Nello stato di Oaxaca, nel Messico meridionale, vive quasi un terzo delle popolazioni native del paese, che parlano almeno sedici lingue e decine di dialetti diversi. Nella regione è concentrata circa la metà delle specie faunistiche e floreali del Messico, tra cui mostri di Gila, giaguari e l’albero di Tule, la pianta dal diametro più ampio del mondo, più di dodici metri. In questa regione, tra le più ricche di biodiversità e cultura delle Americhe, ora si prova a ripensare la tecnologia.
Tutti credono che le innovazioni tecnologiche nascano nei laboratori della Silicon valley, nelle aziende cinesi e nelle migliori università del mondo. Ma secondo Peter Bloom, cofondatore delle Telecomunicaciones indigenas comunitarias (Tic) e della sua organizzazione internazionale gemella chiamata Rhizomática, “nella Silicon valley c’è gente che inventa problemi e poi le soluzioni a quei problemi. Ma quelle soluzioni non tengono conto della realtà di nessuno”.
Create nel 2012 da un gruppo di hacker, attivisti e leader delle comunità indigene della regione, le Tic discendono da secoli di movimenti politici di base e teorie che sottolineano l’importanza dell’autonomia, della condivisione e della collettività. Dalla sede nella città di Oaxaca, le Telecomunicaciones hanno realizzato reti cellulari indipendenti in almeno 63 comunità native (zapoteca, mixteca e mixe), diventando la più vasta rete di telefonia mobile comunitaria del mondo.
L’iniziativa ha garantito un servizio giornaliero a più di 3.500 persone anche se le condizioni per creare sistemi di telecomunicazione in Messico sono tra le più avverse del pianeta: altitudine, pioggia, fitte foreste e mancanza di altre infrastrutture affidabili come la fornitura di elettricità.
Ribaltare le priorità
Mentre le aziende concorrenti come TelCel e Movistar impongono prezzi che i loro clienti non possono controllare né negoziare, le Tic offrono un servizio a basso costo che appartiene alla comunità degli utenti. Invece di usare l’accesso alla tecnologia per estorcere più soldi possibile a una popolazione già povera, le Tic si basano sui valori di autodeterminazione radicati nelle culture autoctone del paese, per tracciare un percorso verso la democratizzazione della tecnologia.
Le comunità che usano le Tic si trovano nelle regioni di Sierra Juárez, Mixe-Alto, Mixteca e Sierra Sur, che circondano la valle di Oaxaca. Villa Talea de Castro è stato il primo comune ad aderire al collettivo nel 2012, e nel tempo se ne sono aggiunti altri tredici. Le Tic hanno reso possibile la costruzione di stazioni radio base e un sistema di telefonia mobile efficiente ed economico, e allo stesso tempo hanno trasformato gli utenti in proprietari e creatori delle loro reti.
Un territorio rurale e poco popolato e il basso reddito dei popoli nativi dello stato di Oaxaca avevano lasciato molte comunità senza internet né copertura per i cellulari. Succede in tutto il mondo: le reti si creano e gli utenti sono “serviti” nei luoghi in cui la gente ha i soldi.
A causa di questo modello prevalente, di solito le comunità indigene sono le ultime a essere collegate alla rete mobile e in alcuni casi sono completamente escluse dai servizi. Quando gli operatori telefonici guardano alle comunità di utenti con questa gerarchia in mente, le trattano come gruppi di persone bisognose pronte ad accettare progetti infrastrutturali a qualunque costo, a prescindere da chi li sviluppa (e ci guadagna).
Non dev’essere per forza così. E se invece di pensare alle comunità di utenti come a clienti li umanizzassimo, elevandoli ad agenti creativi, innovatori, proprietari, imprenditori e progettisti delle loro reti di comunicazione e tecnologie? E se le stesse comunità fossero al primo posto nelle scelte politiche, economiche, progettuali e culturali necessarie per portare la rete cellulare nella loro vita?
La maggior parte delle comunità connesse dalle Telecomunicaciones indigenas comunitarias attualmente gestisce delle reti autonome e ne cura la manutenzione. Ogni comunità ha una stazione radio base che funziona con il sistema Gsm, ed è collegata a internet grazie ad accordi con i provider, le aziende che forniscono l’accesso. Gli utenti fanno telefonate a lunga distanza usando la tecnologia Voice over internet protocol (Voip, che permette di chiamare usando la rete internet invece della normale linea telefonica). E per le telefonate, anche quelle interregionali, pagano un canone di manutenzione che ha un costo molto più basso delle tariffe commerciali.
Le Tic hanno progettato la tecnologia in funzione delle loro comunità di utenti. Bisogna precisare che le chiamate a lunga distanza, anche all’interno del Messico, spesso passano attraverso server che si trovano negli Stati Uniti. Ma nonostante questo gli utenti telefonano ai parenti a Los Angeles e in altri luoghi degli Stati Uniti per pochi centesimi, una frazione di quello che paga chi vive nelle grandi città messicane.
Un esempio naturale
Le Tic sono una piccola organizzazione non profit con sei dipendenti a Oaxaca e due a Città del Messico, ma competono con i gestori internazionali. Supportano il potenziale delle comunità per assicurare ai loro abitanti l’accesso alla rete, mentre le grandi aziende non ci riescono. Inoltre favoriscono una cooperazione di grande valore economico e culturale.
Mentre le aziende di telecomunicazioni chiedono agli utenti di pagare l’accesso senza decentralizzare la proprietà, le Tic danno il comando alle comunità di utenti. Gli abbonati pagano 42 pesos messicani al mese (circa due dollari) e gran parte di questi soldi restano nella comunità per pagare le aziende che forniscono i servizi, l’elettricità e la manodopera.
I diritti di comunicazione spesso sono inquadrati in contesti generali, pubblici o nazionali. Ma quando si tratta delle comunità indigene, con le loro lingue e tradizioni e con la loro lunga storia di persecuzione, le Tic ci mostrano che i gruppi più oppressi possono diventare degli innovatori dell’era digitale.
Rhizomática, l’organizzazione non profit che ha contribuito a creare le Tic, ha scelto il suo nome ispirandosi ai filosofi francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari, che svilupparono il concetto di “rizoma” per rifiutare l’idea che la conoscenza fosse prodotta centralmente e poi passata ai margini. Nel rizoma la conoscenza è decentralizzata, una rete fatta da molteplici punti di entrata e uscita collegati lateralmente.
Il termine deriva dalla botanica, in cui indica il fusto sotterraneo orizzontale di una pianta erbacea da cui si sviluppano radici e steli. Il rizoma non è organizzato secondo un modello centralizzato, singolo e fisso. Cresce verso l’esterno in molteplici direzioni contemporaneamente, fornendo un modello per un pensiero non lineare e multiforme. Le ricerche hanno mostrato che il rizoma di una pianta non esiste in modo isolato, ma è collegato ad altre piante e funghi in un rapporto simbiotico che gli permette di restare sani e sviluppare sistemi di comunicazione complessi. Secondo il micologo statunitense Paul Stamets, queste reti sono “l’internet naturale della Terra”.
Le nuove conoscenze del mondo naturale possono influenzare il modo in cui gli esseri umani concepiscono le loro reti digitali? Il rizoma può aiutarci a immaginare tecnologie alternative che riequilibrino i poteri, mettano in guardia i nostri vicini dalle minacce, rispettino la sovranità delle comunità e ci consentano d’imparare gli uni dagli altri? Sono le domande che motivano gli sforzi di Rhizomática. Le Tic vogliono sostenere le comunità. Ma dovremmo chiederci cos’è una comunità e cosa significa davvero per la tecnologia sostenerla. La risposta non è scontata: va cercata nell’autodeterminazione, nei valori e nelle priorità di ogni comunità.
Nel Messico meridionale “comunità” non ha lo stesso significato che a San Francisco, Pechino o Nairobi. E neanche quello che ha su Facebook, perché una comunità tecnologica non rende il senso più profondo del termine nelle nostre esperienze di vita. Gli abitanti dello stato di Oaxaca connessi alle Tic sono in gran parte contadini indigeni che coltivano appezzamenti sui fianchi terrazzati di ripide foreste nebulose, una terra preziosa per cui la popolazione locale ha sistematicamente rischiato la vita.
In realtà l’idea di comunità, diritti indigeni e autonomia diffusa a Oaxaca è legata a una storia molto più familiare, quella del sollevamento dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale.
Nel 1994 il movimento indigeno zapatista guidò e vinse una rivolta per l’autonomia delle terre rurali e ricche di foreste nel vicino stato del Chiapas. Il movimento contestava la spinta del governo alla privatizzazione delle terre e delle risorse naturali. Si costituirono centri regionali, i caracoles (chiocciole), con nomi come “Resistenza verso una nuova alba” e “Madre delle chiocciole di mare dei nostri sogni”. La metafora della chiocciola pervade l’iconografia e la coscienza zapatista.
Semi tecnologici
Questo riferimento culturale ereditato dai progenitori maya cattura poeticamente il modo di essere e conoscere delle popolazioni native – lento, circolare, riflessivo, concentrico – essenziale nella vita e nelle storie della regione. I caracoles servono come luoghi di resistenza al governo messicano, ma anche come aperture al mondo, percorsi a spirale attraverso cui sono negoziati il dentro e il fuori.
Questo stile di vita è spesso narrato dagli zapatisti come “un altro mondo” in contrasto netto con gli iperstimolati motori globali del libero mercato. Per le comunità native la terra dove si trovano i caracoles, abitata dai maya più di mille anni fa, non è inanimata. Non può essere definita con i parametri sterili del valore oggettivato, come una proprietà o una risorsa quantificabile. È una forza attiva, protagonista nella vita dei popoli nativi e fondamentale per il loro sostentamento economico.
Invece le aziende di telecomunicazioni in America Latina storicamente hanno visto in modo diverso il popolo e la terra del Chiapas o dello stato di Oaxaca. Li hanno considerati entità separate, quantificabili, perfino una materia prima da estrarre. “Pochi corpi e non abbastanza denaro”, sintetizza la logica usata per giustificare la mancanza di capitale e investimenti infrastrutturali in queste comunità.
Le grandi aziende considerano le remote zone di alta quota e le loro foreste pluviali troppo precarie per le infrastrutture, mentre la popolazione è troppo esigua (e non abbastanza ricca) per meritare gli investimenti. E anche se un grande operatore come Movistar o TelCel offrisse la connessione alla rete di telefonia mobile alle comunità indigene, probabilmente applicherebbe tariffe esorbitanti, molto più alte di quelle in vigore nelle città.
Per realizzare la rete cellulare delle Tic, squadre di attivisti, hacker e persone delle comunità hanno condotto numerose battaglie legali a livello nazionale e internazionale solo per avere accesso alla banda radio (lo spettro elettromagnetico usato dalle reti mobili) che oggi è dominata dai grandi operatori. Per costruire il sistema hanno progettato e sviluppato infrastrutture decentralizzate, un’innovazione che dipende dalla partecipazione e dalla leadership della comunità. Secondo i dirigenti delle Tic, le onde radio dovrebbero essere un bene pubblico accessibile a tutti senza distinzione, come l’acqua e l’aria.
Un sistema d’innovazione poco riconosciuto ma potente chiamato “pensiero del mondo rotto” può spesso nascere in ambienti segnati da costrizione, inaccessibilità ed esclusione sistematica. Loreto Bravo, un’attivista radio che vive nello stato di Oaxaca, descrive lo sforzo delle Tic come un “tecno-seme che vive in un ecosistema comunitario; un ponte etico e politico tra la comunità hacker del movimento per il software libero e la comunità dei popoli indigeni della regione, nel sudest del Messico”. E sottolinea come il progetto unisca gli attivisti della tecnologia, preoccupati di controllare il potere degli operatori telefonici e i sistemi di sorveglianza, con i popoli indigeni che vogliono una maggiore sovranità sulla loro vite.
Collettività
I filosofi indigeni di Oaxaca, tra cui Jaime Martínez Luna e Floriberto Díaz Gómez, definiscon0 comunalidad l’idea per cui comunità e interdipendenza sono il cuore della vita, non l’individuo, il suo senso del sé o la sua illusione di libertà.
Nel libro The wealth of the commons (La ricchezza dei beni comuni) Gustavo Esteva spiega che questa filosofia consiste nel “togliere l’economia dal centro della vita sociale, ritrovare un modo di vita comunitario, incoraggiare il pluralismo profondo e avanzare verso la vera democrazia”.
La comunalidad non è una teoria politica astratta, ma un concetto caro e vicino alle lingue e alle pratiche di gran parte delle comunità native rurali. Si realizza attraverso le asambleas, cioè riunioni di centinaia di persone della comunità che discutono e poi votano su questioni d’interesse comune. Anche le Tic si organizzano con assemblee collettive a cui partecipano le comunità che ne fanno parte. Secondo Esteva, in tutti gli aspetti della vita sociale e culturale, la comunalidad è in contrasto con l’approccio atomizzante adottato dalle grandi aziende delle telecomunicazioni, che stipulano contratti individuali.
Visitando la regione di Oaxaca dove ci sono le Tic ho visto con i miei occhi il potere della comunalidad, uno strumento per collegare ogni persona alla collettività. Ad alcuni “l’unione comunitaria” può sembrare claustrofobica. Per i nativi questo coinvolgimento non è un limite, ma è una gratificazione: come componenti della comunità con un indiscusso posto a tavola e un ruolo prezioso da svolgere, sono persone con cui condividere le gratificazioni della vita comunitaria. Non solo qualcuno a cui si deve offrire “una fetta della torta”, ma un vicino la cui compagnia rende il dolce molto più buono. ◆ gc
Ramesh Srinivasan è uno studioso statunitense che si occupa di relazioni tra tecnologia, politica e società. Insegna informazione e _design media arts _all’università Ucla di Los Angeles.
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Questo articolo è uscito sul numero 1411 di Internazionale, a pagina 62. Compra questo numero | Abbonati