossa: la “vecchia scarpa puzzolente” diventa così una pietra di paragone culturale, un simbolo di tutto ciò che è sudicio nel corpo umano. Nella sitcom statunitense _Sposati… con figli _(1987-97) gli autori, dovendo scegliere il mestiere più umiliante possibile per il personaggio di Al Bundy, gli fanno fare il venditore di scarpe. Nella psicologia popolare delle persone che si eccitano sessualmente per le scarpe, si osserva spesso che l’eccitazione nasce proprio dall’autocompiacimento nel prostrarsi davanti a un feticcio tanto umile e squallido.

Christian Dellavedova

Il fatto che la scarpa sia considerata un oggetto corrotto, tuttavia, non impedisce al mercato calzaturiero mondiale d’incassare più di 200 miliardi di dollari ogni anno. Qualunque essere umano che viva in una cultura anche lontanamente tecnologizzata possiede almeno un paio di scarpe. Naturalmente alcuni ne possiedono molte di più, e questo surplus è diventato un famigerato simbolo di status. Quando la first lady delle Filippine Imelda Marcos fuggì dal suo paese dopo la rivoluzione del 1986, i giornalisti scrissero increduli che in casa aveva tremila paia di scarpe. La cifra è stata successivamente ridimensionata a poco più di mille, ma la passione di Marcos per le scarpe dimostra quanto valore culturale sia attribuito a questo oggetto.

Il fascino della scarpa, però, non si discosta mai troppo dalla sua intrinseca volgarità. I racconti della collezione di scarpe di Imelda Marcos erano in sintonia con l’ostentato consumismo yuppie negli anni ottanta, ma apparivano ancora più sordidi perché gli oggetti in questione erano considerati “pedestri”. Altre prove dell’oscena ricchezza della famiglia Marcos – le ville sterminate, gli animali esotici, i vestiti e i gioielli – non attiravano la stessa indignazione. Quando Carrie Bradshaw, la protagonista della serie tv _Sex and the city _(1998-2004), esce per comprare un paio di scarpe come mezzo terapeutico per affrontare le pressioni della città, o quando su YouTube il comico statunitense Liam Kyle Sullivan canta di una vita dedicata all’acquisto di scarpe, in sottofondo c’è un’ironia analoga: in entrambi i casi, la situazione è comica perché avvertiamo un’incongruenza tra l’importanza che si attribuisce a questi oggetti e la “banalità noiosamente invadente” associata alle scarpe. C’è un’ambivalenza, una duplicità in cui apprezzamento e disprezzo hanno lo stesso peso e che ha trovato la sua sintesi perfetta nella moda delle “scarpe minimaliste” di metà anni 2000, costosissime calzature _high tech _che promettevano di imitare la sensazione di non portarle: la scarpa che scompare da sola.

Questa duplicità emerge anche da un episodio chiave della storia recente. Uno dei momenti più significativi della storia bellica del ventunesimo secolo è stato il giorno della “scarpa udita in tutto il mondo’’, il 14 dicembre 2008, quando il giornalista iracheno Muntadhar al Zaidi si sfilò entrambe le scarpe e le scagliò contro il presidente degli Stati Uniti George W. Bush durante una conferenza stampa a Baghdad. Questo genere di attacco all’arma calzaturiera ha una lunga tradizione, da Nikita Chruščev che sbatte la scarpa sul tavolo all’assemblea delle Nazioni Unite nel 1960 al bombardamento di scarpe contro la statua rovesciata di Saddam Hussein a Baghdad nel 2003. Anche se nessuno dei due proiettili di Al Zaidi centrò il bersaglio, l’importanza del suo atto di protesta stava nell’aver usato uno dei più antichi manufatti della tecnologia umana come strumento di resistenza contro le tecnologie avanzate delle forze armate statunitensi. Il fatto che un oggetto tanto modesto e banale venisse usato per umiliare la persona più potente del pianeta era in un certo senso il simbolo della precarietà della posizione degli Stati Uniti in Iraq. Ma soprattutto, l’episodio mostrava come le tecnologie quotidiane usate dalla gente comune possedessero una sorta di resilienza che non aveva eguali nemmeno nell’apparato militare più tecnologicamente avanzato della storia. Nella sua stessa identità di oggetto umile e insignificante, la scarpa di Al Zaidi esercitava una potenza devastante.

Il significato sociopolitico delle calzature emerge già da questi esempi della storia recente. Ma è nella letteratura che la profondità metaforica della scarpa viene espressa in modo ancora più articolato. Uno dei simboli culturali più antichi di maestria e perizia tecnologica sono talari, i sandali alati indossati dal dio messaggero Hermes, forgiati dal fabbro mitologico Efesto e prestati a Perseo per aiutarlo a sconfiggere le forze della magia della natura rappresentate dalla gorgone Medusa. Le scarpette di cristallo di Cenerentola e le scarpette color rubino che Dorothy indossa nel film _Il mago di Oz _(1939) non sono altro che reincarnazioni dei talari. Anche qui, però, c’è un’ambivalenza sotterranea legata al potere delle calzature. Lo status mitico delle scarpette di vetro di Cenerentola deriva probabilmente dal fatto che, quando le indossa, la ragazza ha la strana impressione di essere scalza: in questo senso sono la scarpa minimalista per eccellenza. Nella loro cristallina trasparenza, strappano l’eroina dalla noiosa ordinarietà del suo mondo di cenere, stracci e sporcizia (la sporcizia della Terra) per trasportarla in un mondo celeste di privilegi e libertà. Quando però Cenerentola fugge dal ballo a mezzanotte, una di queste scarpe magiche viene “smarrita”, quasi a sminuirne il ruolo nel passaggio tra un regno e l’altro. Una volta smarrita, è restituita al mondo quotidiano, spogliata della sua magia, consentendo al principe di rivendicare Cenerentola al di fuori del mondo incantato in cui l’ha incontrata.

Nel Mago di Oz, Dorothy riceve le scarpette color rubino da Glinda, la strega buona del nord, e le indossa durante le sue peripezie cercando di trovare il modo per tornare a casa in Kansas. Dorothy le usa per camminare come farebbe con un normale paio di scarpe, ignara dei loro poteri magici fino alla fine del viaggio, quando Glinda le spiega ciò non le aveva detto all’inizio: le scarpette color rubino che ha indossato per tutto questo tempo hanno il potere di riportarla a casa. Se Dorothy lo avesse saputo fin dall’inizio, non avrebbe mai vissuto le avventure sconvolgenti che le scarpette color rubino le hanno permesso di affrontare svolgendo la loro comune funzione quotidiana. Il potere della scarpa, quindi, deriva in parte dal fatto di essere un oggetto trascurabile. Sia _Cenerentola _sia _Il mago di Oz _drammatizzano l’impulso a reprimere la consapevolezza del suo ruolo fondamentale nelle vicende delle due protagoniste, suggerendo che il vero potere delle calzature è nella loro capacità di camuffarsi come oggetti ordinari e non magici.

Una variazione più macabra sul tema delle scarpe magiche è quella della favola _Le scarpette rosse _(1845) di Hans Christian Andersen. La storia ha inizio quando la giovane protagonista, Karen, mostra di non aver capito il loro significato metafisico indossando irrispettosamente il suo nuovo paio di scarpette rosse in chiesa. Questa si rivela non solo una caduta di stile, ma una violazione fondamentale dell’ordine cosmico. Quando Karen, con le scarpette rosse ai piedi, comincia a ballare e non riesce più a smettere, la sua vanità viene punita. Un angelo le dice che dovrà ballare anche dopo la morte. Karen supplica un boia di tagliarle i piedi ma questi, una volta amputati, continuano a danzarle intorno coprendola di vergogna e precludendole per sempre l’ingresso in chiesa.

Quella di Karen è una classica storia di vendetta tecnologica, in tutto e per tutto simile a quelle raccontate in film come _Matrix _(1999) o _Terminator _(1984), in cui la tecnologia si rivolta contro gli esseri umani e li rende schiavi. Nel 1964 il filosofo canadese Marshall McLuhan osservò che la tecnologia estende le facoltà umane (la scarpa è un’estensione del piede) ma si traduce anche in una “autoamputazione suicida” (attraverso la sostituzione del piede biologico con una protesi tecnologica). L’incapacità di Karen di capirne il significato la condanna a sperimentare la teoria di McLuhan in modo tanto letterale quanto raccapricciante.

Nel film di Michael Powell ed Emeric Pressburger _Scarpette rosse _(1948), tratto dal racconto di Andersen e ambientato in una compagnia di danza moderna, sono le scarpe stesse a lanciare un monito sugli effetti amputativi della tecnologia. Un famoso regista, Boris Lermontov, è convinto che la dedizione al balletto implichi una totale rinuncia alla propria umanità, e la talentuosa ballerina Vicky Page (Moira Shearer) è costretta a scegliere tra la perfezione tecnica della danza e il suo coinvolgimento amoroso con il compositore delle musiche dello spettacolo. Quando Vicky indossa le scarpette rosse, la sua scelta la condanna alla stessa sorte di Karen: le scarpe cominciano a muoversi e a spostarsi da sole, spingendola giù da un balcone e sotto le ruote di un treno in corsa. Dopo la sua morte, la compagnia mette ugualmente in scena il balletto con un riflettore puntato su uno spazio vuoto, come se Vicky fosse stata amputata dalla storia. La cinepresa fissa sulle scarpe mentre Vicky salta giù dal balcone segnala al pubblico che sono loro, e non chi le indossa, ad avere il controllo, piegando la vittima ai propri scopi imperscrutabili. Gli altri personaggi del film sono probabilmente convinti che Vicky abbia agito “di propria volontà”. Le scarpe sono al di sopra di ogni sospetto.

Siamo tutti Cenerentola e Dorothy, Karen e Vicky, spinti verso il futuro dal potere magico delle nostre scarpe, che pure disprezziamo e trascuriamo, a volte dimenticandoci di averle ai piedi. In un passaggio cruciale del romanzo di Don DeLillo _Underworld _(1997), un prete gesuita tenta di insegnare a Nick Shay, un giovane delinquente, ad apprezzare l’interdipendenza tra linguaggio e percezione. Padre Paulus si lamenta che l’educazione dei giovani si concentra troppo sulle idee astratte: “Ti servirebbe di più guardarti una scarpa e nominarne le parti”. Sfidato a farlo, Nick è in grado di riconoscere le stringhe, la suola e il tacco, ma il prete lo invita a guardare più da vicino e a individuare il risvolto, il rinforzo, il dorso, la tomaia, gli occhielli, l’aghetto, l’anellino, la guarnizione, la linguetta e il guardone.

Padre Paulus presenta l’umile scarpa come un oggetto che sta all’estremo opposto del continuum con il regno delle idee trascendenti di cui i sacerdoti gesuiti come lui, in teoria, dovrebbero occuparsi; quando l’oggetto viene esaminato nel dettaglio, tuttavia, rivela una complessità nascosta, un universo di linguaggio e di storia che abbiamo ogni giorno davanti agli occhi ma di cui non riusciamo ad accorgerci. Imparare ad apprezzare questa complessità è un passo fondamentale nell’educazione di Nick. Il tramite è proprio l’oscura, umile scarpa, con la sua capacità di farsi simbolo di un mondo più ampio che filtra sotto la soglia della percezione comune.

La scarpa si trova su una soglia misteriosa: appartiene alla Terra, ma è anche un pezzo del nostro corpo. È un oggetto che ci separa dalla Terra e che, allo stesso tempo, ci apre un mondo. È venerata e banalizzata, e i due aspetti sembrano paradossalmente imperniati l’uno sull’altro. Soprattutto, il modo in cui pensiamo le scarpe si ripercuote sulla nostra percezione di noi stessi, come individui e come specie, in quanto (quasi tutti) portatori di scarpe. Queste ambivalenze sono rivelatrici perché mettono a nudo una serie di conflitti elementari sul rapporto che abbiamo con la natura, la tecnologia e il nostro corpo. Senza scarpe, sulla spiaggia, mi sono sentito liberato dalle costrizioni sociali ma anche, stranamente, privato delle mie possibilità, come se oltre che delle scarpe, mi fossi spogliato del mio io. Ora, di nuovo calzati, i miei piedi e la mia individualità possono tornare al loro carapace, protetti, costretti, avvolti dal morbido torpore del mondo ricoperto di cuoio. ◆ fas

Randy Laist

è professore d’inglese alla Goodwin university di East Hartford, nel Connecticut. Questo articolo è uscito su Aeon con il titolo What do shoes do?

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1377 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati